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Ong-Bak: la Trilogia dell’Elegia al Muay Thai

Creato il 06 luglio 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il luglio 6, 2012 | CINEMA | Autore: Mario Turco

Ong-Bak: la Trilogia dell’Elegia al Muay ThaiEra il 2003 quando la 01 Distribution in un trailer di rara efficacia di montaggio annunciava con roboante semplicità che “l’Asia ci manda il suo nuovo dragone”. Più precisamente era la Thailandia ad affacciarsi sul circuito piuttosto saturo del genere action con un film di produzione nazionale, confezionato però secondo i canoni planetari. Il successo ha arriso a quella scommessa produttiva in maniera così soddisfacente tanto che “Ong-Bak” ha potuto diventare una trilogia, recentemente edita in un cofanetto Blu-ray che racchiude i tre episodi. Per essere maggiormente vendibile, la distribuzione italiana aveva naturalmente giocato sul riferimento all’icona più conosciuta del filone delle arti marziali, paragonando il protagonista di questa trilogia a Bruce Lee. La similitudine è discutibile. Tony Jaa, che è il nome d’arte dell’attore e coreografo Panom Yeerum, ha la stessa distanza da Bruce Lee che la brutale Muay Thai ha dall’elegante kung-fu. Ma se il marketing livella e appiattisce, deve essere la critica a ristabilire le giuste distanze. La trilogia di “Ong-Bak” però non si presta facilmente a raffronti, essendo percorsa e percossa da una dualità di approcci che in alcuni punti rasenta l’antinomia. Il primo episodio è avulso dal secondo e dal terzo non solo narrativamente (il che non sarebbe poi tanto strano) ma soprattutto per ambientazione, musiche, scelte di regia e periodo storico.

Ong-Bak: la Trilogia dell’Elegia al Muay Thai

Due sono gli elementi che denotano per intero la trilogia: ovviamente il Muay Thai e la presenza di Tony Jaa, al quale è addebitabile la svolta misticheggiante che prende la saga dal secondo capitolo, visto che egli passa da qui in poi a co-dirigere con Panna Rittikrai e a co-produrre. Il primo “Ong-Bak – Nato per combattere” (solito, stigmatizzabile e fuorviante sottotitolo italiano) vedeva in cabina di regia e sceneggiatura unicamente Prachya Pinkaew, mentre Tony Jaa si occupava oltre che di interpretare il protagonista Ting, di coreografare le scene d’azione. Il film si inseriva pacificamente nella tradizione del genere e la più importante frattura era la predominanza assoluta del Muay Thai, assurto per la prima volta alla dignità cinematografica di arte marziale protagonista. La produzione aveva insomma capito che rispettando supinamente tutti i cliché del genere, l’attenzione dello spettatore, non essendo costretta a disarticolare altre novità tecniche, sarebbe stata tutta per la novità e la forza del Muay Thai.

Ong-Bak: la Trilogia dell’Elegia al Muay Thai

E così la vicenda prende spunto dal furto della testa di una reliquia del Budda (in thailandese “Ong-Bak” significa appunto testa tagliata) da parte di uno scagnozzo di un potente boss ai danni della comunità di Nong Pradu, sperduto villaggio della campagna. Ting sarà incaricato di recuperare il prezioso manufatto affinché la siccità che affligge il suo borgo possa essere debellata. Questo prologo è più che altro un pretesto per il dispiegamento di una trama e dei suoi relativi sottotesti che, come già detto, giocano sulla consuetudine piuttosto che sull’innovazione formale. Ting è tutto concentrato sulla sua missione, parla pochissimo e le poche volte che lo fa, reguardisce il suo corrotto ex-compaesano che ha smarrito i genuini valori contadini. La regia persegue questo tema enfatizzando il contrasto tra l’arcaicità pura della campagna e il modernismo corrotto della città tramite tutte le soluzioni stilistiche del caso: fotografia calda e bucolica per la prima, toni acidi e musica tecno per gli interni della seconda, peraltro tutti angusti, sporchi e caotici.

Ong-Bak: la Trilogia dell’Elegia al Muay Thai

Il messaggio della pellicola è palese e si confà anch’esso al pericolo moralismo che da sempre affligge il genere action e ancor più quello delle arti marziali. La superiorità del protagonista è cioè prima di tutto etica che fisica e senza la prima la seconda non avrebbe motivo di esistere. I cattivi restano unidimensionali nella loro perfidia, dediti al vizio e all’illegalità, disposti anche a iniettarsi cinque siringhe di sostanze chimiche (e tanti saluti alla verosimiglianza fin lì ricercata per colpa di un’unica, veloce inquadratura!) pur di vincere. Il primo episodio di “Ong-Bak”, nonostante queste ingenuità, scivola via con piacere. L’ironia del co-protagonista è a tratti frizzante, la regia è funzionale e riesce ad esaltare le iperboliche acrobazie di Tony Jaa. Su quest’ultimo, perno indiscutibile di tutta la trilogia, adesso si possono fare paragoni con altre star del suo calibro. Il riferimento principale che si può opporre al Bruce Lee del marketing è infatti Jackie Chan, più precisamente quello della prima (e migliore) fase della sua carriera, quella di Hong Kong. Certo, non per lo stile e la tecnica, così distanti dall’esuberanza dello sperimentatore Chan.

Ong-Bak: la Trilogia dell’Elegia al Muay Thai

E nemmeno per la figura del personaggio, così serioso rispetto alla comicità keatoniana del collega cinese. Il nesso tra i due è semmai da ricercare nel generoso dispendio di combattimenti, articolati secondo una precisa scala gerarchica. Si va insomma dagli iniziali sparring partners che servono a mescere a poco a poco gocce di talento ginnico o a diluirlo in spettacolari scene corali con l’uso fantasioso di armi improbabili, ai duri scontri finali che vedono sì Ting ricevere un gran numero di colpi ma riuscire a vincere per la sua caparbietà ferina. L’altra evidente analogia riscontrabile è quella che mi piace chiamare “la fuga circense”, la capacità cioè di riuscire a seminare orde di nemici destreggiandosi con funambolismi da acrobati tra ostacoli vari. Tony Jaa in “Ong-Bak” dà un vigoroso saggio di queste qualità nella lunga scena dell’inseguimento al mercato cittadino. L’ampiezza e la coordinazione di alcuni suoi salti raggiungono l’eccellenza, sebbene la sequenza pecchi un po’ di accademismo per l’improbabilità scenografica di molti ostacoli che si materializzano con sfrontata puntualità. Infine la struttura di questo primo episodio ricorda da vicino l’ordito registico di Sammo Hung, colui che ha scritto e diretto i migliori lungometraggi di Jackie Chan.

Ong-Bak: la Trilogia dell’Elegia al Muay Thai

Si trova inoltre la stessa volontà complice di stupire lo spettatore con sequenze pirotecniche: vedasi ad esempio la profusione di distruzione di mezzi, la ginocchiata infuocata e la rottura del casco integrale con un solo colpo. Il secondo e il terzo capitolo, rispettivamente usciti nel 2008 e nel 2010, si allontanano dagli scenari urbani del primo per spostarsi nella foresta thailandese e raccontare una storia indipendente dalla prima. Tony Jaa e Panna Rittikrai decidono di alzare la posta artistica, rinunciando alle strizzatine d’occhio ai mercati internazionali e dando il reset alla trilogia. I due film sono infatti ambientati nel XV secolo e raccontano la vendetta che un giovane di stirpe regale, Tien, compirà uccidendo gli assassini dei propri genitori. Il mutato contesto e la regia a quattro mani danno agli autori la possibilità di cimentarsi con tutti gli alambicchi di una rinnovata arditezza visiva. I due registi cercano di uscire dalla rigidità di schema che prevedeva una mera escalation di incontri, per concentrarsi su un’estetica barocca dell’immagine che richiama alla mente l’indiano Tarsem Singh e lo Zack Snyder di “300”.

Ong-Bak: la Trilogia dell’Elegia al Muay Thai

Ecco allora che i già numerosi ralenti aumentano ancora, a rimarcare la bellezza cromatica di alcune immagini (come il combattimento finale tra gli spruzzi d’acqua, che si presta come chiusa anche della cifra visiva dell’intera trilogia) e il villain principale delle due pellicole, uno stregone che pratica la magia nera, deve molto all’immaginario videoludico di ultima generazione. Adesso la spiritualità, orientaleggiante e un po’ affettata, è predominante, dal tema del tradimento del padre adottivo Chernung, il re dei ladri, all’addestramento del santone. Il sincretismo di saggezza religiosa copre un arco che va da pillole aforistiche sul padroneggiamento delle armi all’unione cosmica con la Natura. «Tien, il tuo nome significa candela. È il simbolo della luce nel buddismo», dice il monaco in una sequenza del terzo capitolo di “Ong-Bak”. Se infatti la testa mozzata del Budda nel primo episodio era il fattore scatenante dell’azione-reazione del protagonista, restava tuttavia un espediente materiale per dare il via alla narrazione. Nel prosieguo della saga, invece, il misticismo religioso insuffla i suoi aliti nelle tematiche più profonde.

Ong-Bak: la Trilogia dell’Elegia al Muay Thai

Tien nei due film viene annientato per due volte e per due volte riesce a rinascere dalle proprie ceneri. La prima rinascita lo porterà suo malgrado al tradimento della persona che lo aveva salvato, la seconda gli darà la possibilità di portare a termine la sua vendetta e di trovare l’amore. Proprio il tema sentimentale inficia entrambi i lungometraggi: nel secondo perché risulta totalmente posticcia a causa dell’esiguità di trattamento, nel terzo perché è al contrario eccessivamente sviluppata e oltre a posticipare gli scontri, tedia a causa della fissità espressiva dei due protagonisti. Dopo aver tracciato le differenze stilistiche che contraddistinguono la saga, posso concentrarmi sulla novità e sul marchio di fabbrica dell’intera trilogia: il Muay Thai. Le differenze con le altre arti marziali sono macroscopiche e Tony Jaa riesce ad esaltarle fino a farle diventare punti di forza. La rozzezza tecnica del Muay Thai con lui diventa encomiabile pragmaticità, astrazione da tecnicismi spettacolari ma poco utili.

Ong-Bak: la Trilogia dell’Elegia al Muay Thai

La trilogia è un inno alla ferocia di questa arte marziale dove si adoperano esclusivamente ginocchia e gomiti, ossa usate per rompere altre ossa, in un martellamento di colpi inferti per spaccare e distruggere gli avversari più che per sconfiggerli. Tony Jaa in più abbina all’estrema concisione del Muay Thai un atletismo ginnico che lo fa interagire magnificamente anche con zanne di elefanti e piattaforme sopraelevate. L’esplorazione di modalità sempre nuove di ibridazione lo apparenta ancora a Jackie Chan ma se nel confronto con l’attore cinese perde sicuramente in inventiva, guadagna però in incisività. Anche se gli ultimi due film lesinano nel numero dei combattimenti, riservati quasi esclusivamente al finale, la trilogia di “Ong-Bak” è un riuscito manifesto propagandistico del Muay Thai e ha il merito di lanciare definitivamente la stella di Tony Jaa.

Ong-Bak: la Trilogia dell’Elegia al Muay Thai



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