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“Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti: la sfida di un eroe senza maschera

Creato il 09 marzo 2016 da Alessiamocci

Gli incubi sono all’ordine del sogno. Capita di vedersi correre a perdifiato per le vie della città inseguiti da chissà quale pericolo, accaldati, madidi di sudore, con quella sensazione che una mano oscura stia strizzando lo stomaco tirandolo giù, sempre più giù fino all’altezza delle ginocchia.

Comincia così “Lo chiamavano Jeeg Robot“, un uomo accaldato corre per le strade di Roma, è in fuga e non sappiamo ancora bene da cosa, né possiamo capire davvero se stia vivendo un incubo e se tra pochi istanti si leverà di scatto dal cuscino inzuppato di sudore. Ma è un incubo già di per sé la realtà, perciò lo spettatore smette subito di farsi troppe domande e corre con l’uomo posandosi sulle sue spalle: a permettere questo punto di vista così intimo è l’angolazione di quinta sapiente cui poi subentrano campi medi e lunghi fortemente contestualizzanti. È un esordio convincente quello scelto da Gabriele Mainetti.

Ancora una volta lo spettatore si confronta con le viscere più feroci e periferiche di Roma, Tor Bella Monaca è il quartiere in cui si muovono i personaggi. È una metropoli sotto assedio in cui attentati e cortei pacifisti sviluppano una entropia vagamente anarchica e sclerotica. È Enzo Ceccotti l’uomo che corre attraversando l’entropia, Claudio Santamaria interpreta con estrema sensibilità il mediocre ladruncolo di periferia incapace persino, nel degrado della criminalità organizzata, di costruirsi un posto di rilievo; si muove con una goffaggine apparentemente naturale, con il volto teso e l’aria un po’ svagata: non è un caso che sia proprio il più mediocre dei borseggiatori ad acquistare grandi poteri.

Perché quella di Enzo sembra davvero la vita banale di un uomo sui quarant’anni che condivide la sua quotidiana con passioni e cibo simulati nel grigiore di un appartamento unto e marcescente e invece, quando davvero sembra stia per toccare il punto di non ritorno, Enzo si riscopre forte, di una forza sovrumana che ha poco a che vedere con l’eroismo patinato e mascherato di stampo americano.

Più che un eroe, Mainetti costruisce un antieroe. Il regista si applica con una ironia beffarda e a tratti feroce, di una ferocia spaventosamente genuina. Perciò conviene dimenticare l’Uomo Ragno e Batman e Superman e tutta quella brigata di paladini in calzamaglia aderente che impegnati e molto self-confident si spogliano della propria insipida semplicità per abbracciare l’umanità e salvarla dal Male.

Enzo Ceccotti, in arte Jeeg Robot, è invece soltanto un uomo – persino con una inclinazione casalinga – ed è, proprio per questo, irresistibile. È soltanto un uomo che deve combattere prima di tutto contro se stesso, la propria immediatezza animalesca e bruta, la propria inadeguatezza. Ad aiutarlo in questo percorso di de-formazione è Alessia, la giovane fragile figlia del compagno con cui Enzo di solito sbriga lavoretti per la batteria di Fabio Cannizzaro, in arte Lo Zingaro. L’entrata in scena della ragazza, una buona prova di Ilenia Pastorelli che lavora molto sullo sguardo, a mezzo tra la ragazza-manga  e la bambina indifesa, si intona decisamente con Santamaria, e ne muta totalmente la prospettiva: prima di diventare un eroe per gli altri, Enzo deve diventarlo per se stesso, deve imparare ad essere all’altezza del battesimo che Alessia nella sua ingenuità gli ha imposto con tenerezza.

Il “cattivo” non poteva mancare in questo quadro favolistico e fumettistico - ottima la fotografia nitida di Michele D’Attanasio che mescola momenti di lirismo ad un discreto splatter -. Lo Zingaro è una grande prova attoriale, l’ennesima, di Luca Marinelli che si diverte con il suo talento poliedrico. Autoironico fino quasi all’esasperazione, estremamente capace di giocare tenendosi in bilico tra la follia più commovente e la rabbiosa cattiveria nichilista di chi si sente rinnegato dalla società e vuole la sua vendetta, la sua rivincita. Luca Marinelli lancia sguardi disperati, Lo Zingaro vuole a tutti i costi essere guardato e si fa guardare con quei sui occhi di rapace cresciuto in cattività e le spalle leggermente inclinate per sperimentare una camminata inquietante in stile anni ’80, alla Anna Oxa. Marinelli e Santamaria si trasfigurano e si impongono, merito anche del trucco impeccabile di Giulio Pezza.

La cornice musicale di Michele Braga è perfettamente coerente alla struttura solida della direzione attenta che ogni tanto si concede un ritmo più rilassato. La sceneggiatura misurata e coerente di Nicola Guaglianone e Menotti riesce a mantenere alto il livello di tensione ed è tutto un vorticare tra colori grotteschi e ombre lugubri, raffiche e colpi di pistola all’ultimo sangue, camorristi capeggiati da una Antonia Truppo livida e spietata, e delinquenti scalmanati che tacciono di colpo per fare spazio allo scontro finale che arriva con un campo lungo appena accennato alla Mezzogiorno di Fuoco.

L’incapacità di comunicare violentando il prossimo con ogni mezzo, l’ossessione del mettersi in rete per essere condivisi e diventare virali (dimenticando che, però, sono virali anche le influenze intestinali), il tentativo disperato di sfondare l’occhio di fratelli maggiori e di farsi strada sotto i riflettori dei programmi domenicali, la scelta sempre più cinica di rifugiarsi nei surrogati e negli isterismi collettivi, il selvaggio inquinamento radioattivo che se ne sta sepolto sotto i nostri piedi, sono tutti temi ed elementi che Mainetti affronta senza fare sconti, con una sana ambiguità.

Forse la Terra ha bisogno di antieroi. Di uomini, di uomini che siano semplicemente uomini, con il talento di controllare l’istinto all’autodistruzione, che imparino a vivere nell’entropia di un sistema sociale sempre più banalmente complesso e che accettino la necessità di costruire un proprio spazio tra gli altri, senza per forza fare a meno della collettività. Non esistono eroi, o antieroi, senza una società. Né esistono inetti o uomini senza qualità senza il confronto con la distorta realtà quotidiana.

Forse la Terra ha solo bisogno di donne e di uomini consapevoli del proprio valore e della propria ineluttabile necessità di vivere insieme ed è questo che Mainetti descrive con una chiarezza inquietante, quasi prendendosi gioco bonariamente dello spettatore: gli eroi sono un alibi, sono l’alibi per parlare di quanto sia complicato vivere avendo come (super)potere solo l’onestà.

Written by Irene Gianeselli

Info

Sito Lo chiamavano Jeeg Robot


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