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“La virtù dell’ elefante” di Paolo Isotta – Recensione di Antonio Juvarra

Creato il 01 dicembre 2014 da Gianguido Mussomeli @mozart200657

Ho da poco finito di leggere l’ ultima  creazione letteraria di Paolo Isotta. Premesso che le oscenità degne della bassa truppa di una caserma lanzichenecca che troverete nelle citazioni sono solo una parte infinitesimale delle volgarità contenute nel ponderoso tomo, non ho difficoltà ad ammettere che non sarei stato capace di scrivere una recensione su un testo che è, a tutti gli effetti, un’ arma diffamatoria impropria, ossia nascosta dal pretesto della musica, che è la vera grande assente di questo libro. Pertanto lascio la parola al maestro Antonio Juvarra, sempre gradito ospite di questo sito, che mi ha inviato il seguente resoconto. Buona lettura.

‘LA VIRTU’ DELL’ELEFANTE’ DI PAOLO ISOTTA

L’ animale che dà il titolo al nuovo libro di Paolo Isotta è il mitico elefante dalla memoria prodigiosa, al quale l’autore simbolicamente afferma di volersi ispirare, ma via via che ci si inoltra nella lettura del libro, sempre più si fa strada il sospetto che a ispirarlo non sia l’elefante, ma un ben diverso animale e precisamente quella ‘variante sorcina’, che Isotta chiama, alla napoletana, “zoccola”.
La zoccola che piscia spudoratamente sui monumenti (Italo Svevo e Claudio Magris in primis) si rivela infatti la vera musa ispiratrice del polpettone autobiografico di Isotta, il quale ama anche scorrazzare con ripetute incursioni (veri e propri Leitmotive di un’ epopea che però riesce al massimo ad assurgere al livello di una sboccata ‘Novella 2000’) in una dimensione particolare cui Isotta dà il nome di “recchioneria.”  Apprendiamo quindi dal musicologo Isotta nozioni fondamentali da lui apprese ‘sul campo’, ad esempio la distinzione tra “ricchioni velati”, “marchette”, “ricchioni ricchi”, “femmenielli”, nozioni magari anche interessanti, ma più per un recchiologo che per un musicologo. In effetti al quinto episodio  ‘boccaccesco’ (si MINIMA licet componere magnis…) avente per protagonisti “ricchioni”, “ricchioni mezzi preti” e “femmenielli” anonimi, incontrati al cinema o al cesso, il povero lettore incomincia a essere pervaso da un terrore: che le successive quattrocento pagine (!) del libro che lo attendono, siano basate su questa stessa ricetta.
Così del pianista Vincenzo Vitale, la “memoria elefantina” dell’ Isotta registra pensieri sublimi ed eventi di fondamentale importanza per la musica, come il seguente:

“Il Maestro mi raccontò che frequentava un cinema della Ferrovia, portante il poeticissimo nome mitologico di ‘Iride’. Una volta s’ erano accese le luci e, proprio sotto lo schermo, un uomo era stato sorpreso che ancora si attardava, inginocchiato, a fare un bocchino a un ragazzo.”

Ma il Maestro Vitale confida anche le sue esperienze erotiche personali al suo evangelista Isotta, il quale diligentemente ne prende nota per consacrarle alla Storia, sicché solo grazie a lui  siamo in grado ora di sapere di quella volta che il Maestro, in Germania per un concerto, preso da “un bisogno fisico inconcusso, ebbe un rapporto erotico con un ufficiale delle SS in divisa..”  (sic e sigh…)
Si può dire che l’ innominabile riflesso pavloviano di Isotta agisce sempre, in maniera più o meno sotterranea, come una calamita o un vero e proprio richiamo della foresta per tutto il ‘libro’ tanto che, pur di sguazzarci con la fantasia, l’ autore si concede lunghi e penosi ‘fuori tema’ come il seguente:

“V’ era un grande compositore, il maestro Mario Persico” (?) “intimo amico di papà e celebre chiavettiere e battutista. Una volta durante un’ esecuzione del Don Juan di Strauss, all’enunciazione del famoso tema di carattere vitalistico, disse a papà: ‘questo è il mio cazzo, quando si erge!’ ”

Ancora una volta, dunque, la memoria elefantina di Isotta (combinata con la sua ineguagliabile capacità di analisi musicale), in missione speciale al servizio della Conoscenza, registra frasi memorabili, consacrate in tal modo all’ eternità! Ed è sempre grazie all’ elefante eponimo e a S. Gennaro, protettore ufficiale di Isotta, che i fortunati lettori non rischiano di perdersi, subito dopo, un’altra massima di valore universale del medesimo “grande compositore” (?!) Mario Persico. (??) Ecco l’ evento che funse da provvida matrice. Alla fine del concerto di due anonime amiche pianiste, il suddetto “grande compositore” (sic) si affaccia al loro camerino, dicendo: “Brave! Brave!”.  Dopodiché

“fuori dalla porta delle due, rivolto agli astanti in corridoio, alludendo delicatamente alla natura del rapporto tra le due signorine di buona famiglia, disse: “Fanno le scene col cazzo di gomma!”

E con questo doppio ‘tocco di classe’ (del Maestro Persico e del Maestro Isotta) si conclude il capitolo 14 (ahinoi, di 21…), tocco di classe  subito bissato all’ inizio del capitolo successivo, dove si narra di quella cena dal sovrintendente della Scala Fontana, in cui Isotta (questa volta nella veste non solo di storico, ma anche di protagonista), disquisendo amabilmente coi commensali riguardo a una signora di cui ci si chiedeva se avesse mai avuto rapporti sessuali col marito (novello dialogo dei massimi sistemi…), si fa apprezzare per la sua sibillina e lapidaria frase: “le ragnatele!”, “per significare”, chiarisce contestualmente per i futuri storici l’ autore, “che sull’ organo della signora s’ erano depositate le ragnatele perché il marito non la visitava…”
Veri e propri simposi platonici, insomma, quelli cui partecipava Isotta dopo le prime alla Scala, a giudicare dagli argomenti trattati e dai ‘particolari’ riferiti con sì fine, inimitabile gusto, e direi del tutto degni delle recensioni che poi redigeva in italiano strettamente goliardico-arcaico.
In effetti l’ ineffabile Isotta non è solamente storico delle imprese e sentenze altrui, ma anche delle proprie e qui si passa direttamente al patetico, a tal punto da fare sorgere il sospetto che il dandysmo “ricchione” di cui si fa vanto, gli abbia dato alla testa, alterandogli le normali funzioni logiche. Nella sua patetica autocelebrazione Isotta infatti dipinge se stesso come la vittima di congiure che gli avrebbero impedito di vincere concorsi universitari e di esercitare la funzione di critico musicale, per cui era stato assunto al Corriere della Sera. Senonché a pag. 162 è proprio Isotta a darci questa scheda valutativa professionale di se stesso come musicologo:

“Interi territori della musica mi erano preclusi. Verdi lo conoscevo poco (e non lo rispettavo!)  Per giunta la mia formazione mi portava a una presa di posizione sul Novecento di pazzesca cretinaggine: odiavo Schoenberg, Berg e Webern!  Davo giudizi sulle esecuzioni del tutto tranchants e non sapevo nulla. Mi andò sempre liscia. Se il me stesso di oggi avesse davanti a sé un ragazzino presuntuoso e bluffatore come io ero, lo manderebbe al Lager.”

Peccato che stavolta, con un corpo del reato del genere in mano (il ‘libro’ in questione),  non si possa proprio far finta di niente. Se Isotta ha smesso di bluffare, è solo perché ormai non tenta nemmeno più di simulare una qualsivoglia attività argomentativa.  I suoi giudizi procedono per affermazioni apodittiche da ‘ipsa dixi’ (concordanza ‘ad cognomen’) o si potrebbe dire, meno eufemisticamente, che Isotta scambia per giudizi critici obiettivi le sue personali secrezioni ormonali e, quel che è peggio, tratta, di conseguenza, le povere teste dei lettori come i suoi pannolini intimi. “I pannolini della cameriera” in effetti sarebbe stato il titolo più appropriato di questo ‘libro’ e, più precisamente, i pannolini della cameriera che ha appena finito di spiare dal buco della serratura della stanza dei padroni e non vede l’ora di spettegolare con la sua amica. Ecco infatti come procede la sua finissima analisi ‘musicologica’.
Carlo Maria Giulini?

“Era così avaro che continuava a portare i pantaloni a zampa d’elefante degli anni Settanta e un cappello a larghe tese come quello che Vittorio Caprioli porta nell’anticamera del commendator Discordi in Totò a colori.”

Leyla Gencer?

“Negli anni Settanta Gavazzeni aveva per amante il soprano turco Leyla Gencer, in realtà non proveniente da Istanbul, ma dal ghetto di Lublino. (….) La Gencer aveva le gambe notevolmente storte a tarallo. Un genio, il baritono Enrico Campi, disse un giorno a Diliberto: “Dottore, studiamo il passo, ché questa piscia tra parentesi!”  (sic)

Lanza Tomasi?

“Affettando una nobile sprezzatura, è solo ripugnante: si soffia il naso col fazzoletto da taschino, poi contempla lungamente il moccio, ripiega il fazzoletto e lo rimette nel taschino. Coll’ orlo della camicia ti potresti fare il brodo, dicono a Napoli…”

Luigi Dallapiccola?

“Dallapiccola potrebbe essere definito il dodecafonico dei miserrimi. (…..) La moglie era orrenda quanto il marito: era anche un’ ebrea col complesso dell’ ebraicità. Nel corso di una cena, mi raccontò Baldacci, i due parlarono con odio dell’ intero humanum genus.”

È qui che si staglia in tutta la sua inquietante figura la Tragedia; tragedia, ovviamente, tutta dei lettori, sottoposti a un simile trattamento!  In compenso essa ridiventa subito, per una sorta di nemesi, farsa, quando l’ inesorabile ‘smerdatore’ Isotta viene a sua volta smerdato, il che lo fa diventare, da imperturbabile e inesorabile “ricchione” dandy che era prima di essere smerdato, un “ricchione” cafone e vendicativo…

Scrive infatti eroicomicamente  Isotta di una di queste sue imprese:

“Carli Ballola aveva scritto una recensione del mio ‘Ventriloquo di Dio’ nella quale s’ era allineato al verbo dei Salotti… L’ho preso a sputazzate in faccia e a calci.”

Un vero duro di Chicago, insomma! O forse è il caso di parlare, con maggiore aderenza geografico-culturale, di un Peppino De Filippo che si atteggia a Giulio Cesare mentre pronuncia il fatidico: ‘veni, vidi, vici’, con immediata risata plateale del pubblico, che aumenta vieppiù tutte le volte che Isotta ricorre a un altro suo formidabile numero, ovvero quando accusa qualcuno che odia, di “avere la facies tipica del cornuto e dello jettatore”. Peraltro, questo asso nella manica Isotta se lo riserva per le emergenze, cioè per le dispute dialettiche particolarmente complesse, per cui  non sarebbe azzardato né inappropriato definire questo ‘argomento’, per analogia con l’ accordo di sesta napoletana, ‘argumentum parthenopeium’….
Sarebbe però limitativo soffermarsi solo sulla funzione di ‘martello della recchioneria musicale comunista’ svolta da questo libro e tralasciare le sublimi e originali folgorazioni filosofico-musicologiche, in esso contenute. Eccone una riguardante ‘La forza del destino’ di Verdi:

“La ‘Vergine degli Angeli’ è un’ alta meditazione lirica che trapassa nel metafisico, dandoci i brividi.”

(Diciamocelo: se non avessimo saputo che è Isotta, avremmo detto che era Kierkegaard, così come avremmo giurato, leggendo le “ricchionerie” della prima parte del libro, che provenivano, per stile e contenuto, direttamente dalla ‘Recherche’ di Proust…)
Nel corso del ‘libro’ Isotta, abusando della figura retorica dell’ umiltà, a un certo punto afferma di essere uno di quei nani sulle spalle dei giganti (gli antichi), di cui parlò nel Medioevo Bernardo di Chartres. C’ è un piccolo particolare, tuttavia, che Isotta ha ‘cura’ di tralasciare: nano indubbiamente lo è, però un nano che non si trova sulle spalle, bensì ai piedi di quei benemeriti giganti. A fare che cosa lo apprendiamo quando l’ autore si pregia di renderci edotti dell’ irresistibile attrazione erotica, suscitata in lui dai piedi (che non siano piccoli!) di una persona (figuriamoci di un gigante!), come diffusamente e dettagliatamente si premura di illustrarci in un altro passo del libro, quale preludio al racconto, cinicamente inflittoci, di una sua conquista erotica, coronata (a differenza di quella tentata col pianista Dino Ciani…) dal successo.
Così posizionato, questa volta il nano si mette a schizzare materiale organico non contro un anonimo gigante antico, ma contro un gigante vivente con nome e cognome, Claudio Magris, e lo squallore della situazione è dato dall’ evidenza del suo movente: la consapevolezza inconfessata che una pagina sola di questo autore vale tutti i suoi libri messi insieme.

Ma ecco gli ‘schizzi’ del nibelungo partenopeo:

“Claudio Magris si considera il rappresentante terreno del mediocre e sopravvalutato Italo Svevo e del mondo ebraico tutto: ma giù le zampe dal nano del colosso Elias Canetti!” (?!) “Vive a Trieste e fa anche la retorica della triestinità; recita la sceneggiata di scrivere al caffè, manco fosse Giuseppe Tomasi di Lampedusa che componeva al circolo Bellini.” (??!!) “Una volta un mio elzeviro aveva per incipit che il Cretino si riconosce dal fatto che incomincia ogni articolo con una citazione di Goethe o di Thomas Mann. Ferruccio De Bortoli mi telefonò dicendomi che avrebbe tagliato il passaggio, sennò gli avrei fatto avere un casino con Claudio Magris…”

In sostanza (da non nominare…): dopo centinaia e centinaia di pagine dedicate a cazzeggi imbarazzanti, aneddoti scemi, battute da film semi-porno con Lino Banfi, commenti superflui, digressioni interminabili, smargiassate egolatriche e altro ciarpame di serie D, il dottor Isotta non riesce a spremere dal cervello che mezza pagina per ‘motivare’ con argomenti ‘similrazionali’ il suo raptus di invidia diffamatoria contro Magris, reo soltanto di aver vinto il premio Campiello alla carriera. L’  ‘argomentazione’ di Isotta a riguardo è la dimostrazione che, se “il Cretino si riconosce dal fatto che incomincia ogni articolo con una citazione di Goethe o di Thomas Mann”, invece il  Trombone si riconosce dal fatto che riempie i propri ‘libri’ di citazioni latine e si esibisce in penosi numeri di snobismo e infantilismo patologico come il seguente.

Il premio Campiello ?

“Premesso che io lo rifiuterei, come rifiuterei qualsiasi premio giornalistico, per ottenerlo non mi basterebbe che smembrare il mio libro in quattro libri distinti e così sarei anch’ io tra i più illustri rappresentanti della cultura europea. I miei amici studiosi mi hanno infatti consigliato di fare di questo, quattro libri…”

Siamo insomma (e incredibilmente) ai livelli di “E io vinco quattro premi e tu no-o !”
A pagina 457 inoltrata del libro-smembrabile-in-quattro-libri-premiabili-con-un-Campiello-ciascuno (Dio non voglia!),  siamo ormai stremati dalla lettura e scopriamo sgomenti che ci rimangono ancora più di cento pagine da leggere! Su quali altri bersagli umani, ci chiediamo, si divertirà a schizzare merda adesso lo smerdatore? Colpo di scena: su nessun altro! Come Dante, lasciato l’ inferno, uscì a riveder le stelle, così Isotta si accinge a entrare nel suo paradiso di topo di biblioteca, mondo delle altrui sozzure, e ci propina enciclopedicamente niente di meno che una storia della poesia, della musica e della pittura, condensata in cento pagine. Purtroppo la forma mentis rimane irrimediabilmente quella del secchione che gode solo nello stilare  la graduatoria di chi ha preso i voti più alti, e quindi dobbiamo sorbirci una storia della musica, arte & letteratura a base di: ‘L’artista X, che è ritenuto dal volgo due volte più grande dell’artista Y, è in realtà cinque volte meno grande di lui, ma sei volte più grande dell’artista Z, ritenuto quattro volte più grande dell’artista Y…..’
Ecco come viene espresso questo geniale approccio critico in una frase originale, DOC, di Isotta, la quale per altro funge da vero e proprio invalicabile Limes per i lettori normali :

“Non si erra affermando che Virgilio è il più grande poeta di tutti i tempi e la sola figura artistica, insieme con Dante e Alessandro Scarlatti, di grandezza pari a quella di Wagner.” (???!!!!)

Cadiamo esausti sulla pagina che eterna questo lampo di genio e nell’augurare buon proseguimento ai colleghi di lettura, inoltriamo all’ autore, prima di lasciarlo per sempre, il seguente auspicio:
Esimio Maestro, col nome di Paolo Isotta e con le 589 pagine del suo libro lei è riuscito a scrivere un diario della serva alquanto soporifero. Accetti questo suggerimento: riprovi col nome di  Francesca Tristano o di Tristano Francesca (spesso i chiasmi fanno miracoli!) e forse, Sancto Januario adiuvante, potrà sembrare anche un musicologo. Ovviamente dovrà anche “smembrare” in quattro il suo libro, come consigliato dai suoi amici, ma non per farne quattro libri, bensì per tenerne uno solo, alleggerito degli altri potenziali tre, da buttare direttamente nella discarica.

Antonio Juvarra



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