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"oggi e' un altro giorno", quale politica dopo la politica?

Creato il 16 aprile 2013 da Alessandro @AleTrasforini

"Da quanto tempo aspettiamo il futuro? [...] quando abbiamo dimenticato come si fa a costruirlo? [...]"
Inizia con queste semplici ed al tempo stesso terribili domande l'introduzione a "Oggi è un altro giorno", ultimo libro scritto da Giovanni Floris. L'Italia si configura, dunque, come un Paese da troppo tempo senza futuro e (da ancora più tempo) senza nessuna speranza: a chi spettano le colpe per aver "ucciso" i destini di troppi giovani che oggi vedono il futuro come inesistente?
E' (de)merito degli esclusivi eletti della classe politica od è anche responsabilità degli elettori che non hanno adeguatamente sorvegliato i loro "dipendenti" nelle fasi post-elettorali?
Le risposte a queste e moltissime altre possibili domande sono divenute, nel tempo di italiana memoria, veri e propri spot in un clima da perenne campagna elettorale:
"[...]Non è da ieri che il dibattito pubblico si avvita su sè stesso nell'ossessione di domande specifiche quanto sterili: Imu o non Imu? Intercettazioni sì od intercettazioni no?
Ma non sono questi i reali problemi.
[...]"
Se non sono queste le questioni reali su cui valga la pena discutere e decidere veramente, su quali fronti potrebbero concentrarsi informazione, tecnica e/o soprattutto politica?
"[...]Oggi che siamo reduci da un diluvio che ha cambiato radicalmente il panorama politico, oggi che siamo nel pieno della traversata nel deserto della crisi, il vero quesito non può che essere: che cosa resta?
In quali valori vogliamo ancora credere e soprattutto in quali vogliamo che credano coloro che ci rappresentano?
[...]" 
Il mondo intero e l'Italia stanno attraversando, da tempo ormai troppo lungo, un cambiamento forse non ancora opportunamente colto: quali direzioni dovranno prendere le politiche nazionali ed internazionali un domani che è stato, almeno in terra italiana, (pur)troppo spesso dato per posticipato o disperso?
In un tremendo magma di problemi sociali, politici, economici, ambientali, tecnologici, logistici, industriali, [...] attraverso quali "voci" cercare di riavviare il sistema? Dobbiamo veramente arrenderci ad un declino costante, inesorabile ed inarrestabile? E' ancora possibile svoltare per invertire la rotta?
A quali capisaldi è necessario aggrapparsi per non precipitare dentro un baratro di ancora più grave oscurità?
Le proposte dell'autore spaziano nella ricerca di valori fondamentali a cui è essenziale sorreggersi per non sprofondare:
"[...] L'apertura, la laicità, la competitività, la ricchezza, il rigore: obiettivi che non possiamo, a nessun costo, mancare.[...]"
Servirà declinare, quindi, una società che sappia essere (o diventare) capace di rispondere in tutto e per tutto a queste nuove ed imprescindibili esigenze per un domani diverso e, forse, anche migliore.
Il giorno in cui intraprendere questa svolta è già arrivato, non certo senza avvertirci: sono stati disattese e tradite per troppo tempo promesse e speranze di cambiamento.
Può bastare un lunghissimo periodo di "crisi" mondiale per convincerci davvero a svoltare e (ri)costruire un mondo diverso e migliore? Dietro ad ogni crisi ci sono, infatti, occasioni ed opportunità per cercare di risolverla.
Tornano alla mente, a questo proposito, parole attribuite al grandissimo scienziato-filosofo-fisico-[...] Albert Einstein:
"[...] Non pretendiamo che le cose cambino se continuiamo a farle nello stesso modo. La crisi è la miglior cosa che possa accadere a persone e interi paesi perché è proprio la crisi a portare il progresso. La creatività nasce dall'ansia, come il giorno nasce dalla notte oscura. E‘ nella crisi che nasce l'inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato. Chi attribuisce le sue sconfitte e i suoi errori alla crisi, violenta il proprio talento e rispetta più i problemi che le soluzioni. La vera crisi è la crisi dell'incompetenza. Lo sbaglio delle persone e dei paesi è la pigrizia nel trovare soluzioni. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è routine, una lenta agonia.
Senza crisi non ci sono meriti. E‘ nella crisi che il 
meglio di ognuno di noi affiora perché senza crisi qualsiasi vento è una carezza. Parlare di crisi è creare movimento; adagiarsi su di essa vuol dire esaltare il conformismo. Invece di questo, lavoriamo duro! L'unica crisi minacciosa è la tragedia di non voler lottare per superarla.[...]"
Parte della crisi italiana non è forse attribuibile a molte delle parole chiave esposte nel frammento sopra riportato? Non siamo precipitati in questo periodo di crisi per assenza di progresso, eccessiva incompetenza e pigrizia nell'innovare o nel trovare soluzioni ai nostri (secolari) problemi?
Non siamo precipitati in questa crisi per ragioni vicine alla mancanza (tendenzialmente asintotica verso lo zero) di meritocrazia, alla scarsità di "movimento" contestuale all'eccessiva presenza di fenomeni quali conformismo e perbenismo? L'enorme mole di problemi di questa Italia e degli italiani di domani è attribuibile solamente alla crisi? Esistevano fattori pre-esistenti che ne hanno progressivamente favorito la formazione e l'aggravarsi?
Risuonano ancora una volta, in risposta a questa domanda, frammenti del discorso attribuito ad Einstein:
"[...]Chi attribuisce le sue sconfitte ed i suoi errori alla crisi, violenta il proprio talento e rispetta più i problemi che le soluzioni.[...]"
L'Italia è, su questo fronte, piena di talento inespresso, inascoltato ed ignorato: quali radici valoriali imporre alla società da riabilitare? I pilastri su cui ragionare sono definiti dall'autore attraverso il breve elenco sotto riportato:
  • apertura;
  • laicità;
  • competitività;
  • ricchezza;
  • rigore.
Così come ad ogni traguardo corrispondono solitamente buoni onori, è altrettanto vero che, riprendendo una bellissima canzone di Carmen Consoli, "[...]ad ogni rinuncia corrisponde una contropartita considerevole [...]". 
Inseguendo questi valori per una riabilitazione della società italiana, a quali rinunce dovrem(m)o fare l'abitudine?
L'autore regala indizi sulle possibili risposte a questa pesante domanda attraverso altre domande degne di nota e considerazione: servirebbe una società aperta ad ogni possibile sviluppo ed a molte incertezze o sarebbe preferibile avere un'Italia "protetta" da uno Stato forte?
Servirebbe una società laica disposta ad accettare ogni credo, includendo anche persone con usi e costumi potenzialmente inconciliabili con i nostri? Sarebbe preferibile forse avere una terra capace di difendere la sua identità? A che punto risiede il confine fra queste domande?
In caso di società competitiva, dove sappiano regnare merito e competenze, a quanta tutela del più debole dovremmo eventualmente rinunciare? E' possibile davvero coniugare merito, solidarietà, competitività e cooperazione? Se no, quale strada dovrebbe comunque scegliere l'Italia per il suo futuro?
In caso di società ricca, si potrebbe parlare di responsabilità sociale per ricchi e poveri? Ricchezza equivale davvero a benessere? Esistono valori più attendibili per giudicare consapevolmente il benessere di una nazione, partendo magari da "voci" come felicità od armonia sociale?
In caso di società rigorosa, quale confine sarebbe opportuno mantenere per mantenere vive soglie di "misericordia"? Il rigore finisce per escludere sempre e comunque altri valori quali flessibilità, umanità, capacità di andare oltre gli schemi per contribuire a salvare l'uomo, assieme a tutte le sue contraddizioni?
"[...] dire sì è facile ma fare sì non è per niente ovvio.
Non lo sarà, per chi è stato scelto per governarci.
Occorre che vigiliamo affinchè affronti questi temi e che lo aiutiamo ad orientarsi.
[...]"
Su questo fronte, infatti, l'altro giorno è arrivato: oggi è già qui. 

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