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Letture Alterne.10: addio a Eduardo Galeano, l’interprete dell’immaginario reale, di Ugo Splendore

Creato il 14 aprile 2015 da Eldorado

Eduardo Galeano se ne è andato. Lo scrittore uruguayano, autore di decine di titoli, tra cui ¨Le vene aperte dell’America Latina¨, lavoro essenziale per capire l’universo latinoamericano, è mancato nella sua Montevideo a 74 anni. Ugo Splendore, giornalista e scrittore (www.ugosplendore.com) ripercorre i momenti essenziali di un incontro con Galeano avvenuto qualche anno fa. Un incontro a briglia sciolta, marcato dai temi cari allo scrittore: globalizzazione, calcio, solidarietà e le sinistre latinoamericane, ¨nuove università della destra¨.

Mi ricordo gli occhi, di Eduardo Galeano, e quel suo posarli da qualche parte – forse sull’infinito – quando gli facevano una domanda. Come se andasse a disseppellire la risposta che aveva messo lì da tempo.
Dava risposte non dico giuste, ma forti. Forti intese come divertenti oppure solide, di quelle che ti viene da dire: «Come fai a dargli torto?». Gli occhi erano occhi d’acqua, di vecchio, e li vedevo come attendenti di uno sguardo che soppesava non tanto le presenze, quanto le assenze.
L’ho conosciuto un lunedì del 2002. Era il 16 settembre ed era piena la sala della biblioteca civica di Carmagnola dove era venuto a parlare di America Latina. Gli organizzatori mi chiamano a moderare, a fare il giornalista, a far domande: precisano che non è uno scherzo e apprezzo molto, ancora li ringrazio. Grazie a Galeano e a Osvaldo Soriano ho capito il potere della letteratura sudamericana, amplificato da Borges e Cortàzar, Bolaño e Sepulveda.
Di Sepulveda ho un libro con dedica, degli altri solo volumi. Sulla tomba di Soriano mi sono seduto, nel cimitero della Chacarita a Buenos Aires, e la sua voce mi ha detto: «Scusa eh, se non mi alzo…». Una vecchia gag, inventata dal suo amico Galeano. Quella gente lì, noi e tanti altri, purtroppo ce la siamo persa. L’abbiamo solo intuita.
La sera che ho intuito Galeano ho provato a prendermi tutto, anche l’aria che respirava. In principio il mio unico intento era fare domande buone. Ne avevo un elenchino e gelavo all’idea di fare una domanda pessima. Perché non si è mai abbastanza preparati per certe cose, per quanto ci si prepari.
Insomma: parto concentrato, stringo la mano al maestro e i suoi occhi si posano sull’infinito. Quando tornano sono grigi, li vedo grigi, e vedo quello che vorrei essere a 62 anni come ne ha lui quel giorno: saggio e pieno di risposte forti, che pesca le parole da un profondo che ha dentro, fatto di cultura, di risorse e di non-rassegnazione.
Apro il dibattito e le mie domande scompaiono. Le perdo nella calca di quell’assemblea di vampiri, assetati di discorsi che li calino subito nelle contraddizioni e nelle speranze tronche del Sudamerica. La gente in sala pretende questo e comincia a far domande a pioggia. È come quando vai allo stadio: il pubblico vuole che la sua squadra segni, che la palla vada in una sola direzione. E questa gente vuole che Galeano racconti tutto del suo continente.
Il maestro si prende i tempi delle risposte, fa sentire i silenzi. Del resto è la voce vera dei sudamericani: dice lui quello che loro pensano. Non è come certi scrittori che hanno fatto fortuna e che si mantengono sotto i riflettori scrivendo per riviste patinate e grandi giornali. Lui scrive libri e basta. Sa che quello è il suo ruolo. Fa un libro e vende 20 milioni di copie. Punto.
Ora. Rileggendo le sue risposte in quel 16 settembre di quasi 13 anni fa, vedo tutta la sua grandezza.
Gli dicono, parlaci della globalizzazione. E lui: «Non la vedo. A volte mi guardo in giro e dico: dov’è il mio Paese? Gli esperti dicono che il Paese non esiste più. La globalizzazione ha tolto le frontiere, dicono. Che bella notizia, rispondono a Cuba, non ci sono più le frontiere! La globalizzazione mente quando parla di abbattimento delle frontiere perché chi muove la globalizzazione sta commettendo un errore imperdonabile: sta scambiando le persone per il denaro».
Poi parla di «democrature»: così definisce lui il riciclarsi delle dittature sotto forma di finte democrazie. Sostiene che il denaro è il nuovo oppressore: «La dittatura finanziaria è ancora peggiore del terrore militare, e purtroppo l’America Latina, contro questa e contro altri derivati del capitalismo, non ha saputo difendersi. Difendersi non è un diritto, ma un dovere. Noi sudamericani non abbiamo esercitato abbastanza questo dovere, per questo siamo colpevoli. Colpevoli di stupidità. Da noi c’è un detto che dice: la colpa non ce l’ha il maiale, ma quello che gli gratta la schiena».
Gli chiedono delle sinistre sudamericane: che fine hanno fatto o che fine faranno. Apriti cielo. «Sono buone università della destra. È impressionante come si adattino ai tempi che corrono. Ma le sinistre sono in crisi in tutto il mondo: hanno più domande che risposte. Ve ne racconto una. Sui muri dell’università di Quito, in Ecuador, qualcuno ha scritto: ‘Quando avevamo le risposte, voi ci avete cambiato le domande’. Però la sinistra sta aprendo gli occhi su una realtà più grande di lei: i movimenti di grande importanza, che spesso hanno solo connotazioni locali».
In America Latina c’è cultura, eppure c’è una crisi profonda. Come può l’uomo comune venirne a capo, ogni giorno, per non cadere nella disperazione?
«Non so ciò che può fare, ma so cosa sta facendo: sta scappando. E’ in atto un drammatico processo di fuga collettiva dal Sudamerica. L’unica soluzione sembra la fuga. C’è però unità di movimenti diversi. In questa situazione dolorosa, la gente sta indicando ai governanti la strada da seguire: la solidarietà. Questa è la via della salvezza. Unirsi a difendere ciò che si produce».
Finalmente intervengo e faccio una domanda. Non posso più attendere, il tempo sta migrando via.
E gli scrittori sudamericani? Che fanno?
«Vedi, io non ho l’arroganza di dire di essere interprete di una volontà collettiva. Piuttosto mi piacerebbe essere consigliere delle necessità della gente, questo sì. Faccio un esempio. Conosco un pittore venezuelano, certo Vargas, che vive in un posto bruttissimo, rovinato dal petrolio. Tutto è nero e bruciato, anche gli esseri umani. Eppure ha sempre fatto quadri con colori sgargianti, con animali e piante giganti. Sembrerà assurdo, ma lo considero un pittore realista, perché la sua immaginazione l’ha sempre portato a dipingere la realtà di cui aveva bisogno. Bene, la stessa cosa succede a me che scrivo».


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