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Lingua franca e letteratura globalizzata

Creato il 28 dicembre 2011 da Leliosimi @leliosimi

Come molti altri anche quello letterario è un mercato che sempre più viene spinto verso l’internazionalizzazione. Per questo oggi nel determinare la fortuna di un romanzo gioca un ruolo importante la sua diffusione tra un’audience più vasta di quella definita dai confini nazionali nei quali l’opera è stata realizzata. È un’idea, questa, sulla quale sta lavorando da tempo lo scrittore e saggista Tim Parks, che sul tema della letteratura globalizzata scrive articoli sempre illuminanti (qui da noi, dove Parks vive ormai da diversi anni, vengono pubblicati abitualmente dal Sole 24 Ore). Tra i diversi aspetti che Parks nei suoi articoli mette in risalto ce n’è uno che mi ha particoalrmente colpito: un numero sempre maggiore di scrittori – sostiene Parks –  consapevoli di dover conquistare una readership internazionale , in questi ultimi anni sembra aver modificato il proprio stile, la propria scrittura modellandola a una forma più lineare e diretta e, quindi, più funzionale alla traduzione in altre lingue. In un articolo non recentissimo, di qualche tempo fa, sul New York Review of Books, Parks racconta come, dovendo scrivere un saggio che metteva a confronto lo scrittore fiammingo Hugo Claus (dallo stile particolarmente complesso) con le opere di autori più moderni aveva dovuto notare – con sua stessa sorpresa – come a distanza di qualche decennio:

Questi romanzi più recenti erano stati sì tradotti dal norvegese e olandese in inglese, ma questa operazione non aveva niente in comune con il compito, molto più arduo, di tradurre Claus e molti altri dei suoi coetanei. Anzi, sembrava che gli scrittori contemporanei avessero già effettuato una traduzione nella loro lingua; avevano scoperto una lingua franca all’interno del loro stesso gergo, un ordine concordato per enunciare le cose e raccontarne come venivano percepite, che ha reso più facile ed efficace la traduzione. Potremmo definirla una semplificazione, oppure un allineamento concordato — nelle diverse lingue — di fare le cose in una deteminata maniera. Naturalmente, c’è stato un impoverimento. […] ma c’è anche un guadagno enorme in comunicabilità, in particolare nella traduzione dove il ritmo e l’immediatezza di espressione erano liberi da ogni senso di ostacolo.

Esiste davvero una letteratura globalizzata sulla spinta della quale alcuni scrittori hanno trovato una lingua franca o meglio per dirla come Parks un “modo concordato di fare le cose”? È un aspetto interessante, un dibattito da seguire perché se molti cercano di delineare quali saranno gli scenari futuri del mercato editoriale e il destino della carta stampata, analizzando quasi esclusivamente il dato economico, molto meno spesso – è mia impressione – capita di leggere delle riflessioni sulle conseguenze che tutte le trasformazioni in atto avranno sulla scrittura, sul modo di costruire il testo.

E se il mercato letterario sta cambiando (è già cambiato) sulla spinta della necessità di un pubblico sempre più vasto è ovviamente facile prevedere come anche l’espandersi della realtà digitale e la diffusione (lenta o veloce che sia…) dell’ e-Book, della sua distribuzione attraverso Internet, possa ancor di più accentuare la tendenza a conformare la scrittura a una sintassi più lineare, diciamo pure semplificata, più adatta ai tempi (anche produttivi) di Intenret.

È un bene oppure un male? Ovviamente la perdita di complessità non ci piace affatto quando è a scapito della ricchezza dei contenuti e delle suggestioni che questi sanno darci. Ma come ci ricorda Parks, può essere anche una sfida, un modo per “liberare il ritmo e l’immediatezza di espressione da ogni senso dell’ostacolo”. Per chi fosse interessato a questo dibattito segnalo anche il lavoro del GLINT (Global literature and traslation) il laboratorio della IULM coordinato da Parks stesso assieme a Edoardo Zuccato.

Può essere interessante porre domande simili nel campo del giornalismo e della nonfiction. Ne tiro giù un paio molto brevemente come idee da sviluppare: come si sta evolvendo il giornalismo globale? In particolare come e se sta cambiando lo stile di scrittura giornalistica alla luce delle politiche “digital-first” adottate da alcuni grandi editori che, puntando tutto sulle versioni online, obbligatoriamente devono guaradare ad un pubblico di lettori sempre più internazionale (e non esclusivamente di madrelingua inglese)? La tendenza sarà, per queste ragioni, di un’attenzione delle grandi news corporation verso una cronaca sempre più globalizzata con meno attenzione alla realtà locale e microlocale?

Lingua franca e letteratura globalizzata


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