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Non mi chiamo Ted – parte III

Creato il 11 dicembre 2013 da Lundici @lundici_it
Spotlight

Il ragazzo in maglietta blu sul non-palco stava parlando del sistema economico mondiale paragonandolo a uno strano animale vorace, pronto a mangiare qualsiasi cosa si presentasse a portata di una delle sue sei bocche.

Non mi chiamo Ted

Preparare il discorso da presentare a una conferenza non è mai una cosa facile. Soprattutto quando si vuole in qualche modo minare il concetto che sta alla base della conferenza stessa. Hai diciotto minuti a disposizione per cercare di spiegarti nel migliore dei modi possibili. Diciotto minuti che pesano quanto le parole, mentre pensi in silenzio. E intanto il tempo passa, tic, e le lancette dell’orologio corrono, tac.

Un racconto a puntate di Edward S. Portman

Il ragazzo affermava che l’economia moderna non poteva essere vista come l’unione di tutti i cani: non è un recinto, più o meno grande, dentro il quale i singoli cani si divertono ad azzuffarsi, rotolarsi per terra, o stare sdraiati in un angolo a sonnecchiare. L’economia, stava dicendo il ragazzo, deve essere vista in modo globale come il risultato dell’unione di tutti i cani, anche quelli magari non presenti all’interno del recinto. Sullo schermo apparve una foto dei cani legati stretti tutti quanti assieme, in un miscuglio caotico ma compatto di teste, code, zampe, a formare un solo bizzarro “cane”, se ancora lo si poteva definire come tale. Il pubblico in sala, nel buio, rise e parve avere capito quanto il ragazzo stava cercando di dire.

In precedenza una ragazza dai capelli biondi e il fisico longilineo, vestita con un tailleur nero e camicia bianca, scarpe con tacco altissimo per slanciare ancora di più le sue gambe affusolate, aveva illustrato un nuovo sito social riguardante il mondo della cinematografia. Passeggiava a destra e a sinistra lungo tutto lo spazio a sua disposizione, quasi stesse partecipando a una sfilata di moda, allargando di tanto in tanto le braccia per sottolineare alcuni passaggi ovvi del suo discorso e sorridere maliziosamente a una platea che in realtà lei non poteva vedere. La sua presentazione riguardava la possibilità di condividere frammenti di film, internazionali o autoprodotti, tra utenti registrati in un sistema centralizzato capace di mettere in contatto due o più sconosciuti con interessi comuni. Ogni persona poteva aggiungere i suoi gusti personali, inserendo nello spazio a sua disposizione commenti o recensioni sulle opere viste al cinema o su supporto home video, con quante persone aveva assistito alla proiezione, e le reazioni più comuni. Il tutto in una scheda del film che si collegava in automatico, con link ipertestuali, ad altri siti riguardanti magari il romanzo da cui era tratta la pellicola, o la musica che ne componeva la colonna sonora, dando così al fruitore del sistema una visione completa a 360 gradi su tutto il prodotto. Secondo la ragazza una struttura di questo tipo garantiva una giusta pubblicità a qualsiasi lungo o corto metraggio, a prescindere dalle possibilità economiche del produttore, incanalando in un database strutturato anche i dati importantissimi del passaparola. Il sistema si insinuava in un segmento lasciato colpevolmente vuoto, dove altri sistemi invece avevano fatto la parte del padrone per quanto riguardava musica e letteratura, nonché vita, appunto sociale, in generale.

La presentazione era accompagnata da spezzoni di vari film famosi, dei generi più disparati, che interagivano con la ragazza in tempo reale, ponendo delle domande o fornendo delle risposte. Si vedeva magari Marlon Brando chiedere delle delucidazioni, oppure Eddie Murphy ridere a una battuta, Johnny Depp nei panni di un noto pirata fare degli esempi, o ancora Charlie Chaplin ballare muto alla fine di un passaggio particolarmente contorto.

Il pubblico, anche in questo caso, aveva gradito e al termine, sorvolando su alcune piccole inesattezze, era scoppiato in un lungo applauso. La ragazza aveva ringraziato con un inchino ed era tornata dietro le quinte con un’espressione soddisfatta dipinta in faccia.

In entrambi i casi, sia il ragazzo in maglietta che la donna in tailleur avevano deciso di accompagnare la loro presentazione con supporti audiovisivi, cercando in qualche modo di tenere alta l’attenzione delle persone facendo leva sul lato comico (vedi i cani) o romantico (vedi alcune parti di film proiettate durante l’esposizione della ragazza) dell’argomento trattato.

Lui non aveva organizzato niente di tutto questo. La sua esposizione si sarebbe presentata nuda e cruda, spogliata di qualsiasi ammennicolo accessorio, e vestita solo della sua voce e della sua presenza sotto i riflettori. Il discorso che aveva preparato doveva reggersi in piedi da solo, con le proprie gambe, senza avere bisogno dell’aiuto di chissà quali effetti speciali.

Aveva sempre ritenuto che questi mezzi di supporto extra fossero da una parte utili, ma allo stesso tempo assai difficili da gestire. Chi li usava doveva essere ben preparato e saperli utilizzare con un equilibrio che lui era conscio di non possedere. Pochi, a dire la verità, erano dotati di questo equilibrio; il resto, la maggior parte, si lasciava prendere la mano, finendo per ottenere l’effetto contrario: invece di attenzione, disattenzione.

Secondo lui alle persone in sala non dovevano essere concessi appigli: dovevano essere costrette a prestare attenzione.

Secondo lui alle persone in sala non dovevano essere concessi appigli: dovevano essere costrette a prestare attenzione.

Se da una parte l’intenzione delle foto dei cani, così come degli intermezzi cinematografici della ragazza, era quella di catturare l’attenzione della platea, il rischio, grande, era quello invece di monopolizzarla. Da supporto alla presentazione diventavano la presentazione stessa, invertendo il naturale rapporto di importanza che dovrebbe esserci tra il concetto esposto e quanto serve per esporlo.

Se a un mese di distanza dalla conferenza fosse stato chiesto a ogni persona presente in sala cosa le fosse rimasto più impresso, la quasi totalità, lui era sicuro, avrebbe risposto senza dubbio i cani vestiti da mostri, oppure un particolare filmato di un film; ma nessuno, o pochi, avrebbe accennato ai veri argomenti degli interventi, l’economia o il sistema di cine-network. Lo sforzo del ragazzo e della ragazza per trovare le parole giuste, quelle capaci di rendere accessibile a tutti il loro argomento, si sarebbe perso nel bagliore folgorante delle trovate cosiddette accessorie con le quali avevano deciso di accompagnarlo.

La colpa, nel caso fosse stato necessario individuare un colpevole, non sarebbe stata solo del povero pubblico seduto con tanta fiducia ad ascoltare perfetti sconosciuti, almeno per quanto riteneva lui. Era vero: l’attenzione di ogni individuo pareva assottigliarsi di anno in anno, andando via via a ridursi con lenta implacabilità, tanto che ogni intervento di quell’evento doveva avere una durata massima di diciotto miseri minuti, ovvero l’arco di tempo massimo in cui una persona sembrava riuscire a rimanere concentrata; erano i medesimi oratori, caso mai, a essere i veri colpevoli. Il ragazzo, la ragazza, o chiunque altro, magari in modo del tutto involontario, erano i primi a offrire innumerevoli fonti di distrazione ai propri spettatori. Secondo lui alle persone in sala non dovevano essere concessi appigli: dovevano essere costrette a prestare attenzione, facendogli terra bruciata intorno.

Ogni persona avrebbe potuto allungare la mano per afferrare un vocabolo, o anche un solo semplice carattere, e portarselo alla bocca: mangiarlo.

Ogni persona avrebbe potuto allungare la mano per afferrare un vocabolo, o anche un solo semplice carattere, e portarselo alla bocca: mangiarlo.

I loro occhi, le loro orecchie, le loro menti, non dovevano essere attratte da nient’altro se non la voce dell’oratore, scandita con precisione a ritmo di un metronomo invisibile, e dai concetti, quanto più brevi e autoconclusivi possibili, pronunciati con fluidità. Ogni parola doveva uscire dalla bocca del relatore e prendere letteralmente forma galleggiando a mezz’aria; doveva materializzarsi, in modo da dare la possibilità a chiunque non solo di ascoltarla, ma di vederla concretamente a due passi da chi l’aveva detta. Lui si immaginava le sue parole composte da soffici lettere colorate, grandi più o meno una decina di centimetri, con i bordi rotondeggianti come avrebbero potuto avere se fossero state fatte con dei palloncini gonfiati a elio, dalla consistenza però di candidi marshmallow gommosi. Sognava che il pubblico potesse vedere le sue parole dentro un fumetto tridimensionale, disegnato con un tratto intriso di estremo realismo. Ogni persona avrebbe potuto allungare la mano per afferrare un vocabolo, o anche un solo semplice carattere, e portarselo alla bocca: mangiarlo. Questo intendeva lui per interiorizzare un concetto. I suoi discorsi erano strutturati in modo tale da poter essere assimilati e digeriti, diventare nutrimento per chiunque volesse ascoltarli.
Cibo per l’anima, avrebbero detto gli antichi.


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