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Lettera aperta a Francesco Marotta

Da Narcyso

Carissimo Francesco, il gruppo di lettura condivisa che fa capo al blog “Compitu re vivi” desidera esprimere il proprio affetto, stima ed ammirazione alla tua persona e all’attività insostituibile che si esplica tramite il tuo blog, la dimora del tempo sospeso.
E’ un pensiero che ci giunge spontaneo dopo aver letto il post di Francesco Tomada intitolato “La riconoscenza” .
Ecco: se i poeti devono imparare qualcosa è, appunto, la riconoscenza che  devono a chi li ha seguiti e stimolati, come hai fatto tu per molti nella tua “dimora”.
E se un amico, prima che un poeta, tace, bisogna chiedersi i motivi di questo tacere, di questo improvviso entrare nell’ombra.
Ce lo chiediamo noi, da questo spazio, nel modo più schietto e sincero possibile e ti restituiamo le nostre domande e la nostra presenza affettuosa.
A nome degli altri amici
Sebastiano

***

UNA LETTERA

Caro Francesco,
ritorno nel luogo che da sempre mi compete: l’ombra. Cosi dicevi prima di questa estate, se non ricordo male. Ti scrivo da una spiaggia, l’ultimo giorno di vacanza. Tutta l’estate mi sono battuto con questo pensiero pesante dell’ombra, del tornarci per necessità. Gli ultimi avvenimenti mi hanno tentato parecchio. Scrivo nella piena luce e intanto sul mare si formano le ombre della sera. Non sono aggressive, c’e una levità in questo trascolorare, la stessa che ai viandanti intenerisce il core, certo. E l’ombra naturale che ogni cosa possiede, il suo essere doppio: questo sei tu, ombra rifranta, luce inappagata, scrivevo in un’antica poesia.
Tornare all’ombra che ci compete. Questo vorrei; il gesto necessario del sottrarsi ogni tanto, per far posto agli altri. Ma parlo di una condizione dell’essere, non di un gesto umanitario; parlo di una condizione naturale per cui, scostandoci, avvertiamo il nostro corpo piu sottile, piu doloroso. Non siamo, non possiamo essere. Siamo nel senso di una sospensione che non vuol dire non essere, ma che è condizione necessaria di ogni poesia, di ogni parola. E non sai come ho sentito in questi mesi la durezza necessaria dell’essere  avvertito nell’ombra; ombroso, distante. Piu saggio, forse, dolorosamente più saggio. E’ la struggente malinconia di mandare affanculo tutta questa serietà, di andarmene al lido a cercare ragazze, come dice Vinicio Capossela in una canzone che mi ha accompagnato  in questi mesi. L’ombra è vestita di dolore, di saggezza. E ci incupisce. Così bisogna essere vigili per noi stessi. Preferisco la notte, che non ha chiaroscuri, che semplicemente è. Dove, se impari a vedere, impari per sempre. Preferisco la notte che ha durata e finisce.
L’ombra si muove, è varia. Ora, queste retoriche circonlocuzioni intorno all’ombra per dirti, per dirmi che dall’ombra emana una luce, un riflesso. Noi ombrosi siamo il sale della terra perché nutriamo, malgrado tutto; perché non dimentichiamo, come spesso dimentica chi vive nella luce, nei suoi rapidi passaggi. Chi vive nella luce è pacificato, dura meno, si brucia. Noi abbiamo questo ritegno, questo dolore dell’apparire e ne soffriamo. Noi siamo esigenti, non ci accontentiamo della prima parola, del primo avviso. Noi siamo capaci di scavare fino a sotterrarci. Ecco, volevo dirti che in questo non esserci, l’essere è sempre. Da qualche parte, in qualche modo. Ci siamo tutti, sia che decidiamo  di abitare la notte, il giorno o il regno intermedio che ci fa soffrire. Anche le parole, forse soprattutto le parole sono fatte di ombre. E non durano. Servono? Non lo so, ma esistono.
Sebastiano

da (RADICI DELLE ISOLE, La Vita Felice 2009)


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