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Le mie letture – Paradiso e Inferno

Da Marcofre

Il cuore è un muscolo che pompa il sangue, la dimora della sofferenza, della solitudine, della felicità, l’unico muscolo capace di  toglierci il sonno.

Nell’Islanda dell’Ottocento un uomo e un ragazzo senza nome, fanno parte di un equipaggio di pescatori che salpa per recarsi al largo, a pesca di merluzzo. Sono entrambi delle eccezioni, lo si capisce dalla venerazione che hanno per i libri che portano con sé. Ma per vivere, per sopravvivere è necessario adattarsi…

Amano la lettura, ne sono stregati, soprattutto a causa di quel “Paradiso Perduto” di John Milton che sarà fatale per l’uomo. Costui ne è talmente affascinato da commettere un errore fatale: dimenticherà a terra la cerata, e quando nell’Oceano si scatenerà la bufera per lui non ci sarà scampo. Morirà assiderato.

Paradiso e Inferno è un romanzo di Jón Kalman Stefánsson; per chi non lo sapesse, i nordici sono una delle mie passioni. È  il terzo islandese che incontro con piacere, dopo Halldór Laxness e Thor Vilhjálmsson. Niente personaggi che recitano brani tratti dalle antiche saghe (come in “Gente Indipendente”), e neppure eroi (vedi “Cantilena mattutina nell’erba”) alle prese con i dilemmi sulla vita.

Il mare è il protagonista di questa storia: il mare e i libri. Soprattutto i secondi.

Se i versi di un libro uccidono un uomo, gli stessi possono salvare il ragazzo, in principio deciso a riconsegnare al proprietario quelle pagine colpevoli di avergli strappato l’amico, e poi uccidersi. Sarà questo che lo ricondurrà al Villaggio (così, senza nome), e innesterà una serie di piccole cose che alla fine modificheranno la sua decisione.

Paradiso e Inferno ha alcune caratteristiche tipicamente islandesi. La natura tanto per iniziare: stavolta è l’Oceano a dettare regole, a prendere (vite), a dare (da mangiare, un po’ di speranza). Gli elementi in Islanda sono i protagonisti indiscussi, e l’uomo è la comparsa cui è concesso di calcare la scena.

Di fronte a una tale potenza cosa resta all’individuo? Attaccarsi agli affetti forse, ma la tosse nera e il mare li strapazza e poi li stronca. Oppure la parola, ma abbaglia sino a far perdere di vista persino la propria vita, uscendo in mare aperto senza ciò che può salvare.

Eppure affetti e amore per i libri sono le uniche zattere cui si ha diritto, in quella lontana isola di ghiaccio; e anche se procurano dolore, non se ne può fare a meno. Il capitano perde la vista, ha una libreria con 400 libri ma non si arrende; troverà qualcuno che gli leggerà i romanzi.

Stefánsson realizza un incipit da manuale (“Era negli anni in cui probabilmente eravamo ancora vivi”), accompagna il protagonista (e il lettore) nell’inferno della vita, attraverso una storia impastata di dolore, sgomento, desiderio di farla finita. E invece si resta, si va avanti, forse perché coi morti si crea un legame che seppur debole, sempre più debole, spinge i vivi a restare da questa parte. Per ricordarli un po’, raccontare il loro sguardo, incontrarli all’improvviso prima che si dissolvano senza fretta mentre la neve cade. E affermare il proprio bisogno di vita.

Iperborea. Traduzione di Silvia Cosimini.


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