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Matteo Renzi e la “riforma keynesiana”

Creato il 28 maggio 2014 da Keynesblog @keynesblog

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Non può che far piacere ascoltare dal capo del governo un aggettivo – keynesiano – che tra i suoi amici liberisti suscita l’orticaria. Il vantaggio (potenziale) della democrazia rispetto alla tecnocrazia è che la prima elegge dei politici, i quali devono tener conto dei desideri e delle aspettative degli elettori se desiderano essere rieletti, mentre la seconda è sempre preda della “moda” teorica del momento o, peggio, degli interessi del mondo da cui i tecnocrati stessi provengono: raramente coincidenti con il benessere dei lavoratori e della classe media, molto più spesso esattamente opposti, come abbiamo visto proprio nel caso dell’Unione Europea.

Renzi è un politico e sa bene – anche se non può dirlo – che le regole che i tecnocrati hanno elaborato, e i politici del centroeuropa imposte ai paesi periferici, sono inapplicabili, sia per motivi economici (la conseguente depressione-deflazione che si aggiungerebbe a quella già in atto), sia politici (la crescita dei partiti antieuropeisti in molto paesi). Renzi sa anche che questa volta gli è andata bene, molto bene, oltre ogni aspettativa. Ma nulla vieta che, se le speranze che l’elettorato ha riposto in lui dovessero venire deluse, anche l’Italia potrebbe spostarsi tra i paesi più euroscettici.

Il voto di domenica ha quindi dato forza al leader del PD ma lo ha anche caricato di una responsabilità gravosa. Le prime parole pronunciate dopo la vittoria sono ben auguranti. Tra queste, la proposta di una riforma delle regole europee per scomputare gli investimenti dal deficit e consentire così uno stimolo di 150 miliardi in 5 anni. Una cifra significativa.

Il problema è, ovviamente, quello delle coperture. Se i 150 miliardi fossero reperiti con tagli alla spesa o maggiori tasse, l’effetto netto potrebbe essere da piccolo a nullo. Più efficaci sarebbero dei trasferimenti cospicui dai paesi ricchi a quelli in difficoltà, qualcosa che gli elettori dei primi hanno già fatto capire chiaramente che non accetterebbero.

L’Europa, insomma, è ancora in grandi difficoltà e l’allarme deflazione lanciato da Draghi ne è la conferma. Servirebbe una svolta radicale, ma non sarà possibile visti i risultati che hanno premiato i popolari da una parte e gli euroscettici dall’altra. In questa forbice Renzi ha delle carte da giocare, essendo uno dei pochi capi di governo e l’unico leader progressista premiato dal voto, l’unico ad aver sconfitto il tanto temuto “populismo” (con una dose uguale e contraria di populismo, si potrebbe malignamente aggiungere).

Se il dibattito europeo nei prossimi mesi fosse uno scontro Merkel-Renzi, che conducesse almeno ad una ridefinizione sostanziale delle regole fiscali più controproducenti e all’abbandono di fatto dell’austerità, sarebbe già un grande miracolo. Anche se si realizzasse, tuttavia, gli squilibri esterni, finanziari e commerciali, che hanno determinato la crisi dell’euro non verrebbero sanati, ma rischierebbero di tornare a farsi vivi. Se si vuole salvare l’Europa – e soprattutto salvare gli europei – serve molto altro ancora.


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