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Le Voci dell’Anima di Jennifer e Antonello De Rosa conquistano Milano

Creato il 22 settembre 2014 da Rosariopipolo

Le Voci dell’Anima di Jennifer e Antonello De Rosa conquistano Milano

Rosario Pipolo
Il Festival Le Voci dell’Anima, in trasferta sul palco del CRT- Teatro dell’Arte di Milano, ha regalato suggestioni ed emozioni alla platea milanese con lo spettacolo “Jennifer” di Antonello De Rosa, prodotto da Scena Teatro. L’opera d’esordio di Annibale Ruccello, compianto paladino della nuova drammaturgia napoletana, finisce tra le mani dell’attore e regista salernitano che attua una sottile rivolta drammaturgica. Il passaggio da Le cinque rose di Jennifer di Ruccello al Jennifer di De Rosa marca ancora di più la ribellione contro il salotto borghese del teatro di Eduardo De Filippo.

In principio la tana del travestito Jennifer era uno dei tanti bassi napoletani. In questa meravigliosa trasposizione, in cui trasuda attualità e antropologia, la regia di Antonello De Rosa la trasforma in un bunker, in cui i personaggi sono cullati e denudati come se fossero prigionieri in un ventre materno. Vittime e carnefici di soprusi sociali, i “travestiti” – liberati dal cliché di “‘o femminiello partenopeo” – consumano la tragedia, appesa al filo del telefono, sussurrando la stessa solitudine di La voce umana di Cocteau. Le voci che si alternano dall’altra parte della cornetta telefonica non sono altro che “i fantasmi” eduardiani, condannati ad essere rigurgito delle voci di dentro, quelle che mormorano nelle nostre maledette coscienze. Qui non si tratta di capire se siamo di fronte a uomini, donne o a donne imprigionate nel corpo di uomini. Qui occorre ammettere che siamo di fronte all’umanità, nell’asessualità che concima rabbia e dolore. I costumi dai colori accesi di Liana Mazza ci consegnano l’illusione di scivolare in un ballo in maschera.

Togliersi la maschera non spetta né ad Anna, vissuta con pathos dalla brava Francesca Pica, né a Jennifer, rinata nella compostezza attoriale di Antonio De Rosa e distante dalla trappola della macchietta. Spetta al pubblico il sacrosanto diritto di riconoscere la solitudine del nostro tempo. Lo spettacolo di De Rosa è “il cantico dei soli” nell’amara riflessione del divenire: la cornetta del telefono degli anni ’80 è la sorella gemella della lametta tagliente tenuta in mano da Jennifer del tempo della globalizzazione, rappresentazione del controverso universo dei social network e delle chat. Non ci guardiamo più negli occhi, abbassiamo lo sguardo su un touchscreen e diventiamo incapaci di amare.
Il controscena della donna in cornice – splendida presenza scenica di Simona Fredella – non fa soltanto da specchio all’universo femminile, ma da contrappunto a questo Magnificat della solitudine di De Rosa come se fosse la piccola ballerina di un carillon, che vorremmo non smettesse mai di danzare.

Dopo settanta minuti intensi di “riso amaro” e riflessione, nel tragico finale ci viene il magone. Alla platea scappano le lacrime, scialuppa di salvataggio per urlare che siamo soli, troppo soli. Lunghi applausi per uno dei migliori spettacoli proposti a Milano in questo 2014. Assistente alla regia è Gina Ferri e le ricerche musicali sono di Nicola Ferrentino.


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