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Le métier de la critique: Wislawa Szymborska, l’ispirazione poetica ed il silenzio

Creato il 25 novembre 2015 da Alessiamocci

Recentemente mi è capitato tra le mani quello che si potrebbe definire a ragione un libricino[1] ossia un piccolo testo tascabile di pochissime pagine, pur elegantemente impaginato e dalla copertina semplice e morbida. Se da una parte è possibile osservare la minuziosità formale dell’oggetto (le ridotte dimensioni, il modesto numero di pagine) va senz’altro detto che il contenuto non risponde a questa logica minimalista o riduttivista che sia.

Esso si compone di due parti: una prima parte critica, che in realtà non è altro che la confessione della propria poetica, che va sotto il titolo di “Il poeta e il mondo”, e una seconda parte che, invece di presentare un rapporto direttamente intimo-confessionale con la carta, viene proposta in uno scambio dialogico, nella forma canonica dell’intervista. L’intervistatore pone quesiti, azzarda idee, ricerca possibili interpretazioni ed il tutto viene offerto al diretto interessato affinché, con i mezzi che gli sono propri e sempre a salvaguardia del suo pudore (gli scrittori spesso sono restii a parlare della propria vita personale), possa fornire non tanto le rispose ultime e definitive a svelare un mondo, ma quelle che possono essere le keyword, i profili interpretativi, le immagini e i concetti che possono risultare significativi (e non solo evocativi) a parlare di sé, dei propri convincimenti e vedute. Il libro in oggetto, sarà a questo punto mio dovere chiedere scusa a chi sta leggendo, è della poetessa polacca Wislawa Szymborska ma in realtà, più che un suo testo autoriale come potrebbe essere una sua silloge poetica, si configura come un testo letterario collaterale, critico e di riflessione, di ampliamento del sentire e della vocazione poetica.

Nella prima parte, che è poi il testo nella forma scritta di ciò che la donna pronunciò all’Accademia di Svezia nell’occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura vinto nel 1996, tre sono i concetti cardine sui quali sarebbe possibile argomentare una maggiore riflessione soprattutto per cercare di poter delineare, qualora ciò sia effettivamente possibile, quali sono o potrebbero essere i tratti distintivi di un intellettuale contemporaneo ed in particolare di un poeta.

Il primo nucleo tematico che la donna sviscera corrisponde a un canonico luogo comune che caratterizza la figura dell’intellettuale nel momento di presentarsi alla società. Se il poeta nel passato ha rivestito funzioni più o meno alte e varie dal poeta laureato, al poeta viaggiatore, sino al vate e allo studioso sociale, va senz’altro detto che una tale categoricità stretta è impossibile da attuare oggi e soprattutto è lo stesso sentimento poetico (cioè la consapevolezza di essere o sentirsi un poeta) a subire un meccanismo di sfiducia, riluttanza, tacita insofferenza e vera e propria vergogna. Nel senso che oggi chi si auto-definisce poeta può essere, più o meno a ragione, considerato come un vanaglorioso, un nostalgico delle buone lettere, un narcisista o addirittura la stessa negazione della figura poetica; d’altra parte chi non è effettivamente in grado di definirsi tale, vuoi per modestia o una incapacità lancinante, o per una più seria equilibratezza di fondo può finire per essere lui stesso a disconoscere o a lenire il fuoco divampante della sua mente creativa.

La Nostra a questo riguardo scrive “I poeti contemporanei sono scettici e sospettosi persino, o forse soprattutto, di sé stessi. Sono riluttanti a confessare pubblicamente di essere poeti, quasi se ne vergognassero un po’”.

Chiaramente entrambi gli atteggiamenti, quello di professarsi poeta e difendere il proprio status con vigore e quello di relegarsi in una sordina che non ama l’auto-referenzialità debbono essere entrambi accettati per quello che sono, ossia delle diverse predisposizioni che l’uomo, come genere umano, ha dinanzi agli altri e quindi la società tutta. Come la Szymborska sottolinea chiamando in causa il concetto di vergogna, credo che si debba partire nel momento in cui una trattazione del genere viene fatta in primis da quella che è la componente caratteriale e dalla sensibilità della persona che, come sappiamo e come è normale che sia, è estremamente variata e multiforme in ciascuno di noi. Il fatto, dunque, che una persona pur avendo avuto un percorso letterario invidiabile con pubblicazioni, frequentazioni ad eventi, vincite di premi e dunque una stima allargata e riconosciuta dalla società per il suo impegno poetico (se solo di poesia parliamo) non si uniformi con una sua spiccata e pubblica propensione ad auto-riconoscere la sua validità letteraria, il suo status di poeta, a mio modo di vedere non va visto negativamente perché l’atteggiamento, come già accennato, rientra a pieno in quelle che sono le componenti private, intime, personali, soggettive, valide ed universali per il sé in quanto “io” che non dovrebbero risultare esposte a valutazioni o, eventualmente, a critiche.

Il secondo aspetto rilevante che la Nostra porta nel suo testo è quello circoscrivibile attorno alla considerazione lapidaria “Non esistono professori di poesia”. Se è vero, come dice la Nostra, che l’atto dell’ispirazione che è germe poi dell’atto creativo non appartiene solamente a scrittori e agli intellettuali in generale, è anche vero che la poesia non nasce dalle cattedre, dallo studio, dalle lauree e dai riconoscimenti ufficiali di una distinta cultura accademica. Se è vero che l’ingegnere è tale perché ha fatto studi di un certo tipo che gli hanno consentito di sviluppare conoscenze volte alla realizzazione concreta di un dato mestiere (è solo uno dei mille esempi che si potrebbero fare), il poeta non è tale perché ha studiato e si è laureato, perché conosce la storia della letteratura o perché ha letto decine di libri di poesia. L’ispirazione poetica, che a ben ragione potrebbe raggiungere tutti indistintamente senza differenze di età, razza, religione, lingua, ideologia, appartenenza geografica o periodo storico, è allora una delle manifestazioni più democratiche che sia mai esistita nella storia e che persisti nella sua forza evocativa (se si eccettuano i neri momenti in cui i sistemi totalitari hanno represso l’uso della poesia e in generale della letteratura e provveduto ad arresti, persecuzioni, invii al confino, assassini o, in tempi ancora più lontani, ai deprecabili casi di incendi dei libri pericolosi).

La poesia, essendo canto dell’anima e dimensione immaginifica potenzialmente alla mercé di ognuno di noi, è canto di libertà ed espressione della propria appartenenza al mondo. Proprio per queste ragioni che non cozzano con l’utilizzo pratico di una disciplina scientifica quale può essere l’ingegneria o la biologia che sono doverosamente standardizzate dall’osservazione di regolamenti o imperniate sullo studio di fenomeni, essa non è studio, dunque ricerca progressiva volta a una educazione sempre più matura e consapevole, ma è atto istintivo e personale, che nasce e perdura nell’intimità di chi se ne serve.

La Szymborska ha voluto rimarcare con attenzione che il poeta non necessariamente è lo studioso indefesso amante delle Lettere, il professorino di letteratura o un animo profondamente sensibile supportato da attestazioni più o meno sincere, e soprattutto, di riflesso, che la poesia non può essere branca di studio e dunque oggetto diretto di insegnamento da chi si presume ne detenga la conoscenza e chi invece, neofita, vuole saperne qualcosa di più. La poesia la si apprende da soli mediante il colloquio che abbiamo con noi stessi. La poesia è una vocazione e un atto di libertà che va conquistato, ma non forzato né imposto in nessuna forma. Se la storia della poesia (o della letteratura) è una dottrina sì valida e che esiste dagli albori della conoscenza che può servire a marcare temporalmente quello che è stato lo sviluppo del genere in un dato ambiente centralizzando poi l’attenzione sugli esponenti principali e la loro opera, l’insegnamento della poesia in sé stessa, quale ipotetica materia, non sarebbe possibile perché presumerebbe un insegnante che al contempo sia poeta e dunque sappia realmente dire dal suo punto di vista di poeta cosa la poesia sia, ma ciò non è possibile proprio per il fatto che, come si è detto, è impossibile da qualsiasi parte si guardi la cosa provvedere a una auto-definizione di poeta o una definizione sociale dello stesso. L’ingegnere che si occupa dalla mattina alla sera della sua professione è ingegnere e basta, ma è anche possibile che un dato ingegnere sia anche poeta. Ciò che caratterizza la sua attività occupazionale, il suo impegno attivo nella società è senz’altro il fatto di essere ingegnere e non di certo quello di essere poeta, cosa che, se resa pubblica magari lo porrebbe in una diversa luce nei confronti della gente, in linea con quel sentimento di vergogna di cui prima si parlava.

Per riassumere quanto la Nostra sostiene e quanto di lapalissianamente evidente credo sia condivisibile è che la poesia non può essere assolutamente insegnata come dottrina, ergo non esistono professori di poesia e non dovrebbero esistere pseudo-scuole e centri di scrittura creativa in campo poetico, come tanti ne esistono e spopolano e che a mio vedere (anche se questo presupporrebbe tutto un altro tipo di discorso) non forniscono altro che stereotipate conoscenze da poter seguire attorno all’esperienza decennale di un professore del caso che può sentirsi in diritto di insegnare poesia agli altri solo perché, in virtù della sua maggiore età, ha avuto più tempo ed occasioni per dedicarsi ad essa. Da sterili cenacoli che accentrano l’attenzione sui narcisi di turno, i professori o tali insegnanti del caso che sembrano avere l’arte della poetica nel polsino della camicia pronta ad essere sfoderata solo dietro il pagamento –spesso oneroso- delle serate di partecipazione al sedicente corso, mi dissocio completamente proprio perché, lo ripeto qui per l’ennesima volta, la poesia non ha insegnanti, titolati o accademici che siano.

L’ultimo assunto dell’intervento della Nostra sul quale mi pare doveroso poter aggiungere un mio commento sta nel fatto che la sana creazione del poeta non sta nella sua capacità quantitativa e massificata di produrre e dunque di uscire serialmente con nuove opere, ma sta per l’appunto anche nella stasi e nel silenzio. In pratica la Szymborska sostiene cheI poeti, se sono genuini, devono a loro volta continuare a ripetersi “Non lo so””, ad intendere cioè che l’attitudine del poeta non è mai mossa dalla ferrea convinzione, dalla sicurezza, da una finalità di traguardo certa e prefissata. Come è nella vita, è anche del poeta l’esigenza di fermarsi a riflettere per meglio capire, soprattutto ciò che non conosce. L’attestazione di sapere di non sapere di filosofica memoria è dunque un trampolino necessario nel procedimento creativo del poeta che mai dovrebbe scrivere a fiumi nella stupida velleità di dimostrare alla società che è attivo perché materialmente produce, ma che dovrebbe, invece, garantirsi momenti di silenzio e di sospensione, per una maggiore ricerca, tanto letteraria quanto personale. L’atto poetico, dunque, nasce anche dal riconoscimento di un limite. E riconoscere i limiti è atto di umiltà e testimonianza di una natura sincera e pacificata con tutti. La Szymborska, pur non arrivando a parlare di ciò, vuol intendere in quel titanico “Non lo so” una crepa delle certezze e una fiamma divampante, lasciando intuibile l’assunto che il poeta deve essere onesto (come già Saba parlava della necessità di una poesia nuda ed onesta, scarnificata) ed umile.

Infine, dall’intervista intitolataCreare una poesia universale nel pieno del caos politicocondotta da Dean E. Murphy mi piace soffermarmi sulla privacy che negli ultimi anni è stata sempre maggior tema d’interesse da parte di poeti e scrittori che, impiegando massicciamente la rete nel pubblicare le loro produzioni, hanno imposto al Garante di rivedere la situazione nel nostro Paese in merito a queste realtà venutesi a creare. La privacy della quale l’intervistatrice domanda alla Szymborska chiaramente non ha nulla a che fare con Internet essendo stata la donna sempre ben distante dai fenomeni consumistici del mezzo 2.0 (ha confessato nella stessa intervista di aver sempre scritto a mano le sue poesie!) ma quella relativa alla propria dimensione privata nell’atto letterario. Così leggiamo nel corso della intervista: “Non riesco a immaginare uno scrittore che non sia interessato alla propria pace e tranquillità. Purtroppo, la poesia non nasce nel rumore, in mezzo alla folla o su un autobus. Ci devono essere quattro mura e la certezza che il telefono non suonerà. La scrittura è tutta qui”.

Premettendo che ciascuna persona ha la sua idea su cosa la scrittura sia e che tutte queste idee sono legittime e possibili, confesso che trovo la rivelazione della Nostra un po’ troppo stringente ed austera. Scrivere con la dovuta calma e tranquillità comodamente all’interno del nostro universo domestico è qualcosa a cui noi tutti poeti e scrittori aneliamo senz’altro e che potrebbe portare a un’opera maggiormente attenta, di qualità ma in realtà ciò è per lo più impraticabile. Cioè, nella frenesia degli impegni e nel rumore frivolo della contemporaneità, è sempre più impossibile riuscire a raggiungere una situazione di questo tipo, simile a quella evocata dalla celebre Virginia Woolf nel saggio A Room of One’s Own nel quale sintetizzava le uniche due esigenze per una scrittrice del suo periodo: una stanza tutta per sé, e poche ghinee per contribuire al suo lavoro.

Nella nostra società è addirittura impossibile e aggiungerei periglioso cercare di staccare, anche per un momento, la spina che ci connette a tutti quei legami sociali (siano la nostra famiglia, gli amici, i vicini di casa, la società di fuori, le conoscenze della rete) e conservare uno stato di tranquillità emotiva volta a una sana creazione intellettuale. Non è possibile, per ritornare alle parole della Nostra, avere “la certezza che il telefono non suonerà”. Semplicemente perché il telefono (e come oggetto e come metafora di ogni altro sistema di interruzione e fastidio) è parte integrante del nostro comune vivere e concretizzare quanto la Nostra dice potrebbe avverarsi solo nel caso staccassimo la spina dal tran tran quotidiano e senza tv, telefono, Wi-fi, ci rifugiassimo in una silenziosa e spopolata baita in montagna. Ciò allora, per avviarci alla conclusione, vorrebbe dire che la sana e genuina creazione, quella cioè che può avere effettivamente un positivo riscontro da parte dei più, può avvenire non solo dal silenzio e dalla stasi, come già detto, ma anche da una vera e propria fuga dalla realtà quotidiana, da una sospensione della propria esistenza rituale.

Dissento infine, spero non me ne voglia, sulla considerazione collegata a ciò che già si sta dicendo sul fatto che la poesia non possa nascere tra la folla o nel rumore. Vi sono numerosi esempi di una poesia civile gridata e dirompente che conservano ancora oggi a distanza di decenni un potere vibrante che fa muovere le coscienze. Si potrebbe citare Neruda, G.Lorca, Evthushenko e tanti altri che di certo nel momento in cui scrivevano odi, sonetti e testi in cui l’indignazione verso date realtà si fa granito, di certo non stavano comodamente seduti nella loro casa ad appuntare versi, in un silenzio da tomba ma che vivevano la poesia nel momento in cui la creavano direttamente per strada, in viaggio in treno, in circostanze di fervida partecipazione sociale. Lo stesso Ungaretti appuntava versi su foglietti di carta fina tratti dall’esterno delle munizioni durante la sua partecipazione al conflitto mondiale (ma anche gli inglesi Wilfred Owen e Isaac Rosenberg) in un momento di odi e violenze in cui di certo la tranquillità era pura utopia. Stessa cosa potrebbe dirsi per il celebre diario di Anna Frank che, pur essendo una prosa diaristica, contiene spesso un linguaggio lirico nel riferirsi agli eventi vissuti tale da portare alla commozione.

La poesia a mio vedere può senz’altro nascere nel fragore della lotta, nel caos indistinto del traffico cittadino, negli arzigogolati ritmi caldi di una festa di paese, come pure in completa ascesi nel tentativo di una frugale alienazione dal mondo di fuori. Ciò che ha effettivamente spessore non è lo scenario ambientale, il contesto, in cui ci si approssima a cogliere l’ispirazione e ad appuntarne le voci, piuttosto a saper cogliere il velame di quel canto che ci chiama (Neruda, ricordando la sua iniziazione poetica, scrisse “Era lì/ e mi toccava”) e interpella la nostra coscienza ad agire.

Written by Lorenzo Spurio


[1] Wislawa Szymborska, La prima frase è sempre la più difficile, Terre di mezzo Editore, Milano, 2012


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