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Marco Bellini su un libro di Paolo Pistoletti

Da Narcyso

In un precedente post, Paolo Pistoletti leggeva un libro di Marco Bellini. Ora è Marco Bellini a leggere Legni, in uno scambio che avviene per consonanza, come sempre dovrebbe essere quando i poeti si leggono. E’ spesso la vicinanza a risolvere i nodi irrisolti della comprensione, le ragioni più intime della propria scrittura; un modo di fare critica che personalmente ho praticato e continuo a praticare con la massima naturalezza, senza aspettarmi nulla in cambio. La poesia, allora, si veste dell’abito del corpo di chi l’ha accolta, ne mostra i segni forti e quelli deboli. Perché non credo molto alla poesia staccata dai poeti; la poesia è il  corpo e anche ciò che lo trascende, che lo mostra in una luce a parte, come un po’ in lontananza. Mi rendo conto che parlare di fratellanza nella vasta comunità dei poeti, è cosa pericolosa, ma, certo, si tratta di una fratellanza nella scrittura, nella capacità di riconoscere la qualità dell’altro, malgrado le differenze e magari provare a leggere, nell’altro, qualcosa che intimamente ci appartiene.

Sebastiano Aglieco

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Paolo Pistoletti, LEGNI, Ladolfi 2014

Paolo Pistoletti attraversa le proprie giornate con passo regolare, si offre lasciandosi toccare, è contaminato dalle persone che lo occupano e dallo spazio che lo ospita. Così origina l’humus, destinato a un processo di fermentazione, in grado di alimentare una voce sorgiva e un precipitato denso e pronto per ulteriori germinazioni. L’autore di “Legni”, alla sua opera prima, ci presenta una scrittura pacata, dal tono basso, in cui frequente è il ricorso alla similitudine quale figura attraverso cui far percepire i punti di contatto tra oggetti e viventi appartenenti a contesti e aree semantiche diversi, ma in ogni caso, partecipi dello stesso reale. Le liriche appaiono quasi pervase da una calma che dispone il lettore all’ascolto e alla condivisione che si fa misura / confronto del nostro essere nel mondo. La stessa condivisione è favorita dalle tematiche trattate: i rapporti con i propri cari (moglie, figlia, genitori) e l’ambiente domestico, dove si percepisce una sospensione dell’aria al cui interno vibrano piano sia le persone che le cose, in un movimento circolare capace di avvolgere e proteggere. Il poeta traspone nel legno, assurto a vera e propria entità pulsante, le dinamiche comportamentali degli esseri umani: E quanto / tutto questo asciugarsi di legni / ci somiglia e ancora: e la legna che siamo s’è spenta; al punto che esso, presenza costante nel corpus dell’opera, viene chiamato alla partecipazione discreta, ma attiva, nei processi relazionali che hanno vita tra le mura domestiche, e rispetto ai quali riveste un ruolo, diremmo quasi, di figura archetipica e dialogante: sembrava che a parlare fosse / il ciocco di legno che sta al mio posto / quello che esala sonno come fumo. Compiendo un ulteriore passo, potremmo dire che, in alcune poesie, assistiamo a un “sincretismo” tra il mondo naturale e quello umano; processo, questo, decisamente acclarato quando si prende in esame la figura del padre, il quale, ad esempio, viene rappresentato come un’onda creatrice di vita: E laggiù oltre il blu mio padre / che con la schiuma sui capelli / è l’onda più grande che c’è / che ha fatto come due gocce me e mio fratello e, nella lirica Bosco, viene incarnato in forma di albero (ancora il legno). È interessante notare che l’autore, nel descrivere la scomparsa del padre, ricorre nuovamente al sostantivo “onda”: La sera del derby di Milano / un’onda accesa da dentro / l’ha portato via dalla poltrona / come un fiume contromano. Rimane, comunque, la casa dove nascono e vengono esperiti i gesti che diventano espressione dell’intimo appartenere a un sistema di affetti avvolgente e vivificante; il luogo / teatro che muove la scrittura di Pistoletti e coagula, sul proprio palcoscenico, le parole, i versi, le poesie. A fare da contraltare emerge, evidente, la difficoltà ad affidarsi al mondo e alle sue incognite; di qui, l’immagine del proprio corpo come ambiente dove si compie la solitudine: “mentre io qui fermo tra tempia e tempia”. Da parte del poeta traspare il bisogno di scoprirsi, di riuscire a mettere a fuoco, anche di fronte alla proprie interrogazioni, le luci e le ombre che lo rendono ciò che è: “Ho provato a vederci chiaro / come un piatto appena lavato / ho chiamato tutto il corpo fuori”.

Marco Bellini


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