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Non si licenziano così anche i cavalli?

Creato il 31 agosto 2013 da Nicolamisani
Gli effetti delle macchine sull'occupazione sono un tema di moda e ne scrive chiunque, persino io. La letteratura scientifica sul fenomeno, così come su tutti quelli umanamente importanti su cui gli economisti dovrebbero perdere il sonno e la salute, è scarna. Trovate lo stato dell'arte in questo articolo di David Autor e David Dorn sul New York Times, che può sembrarvi lungo ma non lo è se considerate che include tutto quanto si sa di sicuro, oltre a molte speculazioni ottimistiche degli autori.
Il punto che mi preoccupa è che non esiste un meccanismo automatico che assicuri il recupero dei lavoratori licenziati in nuovi posti di lavoro. Mi riferisco sia agli individui, che possono essere troppo vecchi per ricollocarsi altrove, sia a intere categorie di lavoratori, che possono diventare inutili, sia in generale al lavoro umano. Robot che arrivino a superare le prestazioni umane in qualunque occupazione, compresa fabbricare se stessi, sono concepibili. In quel momento il lavoro finirebbe e non è chiaro come gli umani si dividerebbero la ricchezza creata dalle macchine, ammesso ovviamente che queste ultime rispettassero le leggi della robotica, invece di ucciderci tutti.
Leggevo oggi su Marginal Revolution un paragone illuminante: la popolazione dei cavalli negli Stati Uniti raggiunse il picco di 26,5 milioni nel 1915, epoca in cui lavoravano come mezzi di trasporto e traino. L'avvento di automezzi e macchine agricole efficienti liberò i cavalli da questo ruolo, con il risultato di una vasta disoccupazione equina, se possiamo chiamarla così. Nessun meccanismo automatico ricollocò i cavalli in nuovi posti di lavoro; non so esattamente che accadde ai disoccupati equini, ma sembra che nel 1960 i cavalli americani fossero scesi a soli 3 milioni.
Oggi però sono risaliti a 9 milioni, grazie a nuove occupazioni nel settore dei divertimenti.Nicola Misani su Twitter: Segui @nicolamisani

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