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La vivace democrazia turca

Creato il 13 giugno 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Alberto Gasparetto

La vivace democrazia turca
Da ormai due settimane, le piazze delle principali città turche sono in fermento. All’origine delle proteste vi erano ragioni ambientaliste legate al progetto governativo di demolizione di Gezi Park, una zona verde presente in Piazza Taksim, simbolo della contestazione e cuore pulsante della multiculturale Istanbul. Al suo posto, il Governo a guida AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) ha previsto la ricostruzione della caserma militare demolita nel 1940 e la possibilità di edificare un centro commerciale. Ben presto, però, la vicenda ha finito per assumere tonalità diverse e si è allargata.

Per la prima volta dopo undici anni di dominio politico, la legittimità dell’AKP e del suo fondatore Erdoğan vengono messe in discussione. Ad agitare gli animi di migliaia di giovani, uomini e donne appartenenti a strati variegati della società turca e non necessariamente sensibili ai richiami delle posizioni ambientaliste, sono alcuni provvedimenti posti in essere da un Governo e da un Primo Ministro, Recep Tayyip Erdoğan, percepiti come sempre più distanti, se mai fossero stati vicini, dalle loro aspirazioni. Il Governo è accusato di voler implementare un’agenda islamica che ha quale scopo ultimo l’islamizzazione del Paese. Si va da una riforma del sistema educativo che prevede un maggiore ruolo per la religione, con il riconoscimento del diritto ad iscriversi all’università per chi si diploma in una scuola religiosa (imam hatip), alla prevista costruzione di due nuove imponenti moschee, alle limitazioni all’orario di vendita di alcol.

Si tratta di misure che rispondono ad una domanda proveniente dagli strati tradizionalisti della società turca oppure è corretto parlare di islamizzazione forzata dall’alto? Si badi, questo interrogativo non chiama in causa una questione puramente formale. Parte della stampa, infatti, ha finora dipinto gli eventi che stiamo commentando assumendo esclusivamente il punto di vista di chi protesta. Nelle ipotesi più estreme, l’azione del Governo turco è stata associata ad un processo di involuzione teocratica del regime, sull’esempio di quanto avvenuto in Iran nel 1978-79. Al contempo, le manifestazioni di dissenso organizzate dal basso sono state definite la «Primavera turca» e paragonate alle contestazioni avvenute nel mondo arabo nel 2011.

Il sistema politico turco e la stessa storia del Paese, dal 1923 ad oggi, testimoniano che la Turchia è l’unico Paese democratico a maggioranza islamica del Medio Oriente. La peculiarità è data dall’esistenza di una profonda frattura (il politologo Stein Rokkan parla appositamente di cleavages) fra islamisti e laici, probabilmente più grave di quella che esiste in Italia fra laici e cattolici. La religione, tuttavia, ha da sempre un suo statuto ed il modello adottato da Atatürk, fondatore della Repubblica, è quello francese della laïcité. Oggi, dal 2002 in particolare, questo modello – basato sulla relegazione della religione alla sfera privata e sul divieto di esibire sulla scena pubblica qualsiasi simbolo che riconduca ad un significato religioso – è messo in discussione dall’AKP.

Dopo l’ennesimo fallimento, avvenuto sotto la sigla del Refah di Erbakan nella seconda metà degli anni Novanta, i leader del movimento islamista si erano resi conto che per conquistare il potere politico e mantenerlo nel tempo – prevalendo sull’esercito, il principale avversario politico da fronteggiare – andava perseguita la prospettiva di adesione all’Unione Europea avviando un cammino di riforme interne volte a rafforzare lo Stato di diritto e, di conseguenza, ridurre il potere dei militari. Da sempre, l’esercito è il guardiano dei principi repubblicani e unico soggetto ad aver sospeso la democrazia per ben tre volte (un quarto intervento definito soft è avvenuto nel 1997, proprio per interrompere l’esperienza del Refah). Grazie a diversi pacchetti di riforme, oggi gli islamisti sono fortissimi, il loro controllo sulla stampa è pervasivo (la Turchia è il primo paese al mondo per numero di giornalisti in carcere), così come quello sulla giustizia e, con l’avvio del processo Ergenekon, hanno messo fuori gioco decine di avversari politici e di militari appartenenti al campo repubblicano.

Per quanto dura sia stata la repressione e per quanto dietro ad alcuni provvedimenti controversi adottati da Erdoğan vi sia una ispirazione islamica, la vicenda si configura più come un atto di imperio di un politico populista-autoritario in cerca di consenso che non come un mossa facente parte di un piano di islamizzazione del Paese, come sostengono legittimamente i manifestanti e parte della stampa. Gli slogan e i provvedimenti in campo culturale e religioso hanno sempre fatto parte dell’agenda politica del governo, che non ha mai nascosto la propria identità. Non partito islamista, etichetta che rifiuta, ma partito liberal-conservatore (liberale sul piano economico, conservatore sul piano culturale). E’ difficile negare che la società turca, per quanto diffusamente secolarizzata in seguito a decenni di esperienza di potere repubblicana, sia profondamente islamica dal punto di vista religioso e largamente conservatrice sotto il profilo dei costumi.

Certo, le proteste di questi giorni scoppiate a Istanbul e sviluppatesi in tutte le principali città del Paese rappresentano la reazione di una parte del popolo turco contro l’atteggiamento del Governo in politica e la “presa sui costumi” nella società. Ma c’è da scommettere che Erdoğan intenda lasciare un segno tangibile della sua rulership e lo fa adottando una concezione maggioritaria della democrazia, quella che, facendosi forza del largo consenso ottenuto alle elezioni politiche del 2011 (49,8%), si basa sul principio che con la maggioranza dei voti ci si senta legittimati a fare ciò che si vuole (o, se si vuole, ciò che l’elettorato di riferimento chiede) in barba alle richieste delle minoranze. Molto probabilmente, inoltre, nella speranza che il progetto di riforma costituzionale vada a buon fine, egli aspira a succedere al Capo dello Stato Abdullah Gül, con la previsione di un incremento dei poteri del Presidente della Repubblica, oggi limitati ad una funzione meramente cerimoniale.

Erdoğan non è interessato a fare della Turchia un regime teocratico basato sulla legge islamica, che neghi i decenni di secolarizzazione che sono stati veicolo di occidentalizzazione dei costumi e delle istituzioni. E’ assai più spinto da considerazioni più prosaiche legate alla sua permanenza al potere e, di riflesso, al suo indice di gradimento presso la società. La legittimità di cui egli gode non proviene solo dai ceti esclusivamente interessati al ruolo che la religione può giocare nella società, ma anche dalla borghesia anatolica, spinta dal desiderio di continuare a godere di una Turchia aperta con l’esterno e liberale dal punto di vista del mercato. Erdoğan, pertanto, fa un uso politico della religione e, consapevole della profonda frattura che in Turchia separa laici e religiosi, la sfrutta allo scopo di aumentare il consenso. Proibire la vendita dell’alcol in certi orari tratteggiando questa misura come morale o religiosa non equivale a fare della Turchia uno stato basato sulla shari’a. Per quanto democrazia incompiuta, la Turchia è pur sempre un Paese avanzato, moderno e fatto di istituzioni salde che in qualche modo sono inserite in un sistema di pesi e contrappesi. E’ quanto meno azzardato, se non addirittura bizzarro, paragonare tutto ciò (come invece ha fatto parte della stampa) alle Primavere Arabe o a sistemi dittatoriali come quello di Assad o di Gheddafi in cui non esistono istituzioni, non esiste ricambio politico, non esistono procedure. Regimi totalitari e/o pretoriani in cui la ribellione non ha modo di organizzarsi alla stregua di Piazza Taksim, senza avere la certezza di essere repressa nel sangue.

Insomma, da una parte, una protesta generalmente pacifica ma a tratti anche vivace, dall’altra, una polizia che, per quanto stia usando in una certa misura la mano forte, ha pur sempre fatto ricorso a gas lacrimogeni al posto di armi da fuoco. Tutto ciò segnala la vivacità della democrazia turca, il pluralismo della società e una coscienza giuridica sviluppata al punto che i cittadini sanno di poter avanzare pretese e diritti. Gli scontri di piazza fra manifestanti e polizia continueranno ancora per un po’, ma poi i meccanismi istituzionali del Paese canalizzeranno la protesta e alla fine prevarranno le procedure democratiche. Il vicinissimo 2014 costituirà il primo banco di prova in coincidenza del quale l’AKP e Erdoğan testeranno la loro legittimità – oltre alle Presidenziali, sono previste le elezioni amministrative. Nel 2015 si terranno quindi le politiche. Se Erdoğan risulterà sconfitto, vorrà dire che l’esperienza del governo islamico-conservatore sarà giunta al termine o, comunque, il suo successo si sarà arrestato; viceversa, se ancora una volta egli riuscirà ad imporsi diventando il nuovo «sultano», significherà che gli strati più laici e secolarizzati della società dovranno organizzarsi democraticamente ma con maggiore decisione per poter vedere realizzate le loro speranze.

* Alberto Gasparetto è PhD Candate in Science Politics and International Relations (Università di Torino)

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