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Mr Ciak #17: Come ti spaccio la famiglia, Una canzone per Marion, Rubinrot
Creato il 28 agosto 2013 da Mik_94Colpevole. Una canzone per Marion è stato il secondo film dopo The Impossible, in questo 2013, ad avermi fatto piangere per davvero. Perciò, lo dichiaro colpevole. E' il genere di film con cui i critici non vanno troppo d'accordo, ma, dall'inizio alla fine, mi sono sciolto come un ghiacciolo alla fragola al sole. E no, non era la tristezza a farmi questo effetto, ma la tenerezza che i protagonisti del film diffondevano intorno a loro: ad ogni respiro, ad ogni bacio, ad ogni piccolissima nota. La commedia drammatica diretta da Paul Andrew Williams – regista del dissacrante horror The Cottage – spicca per una leggerezza e una delicatezza totalmente inaspettate, disarmanti nella loro autentica sincerità. E' adorabilmente e spiccatamente british in tutto, dalle meravigliose ambientazioni al cast, ma non sa trattenersi davanti all'amore straziante dei due protagonisti, Marion e Arthur. Non un amore proibito, non un amore lampo, ma un sentimento che – tra alti e bassi – è maturato in cinquant'anni e oltre di matrimonio. Un amore coniugale, pieno di rughe e acciacchi; un amore della terza età. Lei, Marion, vive per la musica; lui, Arthur, vive per Marion. E' un vecchietto brontolone e coriaceo, con le pareti del cuore spesse come rocce e un figlio con cui parla pochissimo, ma per Marion farebbe di tutto e di più. Sua moglie, ormai, è fragile e anziana, non le resta molto da vivere, e, ogni notte, la culla come se quella fosse l'ultima notte da condividere con la sua anima gemella. Alla luce del sole, però, davanti a tutti, è cinico e sarcastico e sembra divertirsi un mondo nel prendere in giro gli anziani come lui che, insieme alla sua Marion, si sono uniti per divertimento al coro diretto dalla giovane Elizabeth. Stonati, ma felici, cantano il sesso che non fanno ormai più, l'amore che continuano a sognare, il vigore del rock 'n roll, il loro saldo attaccamento alla vita. Uno strano spettacolo, questo, che emoziona come pochi. Li guardavo e pensavo a loro come a tanti bambini felici: ingenui, puri, candidi. Poi, una mattina, Marion non si sveglia più. E' spirata nel corso della notte. Con molta calma, Arthur chiama suo figlio e prepara il funerale, poi si chiude in una stanza e emette un urlo che mi ha gelato il sangue. Il grido di un animale morente e di un uomo che piange. I membri di questa adorabile coppia di ottantenni sono il rigido Terence Stamp e quell'angelo meraviglioso di Vanessa Redgrave, sempre bellissima e dolce. A dare scintille alle loro vite e a far sì che Arthur, ormai vedovo, esca fuori dall'abisso della depressione, è la direttrice di quel coro di anziani, una solare e simpatica Gemma Arterton, meno appariscente del solito, ma sempre in parte, anche se due giganti come Stamp e la Redgrave le rubano facilmente la scena. Tra le scene più commoventi, quella in cui Marion dedica a suo marito il suo ultimo assolo: canta True Colors (qui) con un'intensità e un'emotività da far venire letteralmente le lacrime agli occhi. Non è intonatissima, ma ha l'amore nella voce e, nemmeno per un attimo, stacca i suoi occhi da quelli del marito. Non mi commuovevo per una canzone dalla I dream a dream cantata da Anne Hathaway in quel capolavoro che è Les Miserables: tutto è stato possibile grazie a una Vanessa Redgrave dai capelli cortissimi e dagli occhi limpidi come il cielo. In quel momento, avrei oltrepassato lo schermo e l'avrei stretta in un abbraccio da orso. Come è commovente la risposta di suo marito, che arriva tardi, quando lei non c'è ormai più e lui ha preso il suo posto in quel coro che odiava tanto: Good night my angel. Per chi ha amato The Quartet, ecco un film semplice e straordinariamente ordinario. Non lascerà traccia di sé, è prevedibile come tante pellicole del genere, ma i produttori di Kleenex e i sentimentaloni amanti della bella musica apprezzeranno. Anche solo per le prove straordinarie di due attori che, quando andranno via, lasceranno un buco incolmabile nel cinema e nel mondo intero. Una canzone per Marion è una cura per il cancro della tristezza. Come l'amore, come la musica.
Bho. Avrò fatto male io. Tutti mi consigliavano la trilogia fantasy firmata da Kerstin Gier, tutti la elogiavano, tutti ne parlavano con grande passionalità e trasporto, quindi, quando ne ho avuto modo, subito mi sono fiondato su Rubinrot, la trasposizione cinematografica del primo romanzo, edito da noi con il titolo di Red. Credetemi, scegliere di vederlo è stato un tormento: io, come la maggior parte dei lettori “provetti”, sono uno di quelli che prima di vedere un film, deve leggere necessariamente e obbligatoriamente il libro. Ma ho tanto da leggere, i soldi scarseggiano e, quindi, ho colto l'occasione al balzo. L'ho visto e, come la maggior parte di quei tanti titoli che da noi non giungeranno mai e poi mai, nella versione coi sottotitoli. Il film, ambientato a Londra, è girato interamente in tedesco, con attori, sceneggiatori e regista – dunque – provenienti da uno Paese lontanissimo dagli sfarzi hollywoodiani o dalla savoir fare britannico. Io non ho alcun pregiudizio verso il cinema europeo – che, anzi, spesso mi ha regalato vere sorprese e piccole perle di film – ma, brutalmente, senza giri di parole, vi dirò che ho trovato questo Rubinrot alquanto bruttino. E, senza conoscere lo sviluppo del romanzo nei dettagli, non ho trovato in 120 minuti di pellicola ciò che mi sarei aspettato: il perché del successo contagioso e straordinario di questa serie. 120 minuti sono tanti per un film del genere, ma, anche se con un ritmo non sempre sostenuto, il tutto scorre piacevolmente, senza grossi intoppi. I giovani protagonisti scelti per interpretare gli amatissimi Gideon e Gwendolyn sono entrambi molto, molto belli e trasmettono freschezza ad ogni scena, con le loro facce nuove e i loro romantici battibecchi, ma il difetto peggiore del film è il suo essere sciatto, senza personalità, arrangiaticcio. Gli effetti speciali sono accettabili, discreti, e le prove di tutto il cast sono decisamente nella media, ma è proprio a livello registico che non c'è gusto, non c'è eleganza o stile. Il tipo alla macchina da presa riprende, ma esattamente come avrei fatto io - senza alcuna esperienza – e non riesce a valorizzare il poco che aveva. Nè la storia, che poteva essere originale (anche se non tanto originale da riempirci tre libri), né il tema dei viaggi nel tempo, non supportato da costumi o scenografie degne di nota. E l'ultima scena, tra l'altro, ricorda preoccupantemente la chiusa del primo Twilight. E' un film atipico, un po' rozzo, che più attirare fan nel mondo, casomai, li respinge. Opinabile la scelta di girarlo in tedesco: viva il patriottismo, ok, ma vedere i personaggi parlare non propriamente la più dolce e musicale delle lingue sullo sfondo del Big Ben, fa uno strano effetto (da vera tamarrata.... o da cortometraggio amatoriale!) e, probabilmente, anche a questo è imputabile la scarsa distribuzione della pellicola, che già di per sé non ha le carte in tavola per essere un successone al botteghino. Magari, con il supporto della bandiera a stelle e strisce, l'idea centrale avrebbe potuto rendere di più; o magari no. Rubinrot rimane un film guardabilissimo, con due bei protagonisti affiatati che saranno la gioia per gli occhi di tanti teenagers, ma del tutto privo di picchi interessanti. Poco incisivo e realizzato in maniera discutibile. Sembra uno di quei film che, nei pomeriggi di noia, del tutto inosservati, passano su Italia Uno o Rai 4. Che sia questo il suo destino? Per me, da noi, non lo vedremo molto presto. E, francamente, non se ne sente nemmeno il bisogno. Fortunatamente, lettori che hanno avuto modo di vedere il film mi rassicurano: la trilogia, a quanto pare, è un'altra cosa.
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