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Ladri di galline

Creato il 15 aprile 2013 da Faprile @_faprile

Ladri di galline
https://controparola.wordpress.com/2013/04/12/ladri-di-galline/

 

Francesco Aprile
2013-04-11

2013. un cartello. una collina. le case ammazzano il cielo. tentano la rovina. come cade la notte. come cade. come cade se il vento non conosce più tempesta. un cartello. una collina. una casa di latta e cartone. un recinto ammaccato di nuvole. un cartello. “nel 2013 ancora ladri di galline”. come rutta la strada che piano sale lenta, stanca, smorta su quei tre passi di collina. come smotta la terra sott’ai piedi, e sott’al cemento degli anni e i rifiuti dei giorni. come trema la pensione di quell’uomo su quei tre passi di collina, come trema come, come quella di altri, tanti, nudi, uccisi sogni accorti ormai senza memoria. e mentre l’auto sale screma il verso, il ritmo della strada che asciutta, bagnata solo dal sole trema, trema, tremano le mura di latta e cartone, il recinto ammaccato di nuvole, lo spazio aperto di un sognare defraudato. e mentre l’auto sale lungo i verdi spezzettati di quei tre passi di collina, mulina un tempo immobile negli occhi in sprazzi di luce, forte densa che sfiora e dilata, abbaglia, anche, su quelle pietre bianche, nodose, che frastagliano incurvano la terra, i suoi rossi e verdi, acuti, su quelle pietre flette e dilata, abbaglia, come fossero un esercito di onde in tempesta.
poi salendo l’auto prese ad arrancare. come arranca il respiro dopo una giornata di lavoro. come smorza, il mare con le sue onde, il percorso di una nave. come fa il vento ad amare ad armare inconciliabili respiri e svolazzi di foglie. fermammo sotto un albero. il vecchio solito albero. solito come è solito il tempo che ondeggia tra le fronde. come quello che mille parole non dicono. solito come quello che mille gesti dicono, muti nel silenzio, di chi ancora conserva la gestualità di un parlare silenzioso coi luoghi. poi sedemmo sotto quell’albero. il vecchio solito albero. che un giorno immagino non ci sarà più. che un giorno immagino coperto da quattro corsie che asfaltano i ricordi. poi sedemmo sotto quell’albero. a fumare a parlare a fare silenzio. poi tornammo altri giorni altre volte ancora. sotto quell’albero. dove un giorno un’amaca. un materasso la volta successiva. e quell’uomo della casa di latta e cartone che aveva eletto quel posto a luogo di riposo. poi tornammo a sedere davanti ad un cappio. una poltrona di morte. un paio di lenzuola di notte. la notte. la notte che qui scende a grappoli e parla col profumo del vino. è solo un racconto senza fine.
di ogni giorno su quei tre passi di collina i ricordi erano certezze. il solito vecchio albero dove tornare. gli anni da inseguire. il rapporto coi luoghi, ricominciare sempre dai luoghi. ancora annuire al silenzio di un’altra stagione. cuti bianchi ingozzano terra rossa come carie sui denti. cuti bianchi, massi, spazi interminabili  affollano la memoria come onde di mare in tempesta. cuti bianchi gonfiano al sole lucido. una casa di latta e cartone. un recinto ammaccato di nuvole. senti ancora il cielo come trema quando il sole è bianco è lucido, si scioglie, è forte. senti ancora il cielo come trema quando il sole è caldo e miete vendetta. senti ancora il cielo come trema quando il sole è caldo, forte, aspetta il vino della notte. poi il mattino è fresco. ha luce strana di guscio di conchiglia. ha rumore di mare che fa l’amore col silenzio, nell’antro di una conchiglia. poi il mattino è fresco. e la terra è lucida come coperta da salsedine. poi lui comincia a lavorare. s’affaccia presto ogni mattina, forse senza conoscere più il sonno. ha scritto tutto sulla pelle, sulle dita delle mani, prima di cominciare a lavorare. ha alzato gli occhi al cielo come ogni mattina. ha curvato ancora la schiena, come fosse una luna ossuta, scheggiata solo dagli anni. ha dimenticato di respirare perché forse ormai la pelle bucata lo fa da sé. ha raccontato l’aire. ha falciato quel po’ di rancore che ancora gli spezza la schiena. ha masticato una manciata d’aria prima che questa si mescolasse al piscio del suo bagno a cielo aperto. ha ingurgitato la precisione dei filari in quel suo pezzo di terra, un fazzoletto smunto di processioni giovanili dimenticate dietro ai rossi di un vino ubriaco. ha cadenzato l’anima con l’aritmia di quei filari che definiscono la geometria dei corpi e degli sguardi, la discrezione dei gesti che lenti si ripetono con sacralità sconosciute alla religione di turno. poi ha modellato la terra come fosse una scultura, una lavorazione ferma negli anni, lenta e odorosa di miele e sudore, come fossero la stessa cosa. poi ha concimato il suo amore solitario nel ricordo di una moglie scomparsa, con una manciata di purezza fra le mani, terra a grumi di poesia, che a volte regalava ai passanti, a noi, soliti, sotto il vecchio solito albero. diceva “scambiatevi un segno di purezza”, mica ci pensava alla pace del signore, ché la purezza è roba più grande, che non pretende, che non impone, e sott’intende la pace e forse di più l’amore.
eppure da ragazzi quel posto era una meta quotidiana. il vecchio solito albero. la solita stretta strada. la vespa bordeaux prima e l’auto poi. tutto ad arrancare. sempre come il respiro dopo una giornata di lavoro. sempre come la terra, quella rossa, densa, arata e traghettata di mano in mano, in segno di purezza. in segno d’amore. in segno di nostalgie da riempire con le parole della notte, al profumo di vino, di un racconto senza fine.
poi ci siamo tornati dopo anni. una croce su quei tre passi di collina. una cava morta ha zittito il tempo. ne ha fatto una tomba. un cappio, una rete di materasso vuota. una croce che quell’uomo credo non avrebbe mai voluto. una discarica di rabbia. di parole. latta e cartone solo latta e croce. latta e croce. come tremava la pensione di quell’uomo su quei tre passi di collina. come tremava quella voce in un delirio di parole, amore amore. un segno di purezza fra le mani. un cartello assassinato. solo latta e croce, latta e croce. niente recinto ammaccato di nuvole. niente. un cartello, un segno di purezza impastato con l’inchiostro della poesia. una terra tritata dalle ansie infami. il rosso spento, i filari mangiati dall’incuria. una scultura evaporata al nuovo sole di questi anni diversi. come cade la notte. come cade. come cade se il vento non conosce più tempesta. un cartello. e quei tre passi di collina. una terra irrigata coi diluvi dell’anima. come trema il cielo quando il sole è alto, forte, brucia calore. come cade la notte, come cade se il vento non conosce più tempesta. un cartello. e quei tre passi di collina. una terra irrigata coi diluvi dell’anima. un segno di purezza fra le mani. una manciata di terra impastata con l’inchiostro della poesia. un paio di lenzuola di notte. la notte. la notte che qui scende a grappoli e parla col profumo del vino. è solo un racconto senza fine. poi è arrivata la fine. un cappio. una poltrona di morte. un cartello. “2013 ancora ladri di galline”. la terra la terra. i diluvi dell’anima. qualche moneta qualche moneta. un segno di purezza fra le mani, terra a grappoli di poesia.


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