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Montenegro: la piccola repubblica balcanica in bilico tra l’adesione all’UE e l’essere “la Russia dell’Adriatico”

Creato il 03 luglio 2015 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Montenegro: la piccola repubblica balcanica in bilico tra l’adesione all’UE e l’essere “la Russia dell’Adriatico”
Riflessioni introduttive

La Repubblica di Crna Gora (letteralmente montagna nera) è l’ultimo o il penultimo Paese, a seconda se si scelga di ritenere il Kosovo uno Stato indipendente o una provincia della Serbia, nato dal cruento disfacimento dell’ex Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia.

D’altronde non sarebbe potuto essere diversamente tenuto conto che gli orgogliosi Montenegrini si considerano “i migliori tra i Serbi”, in ricordo dell’ostinazione e della caparbietà con la quale essi si opposero, spesso con successo, alle orde ottomane.

Nel corso degli anni, visitando ripetutamente il Paese, abbiamo avuto modo di apprezzarne direttamente i cambiamenti e di notare anche le sue contraddizioni. I suoi abitanti, fieri e orgogliosi, si fanno vanto di considerarsi il popolo più alto d’Europa, nonché l’unica popolazione balcanica mai definitivamente soggiogata dal potente Impero ottomano.

In effetti l’etnia dominante nella piccola repubblica è quella montenegrina seguita da quella serba, pur tuttavia su tale distinzione gli analisti non sono del tutto concordi. La maggioranza degli studiosi considerano Serbi e Montenegrini come un identico popolo appartenente al gruppo etnico degli slavi meridionali e la distinzione non può essere ricercata neanche nella lingua in quanto il serbo ed il montenegrino non sono altro che la stessa lingua (il c.d. serbo-croato) con delle leggere varianti presenti nel gergo locale. Di certo, invece, la differenza è sicuramente di natura politica tenuto conto che il Montenegro si è definitivamente separato dalla Serbia in seguito al referendum sull’indipendenza del maggio del 2006 che sancì la fine della federazione serbo-montenegrina; ulteriore differenza, ma più sfumata, è quella che fa risalire le origini del popolo montenegrino a quel gruppo di slavi che non si piegarono, nell’impervia zona montagnosa dell’antica capitale Cetinje, alla dominazione ottomana divergendo, in questo, dai restanti slavi meridionali (i Serbi ed i Bulgari) che invece furono per secoli sottomessi ai Turchi.

In realtà, durante una permanenza in Montenegro, ci siamo accorti di come nella piccola repubblica, all’epoca federata con la Serbia, siano convissuti pacificamente non solo Serbi e Montenegrini ma anche Albanesi, Bosgnacchi (slavi convertiti all’Islam) e altre minoranze presenti nel Paese (Croati, Bosniaci, Rom).
In questo elaborato cercheremo brevemente di accendere i riflettori sulla piccola e orgogliosa repubblica balcanica, il Montenegro appunto, partendo dalle sue origini, attraversando l’epoca della sua adesione alla federazione jugoslava, raccontandone le vicende attuali e, provando infine a proiettarci nel futuro di un Paese in bilico tra l’adesione all’Unione Europea e alla NATO e la sua storia recente, anche economica, che la lega indissolubilmente al destino dei popoli slavi per la loro secolare vicinanza con Mosca.

Brevi cenni storici: il Montenegro dagli Illiri alla seconda guerra mondiale

I primi abitanti conosciuti dell’odierno Montenegro furono gli Illiri, popolazione fiera e belligerante. Essi, intorno all’anno 1000 a.C., estesero la loro influenza in buona parte dei Balcani senza creare una Nazione unica ma piuttosto organizzandosi in tante piccole comunità, spesso in contrapposizione tra di loro. Alcuni analisti ritengono che il carattere valente e combattivo degli attuali Montenegrini tragga le sue origini anche da questi loro lontani progenitori. Il centro della cultura illirica era il villaggio fortificato intorno al quale si svolgeva la vita della comunità; gli alteri e bellicosi Illiri mantennero la loro indipendenza per secoli prima di essere soggiogati dai Romani che, nel 168 a.C., sconfissero Genzio, l’ultimo monarco illirico.

Il dominio romano si protrasse per alcuni secoli ed il Montenegro in quel periodo fece parte integrante della provincia della Dalmazia, la cui capitale era Dioclea, l’odierna Podgorica. La pax romana venne interrotta dal progressivo declino dell’Impero di Roma: la divisione tra Impero romano d’occidente e Impero romano d’oriente, nel 395 d.C, interessò significativamente l’attuale Crna Gora, il cui territorio venne suddiviso tra i due Imperi. Nel VII secolo fecero capolino nei Balcani, provenienti dall’area danubiana, gli Slavi, gruppo etnico attualmente maggioritario in Montenegro. Essi raggiunsero i Balcani probabilmente a seguito degli Avari, popolo nomade e guerriero, che già nel VI secolo si erano insediati nell’area attaccando le guarnigioni di Bisanzio che aveva sostituito i Romani nel controllo dell’area balcanica, distruggendo anche la città di Dioclea. I Bizantini infine riuscirono a sconfiggere le orde avare: se le popolazioni slave abbiano o meno avuto un ruolo significativo, al fianco di Costantinopoli, nella vittoriosa guerra contro gli Avari non è del tutto chiaro agli storici, in ogni caso esse riempirono il vuoto lasciato dagli Avari nella zona, andando a creare degli insediamenti prevalentemente lungo le coste dalmate. Gli Slavi inizialmente prosperarono sotto l’influenza bizantina e ciò permise il diffondersi del cristianesimo tra questi popoli.

Senza volerci dilungare in questa sede sulle altalenanti fortune che, tra il X e il XIII secolo, interessarono i primi regni slavi nell’area, sicuramente è a questo periodo che gli assertori di una differenza tra Serbi e Montenegrini fanno riferimento per sostenere che il Montenegro e la Serbia hanno una storia differente: il regno di Zeta, che nel suo massimo splendore ricomprese l’attuale Montenegro nonché parti delle odierne Croazia, Bosnia e Albania, considerato l’antesignano dell’odierna Repubblica di Crna Gora, si mantenne autonomo rispetto al regno di Serbia.

In seguito i Balcani vennero assoggettati alla dominazione ottomana: prima le armate turche conquistarono la Serbia ed in seguito rivolsero le loro attenzioni al regno di Zeta. Il re montenegrino Ivan Crnojević fu costretto a ritirarsi sull’impervio monte Lovćen, dove nel 1492 fondò la città di Cetinje. I Turchi riuscirono a conquistare la città soltanto nel 1514, ma la loro fu una “vittoria di Pirro”, infatti durante la loro plurisecolare dominazione sui Balcani furono costretti molte volte ad abbandonare la città e gli impervi territori circostanti, a causa della belligeranza della popolazione montenegrina. Il nome Montenegro, in sostituzione di Zeta, si deve proprio a questo periodo e alcuni storici lo fanno risalire ai Veneziani che in quell’epoca avevano esteso la loro influenza su tutta la costa dalmata: questi, riferendosi al monte Lovćen lo chiamarono montagna nera nel ricordo delle fitte foreste che lo ricoprivano.

I Turchi cercarono ripetutamente di pacificare la regione garantendo una notevole autonomia alle popolazioni locali che, comunque, si mantennero ostili nei confronti degli occupanti schierandosi spesso con Venezia, come nella guerra di Morea, conclusasi nel 1699, allorquando i Veneziani sconfitti gli ottomani, anche grazie all’appoggio dei clan montenegrini, ottennero in cambio le cittadine di Hercez Novi e Risan nelle Bocche di Cattaro.

In estrema sintesi, coloro i quali ritengono che i Montenegrini ed i Serbi non siano esattamente lo stesso popolo riconducono questa differenza al fatto che alcuni progenitori degli attuali abitanti del Montenegro riuscirono a mantenere, sulle impervie montagne che circondano l’abitato di Cetinje, se non proprio l’indipendenza, un’ampia autonomia durante l’occupazione turca dei Balcani.
D’altronde, proprio in quell’epoca, si affermò in Montenegro la dinastia dei Petrović-Njegoš il cui capostipite Danilo si autoproclamò “vescovo di Cetinje e signore della guerra di tutte le terre serbe”. A conferma del fatto che furono soltanto scelte di natura politica a stabilire un’ipotetica differenza tra Montenegrini e Serbi fu la creazione di due chiese ortodosse autocefale, l’una in Montenegro e l’altra in Bosnia (da parte della diaspora serba in quel Paese) in opposizione alla scelta dell’Impero turco (anno 1766) di ricondurre tutte le chiese ortodosse dell’Impero sotto il diretto controllo del Patriarcato di Costantinopoli. Alcuni secoli dopo, nel 2012, l’attuale Presidente serbo Tomislav Nikolić ha dichiarato di riconoscere l’indipendenza del Montenegro, ma di non riconoscere alcuna differenza tra i Serbi ed i Montenegrini.

Durante l’epoca napoleonica gli eredi di Danilo cercarono di guadagnarsi un accesso al mare dopo che l’ascesa del generale corso aveva determinato il definitivo tramonto della secolare repubblica di Venezia. Il principe Nicola Petrović-Njegoš, intorno al 1860, si alleò con il principe serbo Obrenović, il cui principato, seppur formalmente ancora sotto il controllo di Costantinopoli, era ormai di fatto indipendente e ciò allo scopo di affrancarsi definitivamente dal giogo ottomano e creare un unico Stato balcanico.

La rivolta contro i Turchi del 1875 in Bosnia-Erzegovina, cui presero parte anche Serbi e Montenegrini, fu l’occasione che consentì all’Impero austro-ungarico di salire alla ribalta nello scenario geopolitica balcanico dell’epoca: il congresso di Berlino del 1878 riconobbe infatti da un lato il controllo austriaco sulla Bosnia-Erzegovina e dall’altro l’indipendenza di Serbia e Montenegro. Il progetto di unificazione tra i due Paesi, che aveva il sostegno della maggioranza delle popolazioni locali e che aveva portato Serbi e Montenegrini a combattere spalla a spalla con Greci e Bulgari nel corso delle guerre balcaniche (conflitti finalizzati ad espellere definitivamente dai Balcani gli ottomani) non giunse a compimento a causa dello scoppio della Grande Guerra.

Al termine del primo conflitto mondiale, che aveva visto Serbia e Montenegro combattere al fianco delle potenze Alleate, i due Paesi persero la loro indipendenza, in quanto furono inglobati nel Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni. L’unificazione generò un forte risentimento in parte della fiera popolazione montenegrina anche a causa dell’unificazione delle chiese ortodosse serbe e montenegrine sotto il Patriarcato di Belgrado. L’eterogeneo regno ebbe comunque vita breve e fu caratterizzato anche dall’assassinio, nel 1934, in Francia, del suo re Alessandro da parte dei nazionalisti croati.

La seconda guerra mondiale determinò il tramonto del giovane regno. I Balcani vennero invasi dalle forze dell’Asse ed il controllo del Montenegro venne assegnato al regime fascista italiano. Il regno d’Italia nel 1939 invase l\’Albania e di lì, nel 1940, tentò la conquista della Grecia, conclusasi soltanto grazie al soccorso decisivo della armate tedesche. Gli Italiani, tra il 1940 ed il 1943, occuparono gran parte della Slovenia, della Dalmazia, della Croazia, dell’Erzegovina, del Montenegro e la Grecia. All’atto dell\’armistizio dell\’8 settembre 1943, quasi il 40% dell\’esercito italiano era di stanza nei Balcani. I monarchici serbi e soprattutto il partito comunista jugoslavo il cui leader, fin dal 1937, era Josip Broz, detto “il maresciallo Tito”, si opposero all’invasore e condussero una fiera resistenza contro Italiani e Tedeschi. L\’esercito popolare di liberazione della Jugoslavia, movimento comunista guidato da Tito, con l’ausilio delle forze Alleate e dei sovietici, riuscì ad avere la meglio sulle forze dell’Asse espellendole dal territorio del regno di Jugoslavia.

Terminato il secondo conflitto mondiale, in seguito alle elezioni dell\’11 novembre 1945, venne dichiarato decaduto il re Pietro II e fondata la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (fino al 1963 denominata Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia), suddivisa in sei repubbliche (Slovenia, Croazia, Montenegro, Macedonia, Bosnia-Erzegovina e Serbia) e in due province autonome costituite all’interno della repubblica serba (Kosovo e Vojvodina). Con la nascita della Jugoslavia il Montenegro, seppur all’interno di una federazione, riassunse il ruolo autonomo che aveva perduto con la creazione del Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni.

Dall’epoca comunista al disfacimento della Jugoslavia: la dichiarazione di indipendenza

I Montenegrini, che durante il conflitto mondiale si erano divisi tra i sostenitori delle forze dell’Asse, allo scopo di riacquistare la loro autonomia da Belgrado1, e i tanti che avevano aderito al movimento titino, in epoca comunista si distinsero per l’elevata rappresentatività all’interno del partito comunista jugoslavo e nelle forze armate.

Il governo del maresciallo Tito, che durò dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla sua morte nel 1980, fu rappresentato dal culto della sua personalità e dal largo seguito che egli ebbe tra le masse jugoslave, in gran parte dovuto alla vittoria nella guerra e alle certezze socio-economiche che il governo comunista riconosceva al popolo jugoslavo. Questo forte legame tra Tito e il suo popolo impedì ai nazionalismi di prendere il sopravvento nelle singole repubbliche federate: il Maresciallo era il padre-padrone della Jugoslavia ed evitò con ogni mezzo il disfacimento della federazione. Il suo acume politico, il pugno di ferro, il rispetto e il timore che incuteva nelle masse jugoslave consentirono al Paese di superare indenne sia il distacco da Mosca del 1948, sia le numerose crisi economiche che si succedettero negli anni. Le spinte autonomiste portarono il presidente Tito, nel 1974, ad approvare una Costituzione che attribuiva maggiori poteri alle singole repubbliche nella speranza di fermare la dissoluzione della federazione. Il sistema socialista garantiva agli Jugoslavi lavoro, assistenza sanitaria e previdenziale: lo Stato si occupava di tutto, forniva le abitazioni e assicurava gratuitamente l’istruzione ai suoi cittadini.

Verso la fine della presidenza di Tito però il welfare jugoslavo iniziò a mostrare chiari segnali di cedimento. Il crollo dell’economia socialista, l’impossibilità di garantire adeguati livelli economici, a causa dell’obsolescenza dell’industria jugoslava e degli alti costi necessari a garantire l’approvvigionamento energetico, fecero da volano all’acuirsi degli attriti tra i differenti popoli della federazione. Si diffuse un forte sentimento di diffidenza tra le repubbliche: i nazionalisti croati e sloveni sostenevano che ingiustamente le ricchezze economiche prodotte nei loro territori servissero a mantenere la macchina dello Stato federale dove Serbi e Montenegrini la facevano da padroni, i Serbo-montenegrini accusavano soprattutto i Croati di deriva fascista, nel ricordo degli ustascia, Croati alleati dei nazi-fascisti. In realtà, l’elemento unitario dell’eterogenea federazione era il maresciallo Tito e alla sua morte la Jugoslavia si avviò verso il suo “naturale” declino. Tra il 1991 e il 1992 tutte le repubbliche ex jugoslave dichiararono la loro indipendenza ad eccezione di Serbia e Montenegro, unite dalla comune matrice etnica e religiosa. Seppur i conflitti fratricidi che dilaniarono l’ex Jugoslavia negli anni Novanta non sono oggetto di questo elaborato, è d’uopo evidenziare il ruolo che assunse il Montenegro in questa lunga guerra civile.

La piccola repubblica balcanica non venne direttamente interessata dai conflitti, gli scontri interetnici non interessarono il territorio montenegrino, ma la sua popolazione e la sua classe politica si schierarono dalla parte dei Serbi, tanto che nel 1992 i Montenegrini votarono per il permanere nella federazione insieme alla Serbia. D’altronde, non poteva essere diversamente: i Montenegrini erano fortemente rappresentati nell’esercito federale e nel partito comunista jugoslavo, essi si consideravano Serbi e come tali uniti nella comune fede ortodossa e nell’identità etnica ai loro vicini di Belgrado. Seppur il suolo montenegrino non venne coinvolto nella guerra civile balcanica, molti Montenegrini vi presero parte o nelle fila dell’armata popolare jugoslava o quali membri di gruppi paramilitari. Di certo numerosi riservisti montenegrini parteciparono nel 1991, congiuntamente ai paramilitari serbo-bosniaci e all’esercito federale, all’assedio della città croata di Dubrovnik, l’antica Ragusa. La partecipazione montenegrina al bombardamento della vicina città croata – meno di quaranta chilometri la separano dalla frontiera con il Montenegro – rappresenta uno dei momenti più oscuri della storia del paese.

L’argomento è una sorta di tabù: durante i nostri soggiorni nella Repubblica di Crna Gora, più volte abbiamo chiesto delle informazioni su questo triste evento, ma nessuno degli interpellati ne ha mai voluto parlare. Una volta, un amico montenegrino, accompagnandoci a visitare la città di Dubrovnik, in prossimità della frontiera tra i due Paesi ci disse: “da adesso parliamo soltanto in italiano, tanto qui lo capiscono tutti, non vorrei essere riconosciuto con il mio accento montenegrino”. Da allora la situazione è cambiata, ma il ricordo di quegli avvenimenti è ancora fortemente impresso nelle popolazioni al di là e al di qua della frontiera.

Un conflitto che invece interessò il suolo montenegrino fu quello kosovaro (marzo-giugno 1999) allorquando i bombardamenti della NATO colpirono, seppur in maniera meno significativa rispetto alla vicina Serbia, anche il territorio della piccola repubblica. La questione kosovara è invece un argomento per nulla tabù nella popolazione montenegrina. Se durante un viaggio in questo meraviglioso angolo dei Balcani vi fermaste infatti a chiedere l’opinione della popolazione locale sui bombardamenti del 1999, trovereste una relativa unitarietà di opinione sull’argomento: i Montenegrini, anche le generazioni più giovani, non hanno compreso le motivazioni che spinsero la NATO a bersagliare la Serbia e il Montenegro nel 1999.

Essi si considerano il baluardo della cristianità contro l’avanzata musulmana, forte è quindi in loro il sentimento di collera per essere stati bombardati da popoli cristiani a difesa dei musulmani kosovari. Per la stragrande maggioranza dei serbo-montenegrini il Kosovo è la loro Patria, è la culla dell’ortodossia balcanica.

Dal 1991 la scena politica montenegrina è dominata dalla figura carismatica del suo attuale primo ministro Milo Đukanović. Egli, in origine fedelissimo del presidente serbo Slobodan Milosevic di cui appoggiò le scelte in politica interna ed estera, grazie all’appoggio dei comunisti serbi si pose a capo, insieme al suo futuro avversario politico Momir Bulatović, di un movimento che determinò il cambiamento nella leadership politica del Paese (c.d. rivoluzione antiburocratica). Successivamente però, Đukanović assunse una posizione filoccidentale che lo allontanò dall’antico mentore serbo e lo portò alla rottura con Bulatović: le posizioni intransigenti assunte dal presidente serbo e il conseguente isolamento internazionale che ne derivò, nonché la supremazia esercitata dai Serbi in seno alla federazione serbo-montenegrina, spinsero il leader montenegrino verso posizioni più europeiste ed occidentali. Nel 1997, la scelta di Đukanović di sposare le aspirazioni indipendentistiche portò a una scissione all’interno del Partito Democratico dei Socialisti del Montenegro (DPS), che lui aveva fondato nel 1991 insieme al filoserbo Momir Bulatović.

Il ruolo assunto dalla federazione divenne sempre più marginale e il premier montenegrino iniziò a preparare il distacco tra le due entità territoriali. Caduto Milosevic nel 2001, al Montenegro cominciò a stare sempre più stretto il ruolo di outsider in seno alla federazione. Un’evidenza dell’ormai solo formale unità federale era l’uso del marco tedesco quale moneta ufficiale in Montenegro al posto del dinaro jugoslavo. Nel 2003 andò definitivamente in pensione la Jugoslavia e nacque l’Unione statale di Serbia e Montenegro. Il 21 maggio del 2006 in Montenegro si tenne il referendum sull’indipendenza: ciò fu possibile in aderenza a quanto stabilito dall’art. 60 della Costituzione dell’Unione statale di Serbia e Montenegro del 2003 che prevedeva il trascorrere di almeno tre anni dalla ratifica della Costituzione perché uno dei due Paesi federati potesse promuovere un referendum sull’indipendenza.

L’Unione Europea, per riconoscere il risultato elettorale, pretese che votassero a favore dell’indipendenza almeno il 55% degli aventi diritto. La vittoria dei separatisti fu per una manciata di voti: al termine delle consultazioni votarono a favore dell’indipendenza soltanto il 55,55% degli aventi diritti ma, comunque, il risultato elettorale fu riconosciuto dalla diplomazia internazionale ed il Montenegro divenne una repubblica indipendente2. Ad oggi, alcuni analisti sono ancora discordi sull’esito e le modalità di svolgimento del referendum: se è vero che gli indipendentisti ebbero la meglio nel corso di una competizione svoltasi regolarmente, è anche vero che il diritto riconosciuto ai Montenegrini residenti all’estero di partecipare al voto fu però precluso a quelli, oltre 250.000, residenti in Serbia. Il controverso e filoccidentale Đukanović trionfò in quello che da molti viene considerato il suo più grande azzardo politico: il referendum. Egli, che dal 1991 è l’assoluto leader della politica montenegrina, soltanto nella consultazione referendaria del 2006 rischiò di essere defenestrato e di perdere la leadership della repubblica balcanica.

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Negli ultimi anni il Montenegro è divenuto una delle nuove mete turistiche del Mediterraneo, le sue bellezze paesaggistiche, le sue spiagge e i suoi borghi di origine veneziana, lungo la costa dalmata, vi attirano moltitudini di turisti e di investitori. Gli investimenti più significativi sono venuti da imprenditori russi che hanno fatto, insieme a Cipro, della piccola repubblica balcanica la loro meta preferita nel Mediterraneo. Agli inizi del secolo nella Repubblica di Crna Gora i turisti si contavano sulle dita di una mano anche in agosto nell’affollato boulevard della vivace Budva, lungo la costa adriatica. Oggi, oltre al montenegrino, nella calde sere d’estate le lingue più diffuse tra le stradine degli storici borghi rivieraschi del Paese sono l’italiano e il russo.
Nell’ultimo decennio molti magnati russi hanno investito nel Paese, acquisendo vecchie strutture turistiche d’epoca comunista ma, soprattutto, favoriti dalla normativa locale, costruendo di sana pianta nuove strutture recettive. La stessa fabbrica di alluminio di Podgorica (KAP), pilastro dell’economia montenegrina, delle cui tristi vicissitudini diremo in seguito, fu acquistata da una società riconducibile al magnate russo Oleg Deripaska. Si parla di investimenti russi per oltre due miliardi di euro nell’ultimo decennio nella piccola repubblica balcanica!

Gli stretti legami tra Russia e Montenegro non risalgono di certo agli investimenti dell’ultimo decennio, ma hanno origini storiche molto più antiche. Agli inizi del 1700 il primo vescovo-principe montenegrino Danilo Petrović-Njegoš si recò a San Pietroburgo alla corte dello zar Pietro il Grande per ottenere aiuti nella lotta contro l’occupante ottomano. Questa tradizione venne rinnovata dai successori di Danilo che si recavano spesso in Russia in cerca di appoggio contro gli invasori turchi e che, uniti dalla comune fede ortodossa e dall’appartenenza al medesimo gruppo etnico degli slavi, vedevano nell’Impero zarista un potente alleato. I rapporti tra i due Paesi rimasero sempre più che buoni nel corso dei secoli seguenti e divennero ancor più forti al termine del secondo conflitto mondiale che vide, in principio, la repubblica federale di Jugoslavia quale parte integrante del blocco comunista. La rottura di Tito con Stalin del 19483 fu di certo mal digerita dai Montenegrini che in massa, nel corso della guerra di resistenza ed al termine del conflitto, avevano aderito al partito comunista jugoslavo. La scelta del Maresciallo di uscire dalla sfera di influenza sovietica ebbe all’inizio una veemente opposizione in seno al partito comunista jugoslavo, ma infine Tito e il suo gruppo dirigente espulsero dal partito i sostenitori di Mosca e imposero la loro svolta al Paese.

I rapporti tra Mosca e Podgorica interrotti durante tutta l’epoca titina, vennero timidamente ripresi a seguito della morte del Maresciallo nel 1980, ma fu soltanto a partire dagli anni duemila che gli investitori russi si interessarono realmente alla piccola repubblica balcanica. Il piccolo Montenegro, meno di 630.000 abitanti, dopo la separazione dalla Serbia ha avuto assoluta necessità di attirare investimenti esteri per far ripartire l’economia e per modernizzare le obsolete infrastrutture del Paese. In tale scenario sono stati gli imprenditori russi ed italiani a credere nelle potenzialità di sviluppo, favoriti, i primi, dalla comune appartenenza alla chiesa ortodossa e al gruppo etnico degli slavi, mentre i secondi dalla vicinanza geografica e dai secolari rapporti risalenti fin dall’epoca della repubblica di Venezia.
Tutto è mutato, nulla è cambiato!

Il Paese, che nell’ultimo ventennio è passato dal far parte della federazione jugoslava, all’Unione di Serbia e Montenegro, alla dichiarazione di indipendenza del 2006 fino all’attuale processo di adesione all’UE ed alla NATO, ha subito una profonda e drastica trasformazione, la quale non sempre ha lasciato indenni le classi più deboli della società montenegrina. Il trapasso da un, seppur decadente, sistema comunista all’attuale sistema capitalistico ha trovato impreparate le categorie più deboli della società: pensionati e agricoltori. A differenza, però, di altri Stati ex comunisti in Montenegro la relativamente limitata estensione territoriale, lo spirito fiero e orgoglioso e il forte senso di appartenenza alla famiglia che contraddistingue la popolazione locale hanno mitigato gli aspetti negativi del crollo del sistema sociale di epoca comunista.

Nonostante i grandi investimenti russi in Crna Gora, la politica dell’ex comunista Đukanović è sempre più orientata ad Occidente. Egli nel corso degli anni si è sempre più affrancato dal potente ed ingombrante vicino serbo e, indirettamente, dallo storico alleato di Belgrado: la Russia. La scelta unilaterale di adottare il marco tedesco prima e l’euro poi, quale moneta nazionale, era finalizzata a prendere definitivamente le distanze dalla Serbia. D’altronde, il Montenegro rappresenta un unicum in tal senso, essendo stato il primo Paese4 ad adottare l’euro come moneta nazionale senza essere parte dell’Unione Europea e, di conseguenza, senza avere aderito alla politica monetaria comune. Ulteriore strappo con i “fratelli” serbi si è concretizzato allorquando il Montenegro ha deciso, il 9 ottobre 2008, di riconoscere l\’indipendenza del Kosovo.

Il riconoscimento del Kosovo è stato un azzardo del premier montenegrino, egli è sempre stato consapevole che la maggioranza della popolazione del paese non condivide questa scelta ma, anche questa volta, è andato dritto per la sua strada, nonostante le proteste scatenatesi a Podgorica nei giorni seguenti il riconoscimento dell’indipendenza kosovara, convinto che la scelta effettuata sia l’unica possibile per ottenere quanto prima di essere ammessi nell’Unione Europea e nella NATO. A Mosca il riconoscimento del Kosovo è stato visto come un tradimento sia per i più che secolari rapporti di fratellanza tra i due popoli sia, soprattutto, per i significativi investimenti che i magnati russi hanno fatto nel Paese. L’ammissione del Montenegro in seno all’UE in effetti porterebbe a quest’ultima una strana eredità in quanto il Montenegro sarebbe l’unico Stato membro ad avere come principale partner commerciale la Russia di Putin. Da oltre un ventennio l’equilibrismo del premier montenegrino gli ha permesso di dominare la scena politica in Crna Gora; egli, da un lato, ha preso politicamente le distanza da Belgrado e da Mosca, dall’altro, ha cercato di stimolare in ogni modo gli investimenti russi nel Paese, sfruttando in tal senso anche gli ottimi rapporti tra le classi dirigenti serbe e russe. Il suo partito (Partito Democratico dei Socialisti del Montenegro – DPS), erede del partito comunista montenegrino, ha guidato il Paese, senza soluzione di continuità, fin dalla dichiarazione di indipendenza del 2006. Lo stesso Presidente della Repubblica, il rieletto Filip Vujanović, è membro del DPS.

La maggioranza nell’unicamerale parlamento montenegrino5 è composta dal DPS, dal Partito Socialdemocratico di Ranko Krivokapić e dal Partito Liberale. Tuttavia la situazione politica del Paese è magmatica in quanto più volte, nell’ultimo biennio, il Partito Socialdemocratico ha votato con l’opposizione contrapponendosi a delle proposte legislative avanzate dall’esecutivo Đukanović.
Alcuni analisti d’opposizione sostengono che Ranko Krivokapić vorrebbe prendere definitivamente le distanze dal premier montenegrino, ma ciò non è così semplice in un Paese di appena 630.000 abitanti che, tra l’altro, deve l’indipendenza alla caparbietà del suo attuale leader. Una scelta così drastica potrebbe portare all’esclusione del partito socialdemocratico dalla scena politica del Paese e, probabilmente, Krivokapić è consapevole di non avere, almeno allo stato, un consenso popolare tale da consentirgli di sciogliere il connubio con il suo storico alleato.

Pur tuttavia, sono le scelte di natura economica sostenute da Đukanović che rischiano di mettere in crisi l’apparente stabilità politica della piccola repubblica balcanica e la sua longeva leadership. Il Paese negli anni ha visto crescere in maniera più che significativa gli investimenti esteri (soprattutto russi) ed il turismo, ma di certo non si può sostenere che sia divenuto uno Stato ricco e fortemente sviluppato.

La Repubblica di Crna Gora ha necessità di ingenti investimenti nelle infrastrutture stradali e ferroviarie – a mero titolo di esempio si pensi all’autostrada che dovrebbe collegare Belgrado con l’Adriatico che dopo il flop del consorzio croato che avrebbe dovuto realizzare il progetto, probabilmente verrà cofinanziata da Podgorica e soprattutto da una banca cinese – nella pubblica amministrazione e in materia ambientale. Il ciclo dei rifiuti rappresenta un anello debolissimo per il processo di adesione del paese all’Unione Europea. Dal punto di vista naturalistico il Montenegro è sicuramente un gioiello nei Balcani, pur tuttavia visitando il Paese in anni recenti si è osservato tristemente la presenza di numerose discariche in strade secondarie dove i rifiuti venivano smaltiti incendiandoli.

Ma è sulla questione della Kombinat di Podgorica (KAP) che si gioca una delle più difficile partite per l’immortale Đukanović. L’enorme complesso industriale della KAP si erge maestoso alla periferia della città lungo la strada che collega la costa adriatica alla capitale. L’acciaieria è stata fondata nel 1971 ed è sicuramente il più importante impianto industriale del Paese, massima espressione dell’industrializzazione voluta da Tito, indissolubilmente collegata alle miniere di bauxite situate nei pressi della vicina città di Nikšić. Nei primi anni duemila nel Paese a volte veniva interrotta la fornitura di energia elettrica nelle ore notturne e chiedendo alla gente del luogo le cause di tali interruzioni, essi vi avrebbero risposto che la potenza energetica veniva indirizzata verso lo stabilimento KAP sacrificando per tal fine le altre tipologie di forniture.
La KAP può davvero essere considerata un monumento dell’archeologia industriale dell’ex cortina di ferro: senza il rischio di essere smentiti, potremmo sostenere che la kombinat di Podgorica sta al Montenegro come la FIAT all’Italia e, forse, il paragone non dice perfettamente cosa è, ma soprattutto cosa è stata, la KAP per lo Stato balcanico.

La recente storia della KAP scorre parallela con quella della Repubblica di Crna Gora. Lo stabilimento, di proprietà statale, nel luglio del 2005 fu ceduto dal governo montenegrino, già presieduto da Đukanović, a una società di off-shore cipriota, ma di fatto a capitale russo. I primi problemi sarebbero sorti già due anni più tardi quando la società, che nel frattempo aveva cambiato nome, avviò un arbitrato contro il Montenegro richiedendo un risarcimento di 300 milioni di euro in quanto lo Stato balcanico non avrebbe evidenziato, all’atto della cessione, con chiarezza le preoccupanti condizioni in cui versava l’impianto di produzione di alluminio. La controversia durerà fino al novembre del 2009, quando il governo montenegrino si impegnò a garantire direttamente un prestito bancario, per oltre 130 milioni di euro, a vantaggio della KAP nonché a sovvenzionare la fornitura, a prezzi di favore, dell’energia elettrica all’impianto. In realtà, tali interventi se da un lato hanno, nel breve periodo, scongiurato la chiusura di uno stabilimento comunque simbolo per il Paese, dall’altro hanno gravemente esposto dal punto di vista finanziario il Montenegro e ne hanno messo a rischio la credibilità in ambito internazionale.

Nel 2010 lo Stato ha riacquistato dalle società del gruppo del magnate russo Oleg Deripaska il 30% dello stabilimento e il 32% delle miniere di bauxite di Nikšić. Dal 2010 ad oggi il livello di indebitamento dello stabilimento e la crisi del settore hanno irrimediabilmente compromesso la situazione. Lo Stato è dovuto intervenire più volte, con denaro pubblico, per ripagare i fondi che le banche avevano garantito alla KAP, non avendo quest’ultima fatto fronte agli impegni finanziari assunti.

In questo scenario si sono create le prime fratture all’interno della coalizione di governo, i socialdemocratici di Ranko Krivokapić hanno più volte votato in parlamento con l’opposizione contro ulteriori interventi a vantaggio del kombinat e della sua proprietà. La realtà è che si è permesso nel tempo all’impianto industriale, pur di non comprometterne il ciclo produttivo e soprattutto i livelli occupazionali, di sostenersi prevalentemente con fondi pubblici e di continuare ad essere rifornito di energia elettrica nonostante non venissero pagate le relative bollette. Tutto ciò ha creato un ulteriore gravoso contenzioso tra il Montenegro e la società italiana A2A che gestisce la rete elettrica del Paese la quale, a fronte dell’insoluto debito dell’impianto, non ha versato nelle casse dell’Erario di Podgorica le imposte che avrebbe dovuto versare.

Lo scontro politico in atto tra il parlamento e la leadership del Paese è incentrato proprio sulle problematiche connesse al forte indebitamento dell’impianto industriale e al conseguente contenzioso con la società A2A. Il Parlamento ha più volte deliberato contro ogni ulteriore aiuto al KAP ed alla concessione di indennizzi a Oleg Deripaska, sostenendo come il Paese si sia già fortemente indebitato per garantire i debiti contratti dalla fabbrica di alluminio. L’opinione del premier Đukanović è ovviamente differente: le privatizzazioni sono una sua eredità politica, la chiusura definitiva dell’acciaieria e la rottura del contratto con la società elettrica italiana non significherebbe altro che il totale fallimento delle sue politiche economiche e avrebbe ripercussioni sicuramente anche in campo politico.

Osservazioni conclusive: la Repubblica di Crna Gora nell’attuale scenario geopolitico

Le scelte in politica internazionale di Milo Đukanović sono tracciate ormai da più di un decennio: integrazione nell’Unione Europea e ingresso nel Patto atlantico. Tuttavia in politica economica il premier montenegrino non sembra avere le medesime certezze: volente o nolente, infatti, il suo primo partner commerciale è la Federazione Russa ed è grazie agli investimenti russi che il Paese ha potuto rilanciarsi come nuova meta turistica adriatica, entrando in concorrenza con la Croazia.

Nel dicembre del 2013, dopo oltre dieci anni di assenza, Đukanović si è recato a Belgrado. Questa visita ha segnato un riavvicinamento tra i due Paesi, dopo che le relazioni si erano praticamente interrotte in seguito all’assassinio, nel marzo del 2003, dell’ex premier serbo Zoran Đinđić. A Belgrado la fine dell’epoca di Vojislav Koštunica, leader politico che si è opposto da sempre sia all’indipendenza del Kosovo che a quella del Montenegro, ha permesso un riavvicinamento tra i due Stati confinanti. La nuova leadership serba, composta dal presidente Tomislav Nikolić e dal primo ministro Aleksandar Vučić, entrambi appartenenti al Partito Conservatore Progressista Serbo (PPS), ha riconosciuto l’indipendenza della Repubblica di Crna Gora anche se non ha condiviso il riconoscimento del Kosovo da parte di Podgorica.

Il miglioramento dei rapporti politici tra i due Paesi è considerato da molti analisti una vittoria per il premier serbo Vučić, pronto a dimostrare alla comunità internazionale di aver potenziato le relazioni con i Paesi confinanti, nell’ottica di una futura integrazione della Serbia nell’Unione Europea. Anche per il Montenegro è importante il riavvicinamento con Belgrado, soprattutto dal punto di vista economico, Đukanović ha interesse che il porto di Bar ritorni ad essere lo sbocco al mare privilegiato per la Serbia ed in tal senso deve respingere gli insidiosi attacchi provenienti dalla vicina Albania, la cui leadership politica6, di recente, si è recata nella capitale serba e, indipendentemente dai differenti proclami sul Kosovo, ha sponsorizzato il porto di Durazzo quale sbocco degli scambi commerciali serbi in Adriatico – gli Albanesi hanno sottoscritto con le loro controparti serbe tre accordi intergovernativi, finalizzati a una più stretta cooperazione in materia doganale e in materia di libera circolazione dei rispettivi cittadini.

Ciononostante, i problemi per Đukanović provengono sempre dalla KAP. Essa, dichiarata fallita nel luglio del 2013, continua a produrre grazie alla volontà dal governo montenegrino, ma il rischio economico per il Paese è altissimo. Il debito accumulato dalla KAP con la società italiana A2A, per le forniture elettriche all’impianto, è ingentissimo e si potrebbe rischiare la bancarotta se il magnate russo Deripaska e la società italiana dovessero avere successo in una procedura di arbitrato internazionale. Il fallimento delle due privatizzazioni sta mettendo davvero a rischio le esangui casse della repubblica ed ha già creato delle crepe nella coalizione che governa il Paese: i socialdemocratici si oppongono al che i costi di queste operazioni ricadano sul popolo montenegrino, anche se non sembrano esserci altre vie di uscita. Se da un lato il Montenegro potrebbe avere la meglio, in un arbitrato, sulle pretese dell’oligarca russo, per presunte violazioni contrattuali connesse con l’acquisizione della KAP nel 2005, dall’altro difficilmente potrebbe vedere riconosciute le sue ragioni in un lodo internazionale con la società italiana A2A che ha continuato a fornire energia alla KAP. Tale fornitura si è infatti protratta nonostante il mancato pagamento delle bollette perché era caldeggiata dal governo di Podgorica.

In questo scenario il 25 maggio 2014 si sono tenute le recenti elezioni amministrative a Podgorica; gli oppositori di Đukanović del “fronte democratico” speravano finalmente con l’esito di tali elezioni di proclamarne il tramonto politico7, ma anche questa volta il carismatico leader di Nikšić è riuscito ad avere la meglio sui suoi rivali. La vittoria di Đukanović si è avuta nonostante gli alleati di governo del partito socialdemocratico di Ranko Krivokapić si siano presentati alla consultazione elettorale coalizzati con l’opposizione democratica.

Al termine della tornata elettorale, però per la prima volta dopo oltre un ventennio, il Partito Democratico dei Socialisti di Đukanović non ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, ingenerando nei suoi oppositori la speranza, poi come già detto risultata vana, di estrometterlo dal governo della città. Le aspettative dell’opposizione sono andate tradite quando, trascorsi cento giorni dalle consultazioni, il Partito Socialdemocratico ha incredibilmente raggiunto un accordo con il PDS per il governo della città. E dobbiamo riconoscere che con i suoi 150.000 abitanti, Podgorica è il centro politico-amministrativo del Paese e chi la governa, governa il Montenegro.

Alcuni analisti sostengono che non è ancora possibile una rottura definitiva tra Đukanović e Krivokapić, la posta in gioco è troppo alta: l’adesione all’UE e l’entrata del Montenegro nella NATO. Il Partito Socialdemocratico non ha un consistente sostegno nell’elettorato e, quindi, non potrebbe scendere in campo autonomamente in un’importante tornata elettorale. Esso potrebbe invece allearsi con l’opposizione per contrastare il partner di sempre. In questo caso, però, dovrebbe rinnegare la sua ventennale linea politica in quanto, nella coalizione di opposizione del Fronte democratico, un ruolo fondamentale è giocato dalla Nuova Democrazia Serba, partito filoserbo e contrario all’adesione del Montenegro alla NATO. L’accordo per il governo della capitale ha per l’ennesima volta dato ragione al filoccidentale Đukanović. Egli è assolutamente proteso verso i suoi due obiettivi politici, ma tali scelte hanno un diverso appeal sulla popolazione montenegrina: infatti, se da un lato essa è generalmente favorevole all’ingresso nell’UE, dall’altro recenti sondaggi evidenziano come i Montenegrini siano in maggioranza contrari all’adesione al Patto atlantico, memori dei bombardamenti NATO che colpirono il paese nel 1999.

Indipendentemente dalla volontà della leadership di Podgorica, il cammino che il Paese deve ancora compiere, prima di essere ammesso nelle due organizzazioni, è ancora lungo e non privo di insidie. Đukanović pensava di sfruttare la crisi ucraina per ottenere un’accelerazione nella sua richiesta di adesione alla NATO ma, nonostante la sua visita negli USA dell’aprile scorso volta a ottenere il sostegno necessario per l’accoglimento nel Patto, nel recente summit della NATO in Galles si è deciso di posticipare alla fine del 2015 ogni ipotesi di ulteriore allargamento dell’organizzazione. Indubbiamente l’Occidente ha tutto l’interesse a sottrarre il Paese dall’influenza di Mosca e, quindi, di accoglierlo all’interno delle sue organizzazioni politico-militari e politico-economiche, ma questo necessita di profonde riforme che Podgorica è ancora lungi dall’aver compiuto, anzi molte di esse devono ancora essere intraprese.

In tale direzione vanno le recenti dichiarazioni dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Federica Mogherini. Essa infatti nel luglio scorso, quale Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale pro tempore, nel corso di una intervista rilasciata al “portale Analitika” durante una visita istituzionale in Montenegro, ribadiva che l’Italia è favorevole all’ingresso di Podgorica nell’Unione. La Mogherini, nello specifico, così però dichiarava: “tuttavia l’adesione del Montenegro all’Unione Europea non si decide tanto a Bruxelles, si decide a Podgorica: sarà il frutto dei negoziati di adesione, e sarà determinata dall’esito delle riforme varate e attuate dal Montenegro”. D’altronde, lo stesso nuovo Presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker ha di recente affermato che non ci sarà un allargamento dell’Unione nel corso del suo mandato, perché dalle ultime analisi non è ipotizzabile alcun nuovo ingresso prima del 2020.

Il Montenegro è sicuramente in pole position tra gli Stati in procinto di essere ammessi nella NATO e, in un secondo momento, nell’Unione Europea, esso ha compiuto passi concreti e significativi per raggiungere tali obiettivi ma necessita ancora di imponenti riforme infrastrutturali ed in materia di giustizia, ambiente, corruzione e lotta alla criminalità organizzata. D’altronde, soltanto nel 2010 il Consiglio Europeo ha concesso a Podgorica lo status di candidato ufficiale all’adesione. In ogni caso, il processo di integrazione nell’UE è condiviso sia dalle forze di governo che dalle opposizione e non potrebbe essere diversamente, tenuto conto che anche la vicina Serbia ha in essere un accordo di adesione e stabilizzazione con Bruxelles. La necessità di soddisfare i criteri economici, politici e dell’aquis commaunautarie8 stabiliti a Copenaghen nel 1993 per essere ammessi nell’Unione stanno comportando un incredibile sforzo per il piccolo Stato balcanico, ma la scelta di integrazione è ormai irreversibile.

Il governo ha modificato in chiave europea la Costituzione e sta procedendo nelle riforme della giustizia e della pubblica amministrazione: questi cambiamenti hanno determinato la riduzione dei dipendenti pubblici, misura impopolare ma necessaria visto l’incredibile numero di questi in rapporto alla popolazione attiva del Paese. Sui 35 capitoli di cui si compone l’aquis soltanto uno è risultato, al momento, incompatibile con i principi stabiliti a Copenaghen, quello in materia ambientale. Per quanto il Paese abbia adottato una moderna legislazione in materia di gestione dei rifiuti, di qualità dell’aria e di valutazione dell’impatto ambientale, tali provvedimenti normativi non hanno portato un conseguente effettivo miglioramento, infatti, ancor oggi, i rifiuti vengono abbandonati in discariche, all’aperto, che non rispettano i criteri ambientali stabiliti dalla legislazione vigente.

In conclusione, la Repubblica di Crna Gora procede verso la sua integrazione nell’Unione Europea, ma il percorso è tortuoso e non privo di difficoltà e comunque le riforme necessarie per essere ammessi nell’Unione necessitano di risorse economiche e di stabilità politica. Il Paese, con un tasso di disoccupazione intorno al 20% e un PIL che dopo la recessione del 2012 è tornato timidamente a crescere nel 2013, ha assoluto bisogno di finanziamenti esteri per modernizzarsi e raggiungere i parametri fissati dal Consiglio Europeo di Copenaghen. Paradossalmente, al momento, soltanto gli investitori russi sembrano disposti a investire significativamente in Montenegro.

Podgorica si trova in una situazione di stallo economico e politico: se da un alto infatti i contenziosi con la società italiana A2A e con il magnate russo Deripaska per la fallimentare privatizzazione della KAP ne hanno messo in dubbio la credibilità quale competitor economico agli occhi della comunità internazionale, dall’altro tali difficoltà economiche ne hanno minato la stabilità politica, incrinando i rapporti in seno alla coalizione che domina la scena politica del Montenegro fin dalla sua dichiarazione di indipendenza. La figura centrale dello Stato balcanico rimane sempre il suo carismatico ed equilibrista premier Milo Đukanović che dovrà districarsi tra mille insidie e contraddizioni: da un lato le spinte filoccidentali del Paese dall’altro, la necessità di “accattivarsi” la minoranza serba, da sempre orientata verso Est e, soprattutto, gli investitori russi, i quali paradossalmente rappresentano lo strumento necessario per garantire a Podgorica le imprescindibili risorse finanziarie nel suo viaggio verso l’integrazione comunitaria.

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