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“Nomen omen”, di Fabrizio Centofanti

Creato il 13 marzo 2012 da Fabry2010

Pubblicato da giovanniag su marzo 13, 2012

“Nomen omen”, di Fabrizio Centofanti

È da poco uscito, con Photocity Edizioni, il volume poetico di Fabrizio Centofanti dal titolo Nomen omen, del quale  riportiamo qui l’introduzione del Prof. Giuseppe Panella.

Giuseppe Panella

NOMINA SUNT CONSEQUENTIA RERUM.
La poesia di Fabrizio Centofanti

«La frase Nomen omen (o al plurale nomina sunt omina) è una locuzione latina che, tradotta letteralmente, significa “il nome è un presagio”, “un nome un destino”, “il destino nel nome” e deriva dalla credenza dei Romani che nel nome della persona fosse indicato il suo destino»
(dalla voce di WIKIPEDIA)

1. Tutto l’amore del mondo

Dopo la saggistica accademica (un libro su Calvino ateo ma affascinato da una possibile trascendenza “negata”, un saggio sulla poesia di Rebora), dopo gli scritti narrativi (in particolare una raccolta di osservazioni, aforismi e riflessioni su umano e divino), dopo la scrittura narrativa, Fabrizio Centofanti adesso approda alla poesia.
Sono testi redatti nel corso degli anni, legati spesso all’attualità del presente (eventi che collegano la contemporaneità alle sue radici profonde), attraversati dal desiderio di rendere conto della condizione umana nel suo rapporto con il trascendente e il suo mistero.
La poesia di Centofanti è sobria, con un lessico schietto e preciso, fatto di osservazioni spesso minute ma sempre con un tempo largo di apertura al futuro in cui speranza e carità si mescolano, si integrano, si ritrovano nelle azioni degli uomini e della loro (spesso) incomprensibile condotta.
Questa speranza e questa fiducia in un sogno di redenzione possibile sono giustificate dal fatto che tutte le poesie di questo libro, il primo scritto da Fabrizio Centofanti sotto veste di poeta lirico, sono poesie d’amore. Amore sacro e amore profano nelle sue liriche si intrecciano in un unico slancio amoroso nei confronto del mondo – non solo Dio, non solo ciò che va oltre il mondo ma anche (e soprattutto) le sue creature e le sue espressioni nella vita. L’uomo poeta non rifiuta nulla della realtà che gli passa sotto gli occhi di pastore d’anime.

«Quello che rimane. Faccio quello che rimane / Ciò che resta per sempre / Lascio tutto quello che passa / In un anno o in una notte / Costruisco con le mani d’uomo / Un destino preparato dal mio Dio / Tutto m’affido a lui sapendo che lo spirito / Ci lega con nodi inestricabili / Eppure liberi nodi che uniscono / Il cuore del padre con il cuore del figlio / Non lascerò mai più che vincano / Le cose passeggere le stoltezze / Del tempo che finisce rimanderò a domani / Quello che non serve all’oggi eterno» (p. 38).

Il verso libero di Centofanti fluisce sciolto e libero nell’invocazione a Dio. Una sorta di scommessa pascaliana lo spinge a ad accettare con gioia l’infinito di un mondo che lega gli uomini a un destino che essi non hanno scelto ma che li costringe ad essere se stessi e non altri, li spinge a continuare anche se non vorrebbero, li accende d’amore e d’odio nel momento in cui si confrontano con una realtà che quasi mai riescono a capire e su cui non riescono a dare un giudizio.

«L’amore dei ruscelli. C’è qualcosa di umano / Al di là di tutto. / Qualcosa che ti tocca / Che non sai definire / Ma è umano / Ciò che riscalda / il cuore / Non sai come chiamarlo / Forse soltanto amore / Ma non quello dei libri / Né dei maestri colti / Piuttosto quello sano / E naturale / Dei cani sciolti / Degli uccelli / Delle nuvole che vagano / Dei venti / E dei ruscelli» (p. 44).

E’ la dimensione panteistica (in senso non certo eretico !) del suo sguardo che “spinge la miccia verde dentro il fiore” (Dylan Thomas) e lo convince a fruttificare e a trovare un possibile conforto nel modo in cui ciò viene descritto in questi versi di Centofanti.
L’amore è un fatto “naturale” – dice il poeta affascinato, quasi abbacinato dalla bellezza della natura e delle sue espressioni più semplici e, nello stesso tempo, più difficili da negare da parte di chi tende a svalutarne la dimensione di rapporto con ciò che lo trascende.
L’amore per la vita, il suo personale modo di dirle di sì, nasce da una volontà diretta di parlare con la divinità che la impregna e la rende il dono più grande concesso agli uomini.
L’amore, tuttavia, si sposa indissolubilmente alla sua dimensione più vicina, quella del sogno, con la loro caratteristica comune di superamento delle barriere e di approccio generoso all’esistenza.

«Terre emerse. sognare è sapere, dicevi, per questo / dormire è cambiare, vedere fanali improvvisi / su strade d’azzurro, il palazzo ha un giardino / di pietra, cancelli melodici chiudono / aritmicamente la via. / sapere, trovare il guardiano che grida / da porte di ghiaccio. / è solo la luce, pensavi, che fende, / che scricchiola piano, la tenebra / il tutto che illumina, / invano» (p. 20).

Ma quello che emerge non è altro che la poesia, la voce che fende il buio, che illumina la tenebra e che convince la sentinella che veglia a Edom di gridare che la Notte è finita.
L’emergenza è quella della Grazia che prova a salvare chi non si vuole che vada più perduto, che vaghi disperso nell’oscurità e nel buio della sconfitta e della disperazione.
La salvezza arriva così, emerge “come un ladro di notte” (San Paolo) nella coscienza del mondo, si palesa improvvisa e lancinante “come un vecchio rimorso o un vizio assurdo” (Cesare Pavese – un autore che non è lontano dalla sensibilità laica palesata da Centofanti in questo suo salterio di dolore e di speranza). Ma il sogno è quello del grande mutamento, della trasformazione antica che si dimostra sempre nuova nel gesto di sfida a chi non vuole capire o forse proprio non può.

2. Un gesto definitivo che non verrà mai

Ma questo gesto non è necessario se non è fatto di aspirazioni di pace. La guerra è un evento che ritorna sempre nelle vicissitudini umane e va affrontata con strumenti diversi da quelli della morte (sia inflitta per rabbia che per interesse o avidità di profitto).
E’ per questo motivo che Centofanti vuole cantare tutto l’amore del mondo che lo circonda e di cui sogna una palingenesi finale, un’apocatastasi che, tuttavia, sa già che non ci sarà un domani senza il male e la morte (forse saranno sconfitte in futuro ma chi è qui oggi non riuscirà a vederla se non nei suoi sogni liberati dal dolore e dalla paura). La partita con esse si gioca qui e subito. Se non ora, quando? – sembra chiedersi con la sicurezza sempre oscillante della mente indagatrice che continua a trovarsi in una condizione di dubbio e di incertezza.
Vivere con coraggio e con dignità è l’unica utopia concreta cui ci si può attenere. In una poesia che porta proprio questo titolo ed è ispirata all’inutile uccisione del pacifista Vittorio Arrigoni, il poeta di Acilia scrive parole di condanna ma anche di accettazione combattiva:

«Utopia (Vittorio Arrigoni). Forse non tutti apprezzano i confini / che ci hanno abituato a registrare / con dovizia di carte, il favore / di armamenti pronti a sorprendere / chi ha fame, chi non può permettersi di stare / dove dicono gli altri se non c’ è – non c’è – / più di che vivere. E’ un buon motivo / per credere in qualcosa che i trattati / non possono trattare. Se il nome di battesimo / non basta, è dovere di chi spera / – non di chi spara e chi separa – / inventare l’Utopia di una guerriglia / che rende bersaglio dei cecchini / israeliani, a cui puoi opporre solo / un tatuaggio, il tuo restiamo umani, / detto nel sangue, prima che venga maggio, / e sia già in volo» (p. 87).

Nel ricordo della morte di Arrigoni e della sua parola d’ordine di apertura a tutte le ideologie e a tutte le espressioni religiose come garanzia di un possibile raggiungimento di un piano di comune umanità sulla base della quale iniziare a discutere e a trattare, la parola di Centofanti si fa accorata, travolta dal dolore e accesa di un giusto sdegno che è pur sempre volontà d’amore nei confronti degli ultimi, di quei molti che non hanno e non potranno avere nulla in cui (apparentemente) sperare. La speranza parla ancora in loro nome e la vicenda di Arrigoni, sia pure morto nel corso della sua azione umanitaria proprio per mano di coloro i quali egli voleva agire e produrre azioni di pace, resta un segno nel nome del quale poter continuare a lottare sempre e comunque.
Ma la poesia di Centofanti non è solo cronaca in versi e non è solo descrizione di lodevoli intenti (altrimenti sbiadirebbe troppo presto in una sorta di nuvola d’inchiostro fatta di parole retoriche e bolse). La scrittura di questi versi è anche capacità di mettersi in gioco e di portare sulla soglia dell’autenticità aspirazioni, dedizioni, sogni, espressioni di saggezza accumulati dentro di sé nel corso degli anni di vocazione e di missione continuata, spesso sofferta, mai rifiutata o rimpianta.
Subito dopo aver finito di leggere la parte lirica e in versi del libro, si trovano come pendant della parola poetica una serie di Massime che potrebbero essere definite in gran parte capitali.
Parole sotto forma di espressioni aforistiche che si provano a fare un bilancio di ciò che è stato e di quello che ancora potrà accadere, questi ballon d’essai lanciati nei confronti dell’esistenza sono intrisi della volontà, da parte di Centofanti, di capire e di cambiare il mondo:

«c’è gente che non ti perdona niente, perché non si perdona // una vita senza svolte, non è vita // cerchiamo sempre qualcosa, non ci viene mai in mente che potremmo avere già trovato // ognuno vede intorno a sé quello che ha dentro // basta guardarsi dentro per trovare l’errore, ma ancora più dentro c’è la soluzione // l’incomprensione è la tomba dell’amore, meglio una spiegazione in più che una seccatura in meno // un foglio bianco diviso in due colonne, da una parte “io devo”, dall’altra “io voglio”, quale colonna si riempie di più ? // quello che resta è l’amore, quando la sentii, questa frase mi colpì, per sempre // a volte ritornano, e ringraziano per la paziente attesa, un altro abbraccio // se un frutto è genuino, avrà sapore, altrimenti saprà di cartuccia di stampante // facciamo sempre la spola tra il piccolo e il grande, il micro e il macrocosmo, la poesia ci ricorda che non possiamo isolare l’uno o l’altro, li tiene insieme // poesia è quello che accade oggi, solo se si apre al mondo che ora vive, potrà diventare sempre attuale // il traguardo è il silenzio, nel punto – nel momento – di maggior silenzio, il mistero comincia a comunicarsi // la logica di mercato interessa solo chi ci guadagna, e chi ci perde // ognuno ha una sua idea di poesia: secondo me, è uno strumento per far emergere i contenuti inconsci, la voce dell’altro, o dell’Altro, se la poesia non sorprende prima di tutto chi la scrive, non si vede a cosa possa servire» (pp. 120- 134).

La poesia, dunque, è, per Centofanti, una forma della ricerca dell’Altro, di chi, pur diverso da noi, si rivela nostro simile nella relazione umana e nella comune capacità di gioire e di soffrire.
In questo senso, scrivere è cercare un rapporto diretto, costruire un ponte, provarsi a raggiungere chi, altrimenti, rimarrebbe lontano e imperscrutabile di fronte ai nostri tentativi di conoscerlo.
Quesivi et non inveni? Centofanti qualcosa l’ha trovato (dopo averlo cercato forse molto a lungo) ed è la sua aspirazione a testimoniare attraverso la parola. Le azioni – lo sa bene – servono a poco se non sono inquadrati all’interno di un discorso, di una prospettiva, di un’ aspirazione a capire e a raccogliere i frutti di una vita. La sua parola poetica cerca di rendere vera e autentica una prospettiva di scelta e di confronto con l’esistenza (propria e altrui), di adeguarsi ad essa per renderla più comprensibile e comunicabile, per non disperderla in mille frammenti di lotta quotidiana per la vita. La sua poesia è Febbre, come intitola una poesia in cui descrive la sua poetica e, contemporaneamente, la sua ricerca morale connessa alla sua modalità di scrittura:

«potrei cantare in ritmi sconosciuti / come il poeta della quinta strada / quello dei tristi madrigali mali / accovacciati ai piedi del proposito / pietra per pietra avessero scagliato / prima che fosse troppo tardi guardi / nella sfibrante sera ristorante / sotto colline bianche a primavera / sempre danzanti verso contro verso / in bilico su punte rovesciate / bellissime campate di rosari / tra canti altalenanti di riflessi / turchini // l’operaio del verso restaurato / ritma maniacalmente il saltellare / dell’oscuro pensiero // ma la pietra è lanciata / porta il nome di un ladro di sememi / ora che il suono informe aboliranno / persino dalle strofe dei bambini / oh il modulare piano del passero incosciente / la crepa nel manuale / la morte incandescente / la sorte del motivo / che sfumava» (p. 68).

Centofanti non scrive in “ritmi sconosciuti” né vuole farlo né oggi né mai – parla una versione della lingua della poesia che tu possono comprendere (basta che lo vogliano). Il suo desiderio di comunicare lo spinge verso parole semplici ma mai banali, verso contenuti quotidiani ma non minimali, alla ricerca di ciò che è oltre la soglia della condizione umana senza volersi staccare da esso. Tra natura e spiritualità, la sua ricerca lo porta a contatto con gli uomini che conosce e dai quali non si sente tradito. Il suo amore per il mondo è la sostanza di una scrittura che vuole andare oltre di esso per comprenderne e apprenderne la possibile Verità.
Anche per Centofanti le parole hanno un senso quando sono la “conseguenza delle cose” che vengono dette (Nomina sunt consequentia rerum – come sostiene Giustiniano).


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