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ORFANI DI REALTA' #7 "The master"

Creato il 29 gennaio 2013 da Samuelesestieri


La guerra è finita.
Si torna a casa, ma che fine ha fatto poi la casa?
Dov’è la bella, giovane ragazza di una volta?
Il reduce scivola errante fra miraggi, ricordi e falsi profeti. Spalle curve e andatura incerta, com’è strano il suo modo di camminare, e com’è inquieta e nervosa quella risata! I piedi guidano lo sguardo e a quanto pare dagli occhi di Joaquin Phoenix non traspare più alcun al di là ma, sempre e comunque, si scorge un lacunoso, sconnesso al di qua. E’ lo sguardo di chi è tutto protratto verso un abisso imploso.
Ferita interiore mai cicatrizzata, si palesa in superficie e la chiamano nevrosi. E’ l’anima paranoica ed ansiogena a nutrire e abitare i tic. E’ dunque una cellula ribelle sotto il segno dell'instabilità che non ha niente a cui ribellarsi se non alla sua stessa identità di cellula.
Perfino l’ambizione cieca è morta a favore di un vagabondaggio privo di meta, di un perdersi e di un consumarsi nei vapori metropolitani, nelle lande infinite della coscienza ritirata.
Quando Joaquin Phoenix, a cavallo di una moto nel deserto, si dissolve nella velocità, si prende atto di come Paul Thomas Anderson stia dolorosamente cambiando. Non tanto dal punto di vista del linguaggio cinematografico: vive ancora quell’estetica sontuosa e annichilente, quell’audio caotico e perturbante che disturba i silenzi di chi non può sentire, quei piani-sequenza che non sai mai dove ti porteranno (se non all’incubo della spirale di un vuoto sempre più vuoto sempre più vuoto).
No, cambiano gli sguardi, cambia la luce del suo cinema.
L’espressione fangosa, diabolica e vigorosa del Petroliere è ormai un mondo lontano. L’estasi del capitalismo e quella dell’evangelismo sono i credi di chi aveva ancora qualcosa da trovare. In “The Master” il petrolio è finito e la terza rivelazione è già stata rivelata. Non c’è più niente da trovare, ma cosa ancora più grave, non c’è più nulla da cercare. Ma non esistono nemmeno più i rimpianti, le frustrazioni e i sogni dei petali della Magnolia o le migliaia di budini collezionati per accumulare miglia o, ancora, i centimetri di cazzo di Dirk Diggler come viatico per il mondo dei sogni e del sesso.
Niente di tutto questo permane, se non sottoforma di residuo corporale, di tic e di convulsione. L’ultima traccia del sentimento, la sua cicatrice esteriore, è lo spasmo, l’epilessia, la contrazione. Questa frenesia del corpo è lì pronta a testimoniare la non-conformità al mondo.
Ogni potenziamento (ogni correzione, verrebbe da dire) è sottoposto a una doloroso test psicologico, a un faccia a faccia con la propria mancanza. Ma questa mancanza è il bisogno di una guida, di un maestro che possa indirizzare, rigenerare e nutrire il desiderio. Eppure questi occhi aperti spalancati, che osservano senza poter sbattere le palpebre, non vedono altro che vagine di sabbia in cui sprofondare per sentirsi meno soli e più amati. Il desiderio è pura libido sessuale. Schiavi del corpo e vittime delle pulsioni sessuali, sono uomini soli devastati e in frantumi. E quindi si può solo ricercare nuove discipline, nuova fede, perfino un'infatuazione per il maestro del titolo e amare il proprio guaritore.
Sì perché “The Master” è prima di tutto la storia d’amore fra due menti complementari e in realtà affini: maestro (splendidamente intepretato da un sobrio e gigantesco Philip Seymour Hoffman che ben bilancia gli straordinari eccessi di Joaquin Phoenix) e discepolo. Ancora una volta due solitudini che cercano di volare ma che hanno i piedi ancorati a terra, sotto il peso di catene inviolabili. Perché perfino il Maestro non è mai padrone ma, in questo gioco di ruoli potenzialmente infinito, è schiavo a sua volta di quella vera mente, cinica e ammaliatrice, che tutto progetta: sua moglie (Amy Adams), vera potenza invisibile, forza che agisce nell’ombra e fa intuire quello che è il vero rapporto di potere.
In tutta questa rumorosissima confusione non si può fare altro che aspettare: la deriva non arriva mai, ma si può correre per chilometri senza poi muoversi di un passo. Proprio per questo la regia si trasforma in una spirale visiva necessariamente compiaciuta, come un meccanismo senza fine di scatole cinesi, o un cul de sac di vuote, effimere apparenze. E il montaggio rimane un rebus tutto da completare: ellissi e flashback ci trasportano all’interno di un linguaggio che è quello emotivamente instabile del mondo interno e della sensibilità del personaggio di Joaquin Phoenix. Allora seguiranno i test e la masturbazione, le deflagrazioni improvvise del corpo, i raptus di inaspettata violenza e le lacrime di chi è già morto troppe volte.
E poi correre in un campo senza recinti né frontiere e avvertire un respiro affannato e terrorizzato. Ultima ipotesi di una libertà che non potrà mai essere tale: piccoli schiavi in solitudine, avremo sempre paura.

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