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Oscar Wilde – Il ritratto di Dorian Gray 14

Creato il 08 settembre 2012 da Marvigar4

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Capitolo XIV

   Alle nove del mattino seguente il domestico entrò con una tazza di cioccolata sul vassoio e aprì i battenti. Dorian stava dormendo proprio tranquillamente, coricato sul fianco destro, con una mano sotto la guancia. Sembrava un ragazzo che si era stancato col gioco o lo studio.
   Il domestico dovette toccarlo due volte sulla spalla prima che si svegliasse, e appena aprì gli occhi un vago sorriso gli passò sulle labbra, come se fosse stato perso in un sogno piacevolissimo. Eppure non aveva sognato affatto. La sua notte non era stata turbata da alcuna immagine di piacere o di dolore. Ma il giovane sorride senza un motivo. È uno dei suoi fascini maggiori.
   Si girò e, appoggiato sul gomito, iniziò a sorseggiare la sua cioccolata. Il mite sole di novembre inondava la stanza. Il cielo era limpido e c’era un dolce tepore nell’aria. Pareva quasi una mattina di maggio.
   Poco a poco gli eventi della notte precedente s’insinuarono nella sua mente con piedi silenziosi e insanguinati e si ricostituirono con una nitidezza terribile. Trasalì al ricordo di tutto quello che aveva sofferto, e per un momento gli ritornò la stessa strana sensazione di disgusto per Basil Hallward che lo aveva portato ad ucciderlo mentre era seduto sulla sedia, e si sentì raggelare dalla passione. Il morto era ancora seduto là e addirittura alla luce del sole. Com’era orribile questo! Tali orrori erano fatti per le tenebre, non per il giorno.
   Sentì che se avesse rimuginato su quanto era accaduto si sarebbe ammalato o sarebbe impazzito. C’erano peccati il cui fascino stava più nel ricordarli che nel commetterli, strani trionfi che gratificavano l’orgoglio più che le passioni, e davano all’intelletto un senso vivo di gioia, maggiore di ogni altra gioia che arrecavano, o potevano arrecare, ai sensi. Ma questo non era uno di quelli. Era qualcosa che andava scacciato dalla mente, narcotizzato con l’oppio, soffocato per non esserne soffocati.
   Quando suonò la mezz’ora, si passò la mano sulla fronte e poi si alzò in fretta vestendosi con più cura del solito, prestando molta attenzione alla scelta della cravatta e della spilla e cambiando gli anelli più volte. Si dedicò a lungo anche alla colazione, gustando I vari piatti, parlando con il domestico di certe nuove livree che pensava di ordinare per la servitù a Selby, e scorrendo la posta. Davanti ad alcune lettere sorrise. Tre lo annoiarono. Una la lesse parecchie volte e poi la strappò con un’espressione abbozzata di fastidio sul volto. «Che cosa orrenda, la memoria di una donna!» come aveva detto Lord Henry un tempo.
   Dopo aver bevuto la sua tazza di caffè, si asciugò le labbra lentamente con il tovagliolo, fece cenno al cameriere di aspettare, e andò a sedersi al tavolo per scrivere due lettere. Una se la mise in tasca, l’altra la porse al domestico.
   «Portala al 152 di Hertford Street, Francis, e se Mr. Campbell è fuori città, prendi il suo indirizzo.»
   Non appena fu solo, si accese una sigaretta e cominciò a fare degli schizzi su di un pezzo di carta, disegnando all’inizio fiori e parti architettoniche, e poi volti umani. Tutto ad un tratto notò che ogni volto che disegnava aveva una somiglianza fantastica con Basil Hallward. Si oscurò e, alzatosi, andò alla libreria per prendere un volume a caso. Era deciso a non pensare a quello che era successo finché non fosse stato assolutamente necessario.
   Quando fu sdraiato sul sofà, guardò il titolo sul frontespizio. Era Emaux et camées [45] di Gautier, nell’edizione Charpentier su carta giapponese con le acque forti di Jacquemart. La rilegatura era in pelle verde limone, con un motivo d’oro graticolato e melograni a rilievo. Gli era stato donato da Adrian Singleton. Mentre sfolgiava le pagine, lo sguardo gli cadde sulla poesia dedicate alla mano di Lacenaire, la fredda mano gialla «du supplice ancore mal lavée» con i suoi peli rossi vellutati e le sue «doigts de faune». Osservò le sue bianche dita affusolate, rabbrividendo leggermente suo malgrado, e andò avanti, finché non giunse a quelle bellissime strofe su Venezia:

Sur une gamme chromatique,
Le sein de peries ruisselant,
La Venus de l’Adriatique
Sort de l’eau son corps rose et blanc.
Les dómes, sur l’azur des ondes
Suivant la phrase au pur contour,
S’enflent comme des gorges rondes
Que souleve un soupir d’amour.
L’esquif aborde et me depose,
Jetant son amarre au pilier,
Devant une facade rose,
Sur le marbre d’un escalier.
[46]

   Com’erano squisite! Leggendole sembrava di navigare lungo i verdi canali della città di rosa e di perla, seduti in una gondola nera con la prua d’argento e le tendine tirate. I versi stessi gli parevano quelle linee diritte di azzurro turchese che seguono chi si spinge fino al Lido. I lampi improvvisi di colore gli ricordavano il luccichio degli uccelli dal collo screziato d’opale e iris che svolazzano intorno all’alto Campanile a nido d’ape, o incedono con grazia così solenne, per le arcate buie e polverose. Si distese con gli occhi socchiusi, continuò a ripetere a se stesso:

Devant une facade rose,
Sur le marbre d’un escalier.

   Tutta Venezia era in quei due versi. Ricordò l’autunno che aveva trascorso là, e un meraviglioso amore che l’aveva spinto a pazze e deliziose follie. C’era una storia d’amore in ogni luogo. Ma Venezia, come Oxford, aveva mantenuto lo sfondo per un’avventura romantica e, per un vero romantico, lo sfondo era tutto, o quasi tutto. Basil era stato con lui parte del tempo ed era impazzito per il Tintoretto. Povero Basil! Che morte orribile per un uomo!
   Sospirò, riprese il volume e cercò di dimenticare. Lesse delle rondini che volano dentro e fuori il piccolo caffè a Smirne dove gli Hagi [47] siedono contando i loro grani d’ambra e i mercanti con il turbante fumano le loro lunghe pipe con le nappe e parlano tra loro seriamente; lesse dell’obelisco in Place de la Concorde che piange lacrime di granito nella solitudine del suo esilio senza sole e desidera ardentemente tornare sulle calde rive del Nilo coperto di loto, dove ci sono le sfingi e gli ibis rossi e rosei, e i bianchi avvoltoi dagli artigli dorati, e i coccodrilli con i piccoli occhi di berillo che strisciano sul verde fango fumante; prese a rimuginare su quei versi che, prendendo la melodia dal marmo roso dai baci, narrano di quella strana statua che Gautier paragona a una voce di contralto, il “monstre charmant” che riposa nella sala di porfido del Louvre. Ma dopo un po’ il libro gli cadde di mano. Si innervosì e un accesso orribile di terrore lo invase. Che sarebbe successo se Alan Campbell non fosse in Inghilterra? Sarebbero passati prima del suo ritorno.forse si sarebbe rifiutato di venire. Cosa avrebbe fatto allora? Ogni momento era di vitale importanza.
   Erano stati grandi amici un tempo, cinque anni prima – quasi inseparabili! Poi all’improvviso l’intimità era finita. Quando si incontravano in società, ora, solo Dorian Gray sorrideva: Alan Campbell non sorrideva mai.
   Era un giovane estremamente intelligente, anche se non apprezzava molto le arti figurative, e quel poco di sensibilità per la bellezza della poesia che aveva lo aveva acquistato interamente da Dorian. La sua passione intellettuale dominante era la scienza. A Cambridge aveva trascorso buona parte del suo tempo lavorando in laboratorio, e aveva ottenuto una buona valutazione nell’esame finale di scienze naturali del suo anno. In effetti, era molto appassionato per lo studio della chimica e aveva un laboratorio tutto suo dove restava chiuso per giorni interi, con gran disappunto della madre, che in cuor suo sperava che entrasse in Parlamento e aveva la vaga idea che un chimico fosse qualcuno che preparasse ricette. Era anche un eccellente musicista, però, e suonava il violino e il piano meglio della maggioranza dei dilettanti. In effetti, fu la musica a stabilire il primo contatto tra lui e Dorian Gray – la musica e quell’indefinibile attrazione che Dorian sembrava poter esercitare quando voleva – e che, anzi, esercitava senza accorgersene. Si erano incontrati a casa di Lady Berkshire la sera in cui aveva suonato Rubinstein, e da allora li si vedeva sempre insieme all’Opera e dovunque facessero buona musica. La loro intimità durò diciotto mesi. Campbell era sempre a Selby Royal o a Grosvenor Square. Per lui, come per molti altri, Dorian Gray era il simbolo di tutto ciò che c’è di meraviglioso e affascinante nella vita. Nessuno ha mai saputo se tra loro ci sia stato un litigio. Ma improvvisamente la gente notò che si parlavano appena quando si vedevano e che Campbell pareva sempre tra i primi ad andarsene nei ricevimenti in cui era presente Dorian Gray. Era anche cambiato – talvolta era stranamente malinconico, sembrava quasi non gli piacesse la musica, e non suonava più, scusandosi, quando glielo chiedevano, che era così assorbito dalla scienza da non aver più tempo per esercitarsi. E questo era certamente vero. Il suo interesse per la biologia cresceva ogni giorno e il suo nome apparve una o due volte su una di quelle riviste scientifiche a proposito di certi strani esperimenti.
   Questo era l’uomo che Dorian Gray stava aspettando. Ogni secondo dava un’occhiata all’orologio. Col passare dei minuti diventò terribilmente agitato. Alla fine si alzò e cominciò a camminare su e giù per la stanza come un bellissimo animale in gabbia. Faceva passi lunghi e furtivi. Le mani erano insolitamente fredde.
   La suspense diventò insopportabile. Gli sembrava che il tempo strisciasse con piedi di piombo, mentre lui veniva spinto da ali mostruose verso l’orlo frastagliato di un crepaccio nero di un precipizio. Sapeva che cosa lo stava aspettando laggiù; anzi, lo vedeva, e, rabbrividendo, schiacciava con mani viscide le palpebre ardenti quasi volesse sottrarre la vista alla mente e ricacciare i bulbi oculari nella loro orbita. Era inutile. La mente aveva un proprio alimento di cui si cibava, e l’immaginazione, resa grottesca del terrore, attorcigliata e distorta dal dolore come una cosa viva, danzava simile a un’orribile marionetta in un teatrino e ghignava dietro maschere mobili. Poi, improvvisamente, il tempo si fermò per lui. Sì: quella cosa cieca, dal respiro lento non strisciava più, e pensieri orrendi, morto il tempo, gli correvano davanti con agilità e trascinavano un futuro atroce fuori dalla tomba e glielo mostrarono. Lo guardò fisso. Il suo orrore lo impietrì.
   Alla fine la porta si aprì e il domestico entrò. Dorian lo guardò con sguardo assente.
   «Mr. Campbell, signore» disse l’uomo.
   Un sospiro di sollievo gli uscì dalle labbra arse e il colore tornò sulle sue guance.
   «Digli di entrare subito, Francis.» Si sentì di nuovo se stesso. Quell’umore vigliacco era passato.
   Il domestico s’inchinò e uscì. Dopo poco Alan Campbell faceva il suo ingresso, con l’aria molto severa e piuttosto smorto in viso, il cui pallore era intensificato dai capelli corvini e dalle sopracciglia scure.
   «Alan! È gentile da parte tua. Ti ringrazio per essere venuto.»
   «Mi ero ripromesso di non mettere più piede in casa tua, Dorian. Ma hai detto che era questione di vita o di morte.» La sua voce era dura e fredda. Parlava con lenta risolutezza. C’era un’espressione di disprezzo nello sguardo fermo e indagatore che rivolse a Dorian. Teneva le mani nelle tasche del suo cappotto di astrakan e sembrava non aver notato il gesto con cui era stato salutato.
   «Sì: è una questione di vita o di morte, Alan, e per più di una persona. Siediti.»
   Campbell prese una sedia vicino al tavolo e Dorian si sedette davanti a lui. Gli occhi dei due uomini s’incontrarono. In quelli di Dorian c’era un’infinita pietà. Sapeva che quello che stava per fare era orribile.
   Dopo un momento teso di silenzio, si allungò sul tavolo e disse, molto pacatamente, ma osservando l’effetto di ogni parola sul volto di chi aveva mandato a chiamare, «Alan, in una stanza chiusa all’ultimo piano di questa casa, una stanza a cui nessuno tranne ha accesso, c’è un uomo morto seduto a un tavolo. È morto da dieci ore. Non agitarti e non guardarmi così. Chi è, perché è morto, come è morto, sono fatti che non ti riguardano. Ciò che devi fare è questo…»
   «Fermati, Gray. Non voglio sapere altro. Se quello che mi hai detto è vero o no non mi riguarda. Mi rifiuto del tutto d’essere immischiato nella tua vita. tieni per te i tuoi orribili segreti. Non m’interessano più.»
   «Alan, dovranno interessarti. Questo dovrà interessarti. Mi dispiace da morire per te, Alan. Ma non posso farne a meno. Tu sei l’unico uomo che può salvarmi. Sono costretto a coinvolgerti nella faccenda. Non ho scelta. Alan, tu sei uno scienziato. Conosci la chimica e cose del genere. Hai fatto degli esperimenti. Quello che devi fare è distruggere la cosa che è sopra – distruggerla in modo che non ne resti traccia. Nessuno ha visto questa persona entrare in casa. Anzi, in questo preciso momento credono che sia a Parigi. La sua assenza non sarà notata per mesi. Quando la noteranno, qui non dovrà più esserci traccia di lui. Tu, Alan, devi trasformare lui e tutto ciò che gli appartiene in un pugno di cenere che io possa gettare al vento.»
   «Tu sei pazzo, Dorian.»
   «Ah! Aspettavo che tu mi chiamassi Dorian.»
   «Tu sei pazzo, ti dico – pazzo a immaginare che io alzi un dito per aiutarti, pazzo a farmi questa mostruosa confessione. Non voglio avere a che fare con questa faccenda, qualunque sia. Credi che metta a repentaglio la mia reputazione per te? Cosa vuoi che m’importi in che diavolo di pasticcio ti sei ficcato?»
   «È stato un suicidio, Alan.»
   «Ne sono lieto. Ma chi ce l’ha spinto? Tu, mi immagino.»
   «Ti rifiuti ancora di fare questo per me?»
   «Certo che rifiuto. Non voglio avere assolutamente niente a che fare. Non m’importa della vergogna che ricade su di te. Te la meriti tutta. Non mi dispiacerebbe vederti in disgrazia, pubblicamente in disgrazia. Come osi chiedere a me, tra tutti gli uomini che ci sono al mondo, di immischiarmi in questo orrore? Pensavo che tu conoscessi meglio il carattere delle persone. Il tuo amico Lord Henry Wotton non ti ha insegnato molto di psicologia, ammesso ti abbia insegnato qualcosa. Niente mi spingerà a fare un passo per aiutarti. Ti sei rivolto alla persona sbagliata. Va’ da uno dei tuoi amici. Non venire da me.»
   «Alan, è stato un omicidio. L’ho ucciso io. Non sai quanto mi ha fatto offrire. Qualunque sia la mia vita, lui è stato più responsabile a farla o a rovinarla di quanto sia stato il povero Harry. Forse non aveva intenzione, ma il risultato è lo stesso.»
   «Omicidio! Buon Dio, Dorian, a questo sei arrivato? Non ti denuncerò. Non spetta a me. E poi, anche senza il mio intervento, sarai arrestato di sicuro. Nessuno commette mai un delitto senza aver fatto qualche stupidaggine. Ma io non voglio averci a che fare.»
   «Dovrai averci a che fare. Aspetta, aspetta un momento; ascoltami. Ascolta soltanto, Alan. Tutto quello che ti dico è di eseguire un certo esperimento scientifico. Tu vai negli ospedali e negli obitori, e gli orrori che combini lì non ti toccano. Se in una orrenda sala di dissezione anatomica o in qualche fetido laboratorio tu trovassi quest’uomo disteso su di un tavolo di piombo con i canaletti rossi per far scorrere il sangue, lo considereresti semplicemente un soggetto ammirevole. Non faresti una piega. Non crederesti di fare niente di male. Al contrario, probabilmente sentiresti di fare del bene all’umanità, o di incrementare l’intera conoscenza scientifica nel mondo, o di gratificare la curiosità intellettuale, o qualcosa del genere. Voglio che tu faccia soltanto quello che hai già fatto spesso. E poi, distruggere un corpo deve essere molto meno orribile di quello che fai abitualmente. E ricorda che è l’unica prova contro di me. Se viene scoperto, io sono perduto; e sicuramente sarà scoperta se tu non mi aiuti.»
   «Non alcuna intenzione di aiutarti. Scordatelo. Tutta la faccenda mi è semplicemente indifferente. Non ha niente a che fare con me.»
   «Alan, ti scongiuro. Pensa alla posizione in cui sono. Poco prima che tu venissi quasi svenivo dal terrore. Un giorno anche tu potresti conoscere il terrore. No! non pensarci. Guarda la cosa da un punto di vista puramente scientifico. Tu non indaghi da dove provengono i cadaveri su cui fai gli esperimenti. Non indagare ora. Ti ho già detto fin troppo. Ma ti supplico di fare questo. Un tempo eravamo amici, Alan.»
   «Non parlare di quei giorni, Dorian: sono morti.»
   «I morti a volte rimangono. L’uomo di sopra non andrà via. È seduto al tavolo con la testa china e le braccia allungate. Alan! Alan! Non capisci? Mi impiccheranno per quello che ho fatto.»
   «Non ha senso prolungare questa scena. Mi rifiuto assolutamente di fare qualsiasi cosa. È folle che tu me lo chieda.»
   «Ti rifiuti?»
   «Sì.»
   «Ti scongiuro, Alan.»
   «È inutile.»
   La stessa espressione di pietà comparve negli occhi di Dorian. Poi allungò la mano, prese un pezzo di carta e ci scrisse qualcosa sopra. Lo lesse due volte, lo piegò con cura e lo spinse per il tavolo. Fatto questo, si alzò e andò alla finestra.
   Campbell lo guardò sorpreso, poi prese il foglio e lo aprì. Appena lo lesse il volto assunse un pallore spettrale e si lasciò andare sulla sedia. Un senso orribile di nausea lo colse. Ebbe la sensazione che il suo cuore battesse in qualche cavità vuota fino alla morte.
   Dopo due o tre minuti di silenzio terribile, Dorian si voltò, si avvicinò mettendosi dietro e gli posò una mano sulla spalla.
   «Mi dispiace tanto per te, Alan,» mormorò, «ma non mi lasci alternative. Ho già scritto una lettera. Eccola. Vedi l’indirizzo. Se non mi aiuti, la spedirò. Sai quale sarà il risultato. Ma tu mi aiuterai. È impossibile per te rifiutare adesso. Ho cercato di risparmiarti. Mi renderai la giustizia di ammetterlo. Sei stato severo, duro, offensivo. Mi hai trattato come nessun uomo ha mai osato trattarmi – nessun uomo vivo, perlomeno. Ho sopportato tutto. Ora sta a me dettare i termini.»
   Campbell si nascose il viso tra le mani e fu scosso da un brivido.
   «Sì, ora sta a me dettare i termini, Alan. Sai bene di che si tratta. La cosa è molto semplice. Vieni, non farti prendere da questa febbre. La cosa va fatta. Affrontala e falla.»
   Un gemito proruppe dalle labbra di Campbell, che tremava tutto. Il ticchettio dell’orologio sul camino gli sembrava dividere il tempo in atomi separati di agonia, ciascuno dei quali era troppo terribile per essere sopportato. Ebbe la sensazione che un anello di ferro gli venisse lentamente stretto intorno alla fronte, come se la sventura con cui era stato minacciato si fosse già abbattuta su di lui. La mano sulla spalla pesava come una mano di piombo. Era intollerabile. Pareva schiacciarlo.
   «Avanti, Alan, devi deciderti subito.»
   «Non posso farlo» disse meccanicamente, come se le sue parole potessero alterare le cose.
   «Devi. Non hai scelta. Non indugiare.»
   Esitò per un momento. «C’è del fuoco nella stanza di sopra?»
   «Sì, c’è un fornello a gas d’amianto.»
   «Dovrò andare a casa per prendere delle cose dal laboratorio.»
   «No, Alan, non devi lasciare questo posto. Scrivi su un foglio di taccuino quello che vuoi e il mio domestico prenderà una carrozza e ti porterà le cose.»
   Campbell scarabocchiò poche righe, le asciugò e indirizzò la busta al suo assistente. Dorian prese il biglietto e lo lesse con attenzione. Poi suonò il campanello e lo dette al valletto, con l’’ordine di tornare prima possibile e portare con sé le cose.
   Appena si chiuse la porta dell’ingresso, Campbell sussultò nervosamente e, alzatosi dalla sedia, si avvicinò al camino. Tremava come se avesse un accesso di malaria. Per circa venti minuti nessuno dei due parlò. Una mosca ronzava noiosamente per la stanza, e il ticchettio dell’orologio sembrava un martello battente.
   Quando l’una scoccò, Campbell si girò e, guardando Dorian Gray, vide che i suoi occhi erano pieni di lacrime. C’era qualcosa nella purezza e raffinatezza di quel volto triste che pareva irritarlo. «Sei infame, assolutamente infame!» bisbigliò.
   «Zitto, Alan. Mi hai salvato la vita» disse Dorian.
   «La tua vita? Santi numi! Che vita è questa! Sei passato da una corruzione a un’altra, e ora sei giunto al culmine con un delitto. Facendo quello che sto per fare – che tu mi costringi a fare – non è alla tua vita che penso.»
   «Ah, Alan,» mormorò Dorian con un sospiro, «vorrei che tu avessi per me la millesima parte della pietà che io ho per te.» Mentre parlava si voltò e rimase a guardare il giardino. Campbell non rispose.
   Dopo circa dieci minuti bussarono alla porta e il domestico entrò, portando una grande cassa di mogano piena di sostanze chimiche, con una lunga matassa di fili in acciaio e platino e due pinze di ferro dalla strana forma.
   «Debbo lasciare le cose qui, signore?» chiese a Campbell.
   «Sì» disse Dorian. «E temo, Francis, di avere un’altra commissione per te. Qual è il nome dell’uomo a Richmond che rifornisce Selby di orchidee?»
   «Harden, signore.»
   «Sì – Harden. Devi andare subito da Richmond, chiedi di Harden personalmente e digli di mandare il doppio delle orchidee che avevo ordinato, e di mettere il meno possibile le bianche. Anzi, di bianche non ne voglio affatto. È una bella giornata, Francio, e Richmond è un posto molto grazioso, altrimenti non ti darei questa incombenza.»
   «Nessun fastidio, signore. A che ora debbo tronare?»
   Dorian guardò Campbell. «Quanto ci vorrà per il tuo esperimento, Alan?» disse con voce calma e indifferente. La presenza di una terza persona nella stanza sembrava infondergli uno straordinario coraggio.
   Campbell si accigliò e si morse il labbro. «Ci vorranno circa cinque ore» rispose.
   «Allora c’è abbastanza tempo perché tu torni alle sette e mezzo, Francis. Oppure, aspetta: lasciami fuori i miei vestiti. Puoi prenderti una serata libera. Non ceno a casa, quindi non ho bisogno di te.»
   «Grazie, signore» disse l’uomo lasciando la stanza.
   «Ora, Alan, non c’è un momento da perdere. Com’è pesante questa cassa! Te la porto io. Tu porta le altre cose.» Parlò rapidamente e con un tono autoritario. Campbell si sentiva dominato da lui. Lasciarono insieme la stanza.
   Quando raggiunsero l’ultimo piano, Dorian prese la chiave e la giro nella serratura. Poi si fermò, e comparve un’espressione turbata nel suo sguardo. Rabbrividì. «Non credo di poter entrare, Alan» mormorò. «Questo non mi riguarda. Non ho bisogno di te» disse Campbell freddamente. Dorian aprì a metà la porta. Vide subito il volto del suo ritratto che lo guardava malvagiamente alla luce del sole. Sul pavimento di fronte giaceva la tenda strappata. Ricordò che la notte prima aveva dimenticato, per la prima volta nella sua vita, di nascondere la tela fatale, e stava per precipitarsi, quando arretrò con un brivido.
   Cos’era quella ripugnante rugiada rossa che brillava, umida e luccicante, su una delle mani, come se la tela avesse stillato sangue? Com’era orribile! – più orribile, gli sembrò in quel momento, di quella cosa silenziosa che sapeva riversa sul tavolo, la cosa la cui ombra grottesca e informe sul tappeto macchiato gli indicava che non si era mossa, ma era ancora lì dove l’aveva lasciata.
   Tirò un profondo respiro, aprì un po’ di più la porta e, con gli occhi socchiusi e la testa voltata, entrò in fretta, deciso a non guardare il morto nemmeno una volta. Poi, si fermò raccogliere il panno oro e porpora e lo gettò sul quadro.
   Si fermò lì, temendo di voltarsi, e suoi occhi fissarono se stessi sull’intricato disegno che gli stava davanti. Sentì Campbell che portava dentro la cassa pesante, i ferri e le alter cose che aveva chiesto per il suo terribile lavoro. Cominciò a chiedersi se lui e Basil Hallward si fossero mai incontrati e, se sì, cosa pensassero l’uno dell’altro.
   «Lasciami adesso» disse una voce severa dietro di lui.
   Si girò e corse fuori, appena in tempo per capire che il morto era stato appoggiato alla sedia e che Campbell stava scrutando un viso giallo luccicante. Mentre stava scendendo, sentì la chiave girare nella toppa.
   Erano già passate da un po’ le sette quando Campbell tornò in biblioteca, era pallido, ma assolutamente calmo. «Ho fatto quello che mi hai chiesto» sussurrò. «E ora, addio. A non rivederci mai più.»
   «Mi hai salvato dalla rovina, Alan. Non potrò dimenticarlo» disse Dorian semplicemente.
   Appena Campbell se ne fu andato, salì sopra. C’era un orribile odore di acido nitrico nella stanza. Ma la cosa che era seduta al tavolo non c’era più.

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[45] Raccolta di 37 poesie ottosillabiche di Théophile Gautier (1811-1872), lo scrittore francese autore di romanzi quali Le Captaine Fracasse, Le Roman de la Momie e Mademoiselle de Maupin, quest’ultimo famoso per la sua préface, considerata il manifesto dell’art pour l’art. L’edizione a cui si fa riferimento è quella del 1881, decorata dalle acqueforti di Jacquemart de Hesdin (c. 1355– c. 1414), pittore e miniaturista.

[46] Si tratta della poesia Variations sur le Carnaval de Venise, II Sur la Lagune, vv.45-56: Su una gamma cromatica, / il seno grondante di perle, /la Venere dell’Adriatico/ fa uscire il suo corpo rosa e bianco.// Le cupole, sull’azzurro delle onde,/ seguendo la frase dal puro contorno,/ si gonfiano come gole rotonde / che solleva un sospiro d’amore.// Il traghetto accosta e mi depone, / gettando l’amarra all’ormeggio, / davanti una facciata rosa, / sul marmo di una scalinata.

[47] I pellegrini che si recano alla Mecca.



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