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Maria Pawlikowska-Jasnorzewska

Da Paolo Statuti

     

Maria Pawlikowska-Jasnorzewska

Maria Pawlikowska-Jasnorzewska

                                                                                             

 

La „Saffo polacca”

Poetessa della vita e dellamore

 

   Maria Pawlikowska-Jasnorzewska nacque a Cracovia il 20 novembre 1893. Figlia del celebre pittore di cavalli Wojciech Kossak, e nipote di Juliusz Kossak, anch’egli eccellente pittore, fin dall’infanzia respirò “aria di pittura” e questa circostanza lasciò nella sua creazione un’impronta fondamentale, se non determinante. Studiò tra l’altro all’Accademia di Belle Arti di Cracovia, ma fu essenzialmente un’autodidatta.

Affascinante, appassionata, irrequieta, delicata e sensibile, è stata senza dubbio una delle figure femminili più interessanti della letteratura polacca del XX secolo. Ecco come la descrive Zofia Starowieyska-Morstinowa nella sua bella biografia della poetessa: “Cantava alle Pleiadi il suo amore ed era simile ai suoi versi: seducente e inquietante, eterea e al tempo stesso terrena, iperpoetica e realista, seria e arguta, triste e allegra, saggia e incantevolmente fatua. Ma prima di tutto colpiva la sua bellezza. Anzi – prima di tutto colpiva la sua affabilità. Sapeva venire incontro a ciascuno. Perfino per i seccatori aveva sempre un sorriso, quel suo specifico sorriso – le labbra sottili e oblique, il nasino contratto, il labbro superiore leggermente sollevato. Ad alcuni voleva bene e ad altri no, ma tutti dovevano volerle bene, amarla e ammirarla”.

Era una leggenda vivente. Ammirata ma anche disdegnata. Suscitava controversie, provocava emozioni. Per alcuni era “maestra di chincaglieria”, “poetessa di serra”, “esasperata miniaturista”. Per altri – poetessa autentica, stupenda, originale, adorabile, schiettamente polacca. Tra i suoi ammiratori c’erano i più autorevoli rappresentanti della letteratura polacca del ventennio tra le due guerre: Stefan Żeromski, Jan Lechoń, Antoni Słonimski, Julian Tuwim.

Maria Kossakówna, chiamata dagli intimi Lilka, “viveva per scrivere”. Il suo talento si rivelò assieme al primo grande amore. Questo sentimento fu destato in lei da Jan Pawlikowski, suo secondo marito. Ne ebbe tre. Il primo – Władysław Bzowski, ufficiale dell’esercito austriaco – fu il più clamoroso equivoco sentimentale della sua vita. Il matrimonio con lui fu annullato dalla Sacra Rota perché “non consummatum”. Conobbe l’amore soltanto con Pawlikowski. Ma ciò significò per lei assai più dell’appagamento dell’umano desiderio di amore. Proprio grazie ad esso, Maria Pawlikowska esisteva come poetessa. Tutto ciò infatti che riempiva la sua vita veniva da lei tradotto in versi. Esaltata, ammirata, amata, Maria temeva la critica. Come scrisse in una delle sue lettere alla sorella: “Il sorriso beffardo mi uccide”. Per molti mesi scrisse senza l’intenzione di pubblicare. Alla fine si fece coraggio e mostrò le sue poesie a un amico di famiglia – il noto poeta Jan Lechoń. Egli apprezzò subito enormemente i versi lirici e delicati di Maria. Riuscì a convincerla a pubblicarli. Così nel 1922 nacque la raccolta “Sogni impossibili” e due anni dopo “Magia rosa”.

Il suo grande amore per Pawlikowski finì, quando egli fu ingaggiato come ballerino all’opera di Vienna. Lì conobbe una giovane ballerina austriaca che con il tempo diventò sua moglie. E Maria? Scrisse una delle sue raccolte poetiche più belle, dense di nostalgia, di rimpianto autunnale, di malinconico sorriso, intitolata “Baci”. Essa uscì nel 1926.

L’ultimo grande amore della sua vita fu Stefan Jasnorzewski, un ufficiale pilota polacco. Ma anche questa volta il destino interruppe l’idillio amoroso. Nel 1939 scoppiò la II guerra mondiale e i coniugi Jasnorzewski, seguendo la sorte di migliaia di Polacchi, fuggirono in Francia, da dove passarono poi in Inghilterra. Suo marito prese parte alla battaglia di Londra. Maria continuava a scrivere. A Londra uscirono le raccolte “La rosa e i boschi in fiamme” e “Il colombo del sacrificio”. Già questi titoli suggeriscono quanto tragicamente la poetessa vivesse il tempo dell’orrore. E con lei esso fu spietato: nel 1942 le morì il padre, poi la madre e alla fine lei stessa venne a sapere di essere incurabilmente malata. Morì il 9 luglio 1945 a Manchester.

La sua creazione ebbe un ruolo assai importante nello sviluppo della poesia lirica polacca negli anni tra le due guerre. Creò un nuovo stile poetico, toccando temi personali e raffigurando il mondo della donna del XX secolo che confessa i suoi sentimenti, il bisogno di affetto, le speranze, che lotta per la felicità e si ribella alla crudeltà del destino.

La poetessa, personificazione della tenerezza e fragilità femminile, affronta nella sua poesia le questioni più importanti, i grandi problemi della vita. Assai spesso un tema apparentemente futile diventa il pretesto per trattare tali problemi, come ad esempio nella lirica “Il sarto zoppo”, che è la scena, poeticamente trasfigurata, dell’acquisto di una stoffa per un vestito, ma in realtà è una metafora della sorte umana, della felicità irraggiungibile.

Una caratteristica della Pawlikowska è il distacco intellettuale con cui guarda al mondo e a se stessa, con cui riesce a parlare dei propri sentimenti, trattandoli spesso con delicato umorismo e sottile ironia. Ma il tratto più tipico del suo talento è la sua abilità di creare “flash” poetici, di racchiudere le immagini in compatte, intense miniature liriche. La sua poesia rispecchia una personalità squisitamente femminile, ora triste, ora tragica, ora preziosa, e sempre raffinata.

Molti suoi versi sorprendono per la straordinarietà delle associazioni poetiche e per l’originale modo di osservare i fenomeni della natura, trattati come metafore delle esperienze umane. Molti poeti e critici, scrivendo della Pawlikowska, l’hanno chiamata la “Saffo polacca”. Alla sfortunata poetessa dell’antica Grecia infatti, la Pawlikowska doveva sentirsi molto vicina, per dedicarle una delle sue raccolte più belle, intitolata appunto “Rose per Saffo”.

     Paolo Statuti

Poesie di Maria Pawlikowska-Jasnorzewska tradotte da Paolo Statuti

 

Il sarto zoppo

Si sa com’è il Tempo, un sarto zoppicante,

coi baffi alla cinese, tisico saltellante,

le più diverse stoffe mi propone,

che riposano in un cupo cassettone.

Nere, grigie, verdi e allegre a scacchi,

ora un soffice raso, ora una tela di sacco.

Una volta – balenò qualcosa

brillò come pietra preziosa,

iridò sulla piega

frusciò come seta…

Allora gridai: “Ah! di questa, di questa voglio il vestito!”

Ma il Tempo è così, il sarto cattivo, sbuffa risentito:

“E’ già venduta al cielo – la pezza intera –

fortunato chi ha visto questa stoffa – non cerchi

una gioia più vera!”

Ciò detto, ripose in fretta il campione riservato,

e mi mostrò un panno color – cioccolato.

1922

 

Berceuse

I tuoi occhi quieti sono ancora,

i tuoi occhi quieti sono ancora,

quando tra le braccia mi stringi –

scorrono piogge di pacate stelle,

scorrono piogge di pacate stelle

e neve su neve chissà dove perisce…

Nel silenzio sono sbiancati i nostri volti,

nel silenzio si sono spenti i nostri volti

e le anime impallidiscono nell’amore…

in una nebbia azzurra,

in una nebbia semiassonnata

c’è il cuore rosa del bagliore…

Riposo nel tuo talamo,

mi assopisco nel tuo talamo,

come sul fondo d’un letto d’argento,

situato chissà dove ad un bivio,

trattenuto chissà dove ad un bivio

in attesa del godimento…

1922

Tramonto sul castello

Il Wawel fiammeggia – rosa-violetto-trasparente.

I vetri salutano il sole che rotola a ponente,

gridano il loro incanto comune, dorato e cieco,

tra i muri di ametista e i muri di rubino.

E’ festa sul castello – festa di cinque minuti,

tra i muri di ametista e i muri di rubino.

Tra i vapori rosati delle sale-specchio,

si aggirano re, regine, Sigismondo il Vecchio. –

Si sporgono gli spettri dalle finestre dorate,

invisibili agli occhi dal bagliore accecati.

– Guardano i colori diffusi sull’acqua e nel cielo –

figure bianche in armonia con l’arcobaleno.

Dietro una colonna un’ombra senza una parola

si nasconde – è Jadwiga, regina al di là del viola,

languendo immersa nel gioco dei colori, ascolta,

levando i bianchi steli delle mani sulla fronte,

il rosso che canta felice, e il violetto dolente:

il mondo è un suono colorato, che non vuol dire niente…

1922

Magnolia

Sulla foglia giace un fiore

sonnecchiante

giallo bianco, come avorio.

Dolce fino alla noia.

Oggetto odoroso –

mondo maliziosamente segreto –

strano ospite,

tra noi, uomini. –

1922

L’uccellino

Povero uccellino,

più sciocco non si trova,

ha un nastro colorato,

in testa un rosolaccio,

nemico del gattino,

papà di cinque uova,

e ognuno è colmato

da un altro poveraccio,

all’albero avvinto

con le piume rosate,

fa sonore questioni

con altri stupidoni,

poi canta convinto

enormi baggianate. 1924

Chi vuole che io lo ami

Chi vuole che io lo ami, non può mai essere affranto

e deve riuscire a portarmi in braccio molto in alto.

 

Chi vuole che io lo ami, deve saper sedere su una panchina

e osservare attento gli insetti e la più piccola margheritina.

 

Deve saper sbadigliare quando un funerale gli passa davanti,

quando nelle processioni dei devoti ascolta le grida e i pianti.

 

Ma in compenso deve commuoversi quando un cuculo fa cucù

o quando un picchio sulla scorza di un faggio batte sempre più.

 

Deve saper accarezzare un cagnolino e con me fare ugualmente,

e ridere, e vivere un dolce sogno che non contiene niente,

 

e non sapere nulla, come me, e tacere in una dolce oscurità,

ed essere lontano dall’ira e altrettanto lontano dalla bontà.

1924

 

Autunno

Va con un mantello rosso e aurato.

Si specchia nell’ovale dello stagno.

Ma sta male. Non sa che è condannato,

che in quel manto lo seppelliranno.

1926

Amore

 

Non t’ho visto già da un mese. E niente.

Forse sono più bianca,

un po’ assonnata, forse più silente,

vedi dunque: anche senz’aria si campa!

seconda versione:

Non ti ho visto già da un mese. E nulla.

Forse sono più pallida e insonnolita,

forse più taciturna,

dunque anche senz’aria c’è vita!

1926

 

Il gabbiano

La nostalgia fruscia in me.

Mi tocca con l’ala del gabbiano.

E’ sempre la stessa?

Non lo so! non lo so…

1926

 

Un cuscino di luppolo

Per mille cause e per i crucci miei

Un cuscino di luppolo vorrei.

Da quelle pigne l’aroma che spira

Un forte sonno reca – la quiete attira.

In qualche luogo ho letto o l’ho sognato:

“Luppolo per l’insonne e l’inamato.

Un cuscino di luppolo componi,

E dormi, ché senza amore sragioni”…

1926

 

Di sera

Una stella si è seduta sulla loggia

nei palazzi di nuvole.

Si sono alzate le piante del tabacco

fino a quel momento indifferenti.

Il pipistrello come boomerang

è volato via e torna indietro,

già in sei girano in cerchio,

false rondini.

Una stella scende nel cielo,

cerca un compagno,

in groppa a un pipistrello

intorno vola il silenzio…

1927

Madama Butterfly

Quando Butterfly giaceva sulla stuoia di paglia,

come frutto tagliata da un colpo di harakiri,

qualcuno accorse, qualcuno bussò alla parete di carta

e s’illuminarono gli abissi della morte e i precipizi.

 

Sentì la voce di lui. Stregata! Maledetta!

Quindi cominciò a muoversi, come larva screziata,

sui gomiti e su un fianco verso la porta chiusa,

nell’abito di cielo, di pesche e di luna impigliata.

 

Nella fretta cadde e batté la faccia sul pavimento –

e un’onda larga, esausta il suo corpo sommerse –

prese a frusciare il Grande Ventaglio nero e funesto

e le pareti, il fiore, il mondo e Pinkerton disperse…

 

1927

 

Il canto dell’usignolo

 

L’erba bianca scorre al vento, sui tetti splende il verderame,

un usignolo nascosto nelle nubi di nuvole esce dal fogliame…

 

– E chiede con note vetrose, d’argento, dolci, veloci

che soavi penetrano nel cielo come aghi di voci…

 

E ancora chiede vetroso, timido e con voce velata,

e il suono scende come freccia debolmente lanciata…

 

E di nuovo chiede chiaramente e la parola errante

si ferma in cielo brillando come un diamante…

 

E di nuovo ancora una volta chiede, e il suono vantato

è come il pugnale dalla mano del suicida impugnato…

 

Trattiene le lacrime d’uccello, e di nuovo chiede tenace

nasconde gli occhi annebbiati nel raso delle piume argentate…

 

L’erba bianca scorre al vento, gli alberi brillano di verderame,

– Dio, incantato dalle domande, tarda a replicare…

 

1927

 

Il cuore

Mi è stato restituito il cuore,

dato in un abbaglio dorato…

Ora so, che non è velenoso come cicuta,

né grande, né forte come il cuore d’un destriero,

che non difende i suoi diritti un diavolo nero –

ma lo porterò ancora,

felice che me l’abbiano ridato.

1928

La notte

Da dietro la nera vela della tenda brillano ostinate le lanterne…

La mia solitudine non può essere più grande.

Non può essere più stupendo e più orribile, e più vano

e più estraneo,

perfino là dove le mani dell’eternità

in pallide interminabili strisce ci taglieranno,

là, dove comete nostalgiche come volanti argentei lumi fumano,

dove ognuno va per una strada solitaria,

dove il profumo dei muschi brinati e delle viole

con il dolce soffio della notte non abbellisce,

dove non si ride, non c’è una rosa, né un bacio – – –

dove non c’è chi stringa qualcuno al cuore – – –

Oh, oh, oh

per mettersi in un lungo viaggio,

occorre una notte come questa notte,

questa notte nera,

che io oggi sto vivendo…

1928

Suicidio di una quercia

La quercia solitaria guardava intorno con disprezzo!

Conosce la vita, chi tante vite ha osservato!

All’improvviso tolse un fulmine dal cielo.

Come un pugnale dorato –

E se lo immerse nel duro petto.

1933

VI

Poetessa, ti vuoi suicidare,

Sparse le trecce fiordaliso,

China sull’onda…

“Saffo che vuoi fare?”

-“Coprire col mare il mio viso,

Perché il mio pianto nasconda…” 1937

Le ali interne

Spesso mi guardi negli occhi, raggiante,

A una fiamma blu somigliante,

E attraverso i capelli traluci come oro,

 

O Psiche, o mia libellula interiore,

Le cui ali ripiegate, silenziose

Odo in me che ho nostalgia del volo.

 

Sovente sento, o vispa bighellona,

Che mi chiami larva fannullona,

E sul mio petto prendi a bussare,

 

Quando, precoce, vuoi uscire adirata

Da me, che a una foglia sono incollata,

Nelle ansie dei cavoli e nel brucare…

 

1937

 

Al tramonto

I

 

Oggi, in un caldo giorno d’inverno,

In una nebbia azzurrina,

Quando gli arbusti trattengono il pianto eroicamente,

Stava il sole, tondo, rosso come sangue,

Dietro un vicino campo, sulle cime

Degli alberi nostalgicamente turchine…

Mentre spariva, vidi la terra nel suo girare,

Che si alzava con la gravità di un congegno.

Una vista che non ha l’uguale,

Come vi dico, testimone, spettatore incantato!

E solo mi affligge che sia capitato

Oggi che la parola “terra” non mi dice niente. Niente.

 

II

 

Il vento serale misura la forza della ragnatela,

Che biancheggia nella diramazione di un albero…

Nel campo la nebbia si è sparsa come sottile telo,

E da lontano quieta una cicogna torna al nido,

Con una linea così scorrevole,

Come con un archetto forando adagio il cielo.

 

III

 

Dopo le odierne cupe incertezze,

Il giorno, tramontando, nel rosa s’immerge,

Come un “Momento musicale” di Schubert,

Quando alla fine ride lievemente.

 

1937

 

A Venere

I

La bianca Venere oggi è un narciso, che regna

Nella volta celeste, largamente aperto.

Il sole semina la luce, lei: la passione.

 

Gli antichi, coltivando il cielo

Con la meditazione paziente e muta,

Scorsero la sua impronta d’amore.

 

Dunque nel giardino, tra una bufera di stelle,

La fronte verso di lei sposto: che brilli

Nei miei pensieri.

Che mi faccia bella.

 

II

 

Il giardino di profumo, il cielo di stelle si adorna…

Ve ne siete andati freddi, chiassosi, impacciati,

Voi che la solitudine volete ch’io sposi…

 

Guardo in cielo:

Ecco Venere che sorge – – –

Come stelle di labbra amorose,

Ardente

Per me, che con la terra sono in discordia…

 

1938

 

(C) by Paolo Statuti

 



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