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Eppure Paolo Sorrentino non pesca nel fango, nel senso che sa tratteggiare i suoi personaggi con un'ottima capacità narrativa. Così Stefania (Galatea Ranzi), Romano (Carlo Verdone), Lorena (Serena Grandi) e gli altri sono senza dubbio figure ben note, insignificanti, basterebbe scorrere la propria rubrica telefonica o ricordare l'ultima cena con amici; eppure si stagliano tutti bene sul panorama, si prendono il giusto spazio, sono pur sempre ritratti in una foto d'ambiente. E che l'elemento "fotografia" conti molto non è solo la qualità davvero speciale delle immagini di Paolo Sorrentino a garantirlo. La fotografia è, infatti, elemento tematico forte di questo film.
Come se si volesse fermare il tempo, evitare la corruzione proprio mentre questa dilaga e per il fatto stesso che la si fotografa, tutti sono forniti di strumenti per fissare in forma di file, l'etereo nell'etereo, momenti come altri, scelti in base alla circostanza, scelti perché certi momenti si selezionano tra gli altri, chiunque li viva. Sono tutti ingabbiati in una recita sconcertante di vite già vissute, in modalità di scatto prevedibili: l'identità si perde per il fatto stesso che la si vuole fermare nel tempo e nello spazio. Solo quando la fotografia viene fissata su carta, affiancata ad altre, quella del giorno prima, quella del giorno dopo, in un immenso santuario del selfie che le raccoglie tutte dalla nascita e si fa storia, abbiamo l'impatto maggiore dell'effimero nella vita di questi bisonti della società italiana. Sarà la nostalgia, forse, a prendere il sopravvento (che cosa avete contro la nostalgia?, domanda Gep a un certo punto), o la grandezza di quello che facciamo ogni giorno, uno scatto come un attimo rubato ogni giorno, goccia dopo goccia, a tamponare quest'emorragia di vita, a far capire in che mare anneghiamo.
La "dolce vita" di questi modaioli insopportabili è intransitiva, si esaurisce e anzi si brucia in se stessa. Per questo influisce il personaggio dell'oursider Ramona, quasi una paronomasia dello scrittore fallito Romano che contiene ancora il nome della nostra capitale (interpretata da Sabrina Ferilli): la donna, che non è portata per le belle cose, sembra rifiutare questa ricchezza, i suoi spogliarelli mi sono sembrati quasi esercizi di scarnificazione più che omaggio a una sessualità vissuta con disinvoltura e senza nessun impegno emotivo. Non a caso è lei, in un film tutt'altro che originale o ineccepibile, a farsi compagna abituale del protagonista in una storia nella quale o accetti nell'ignoranza tutto questo vuoto lusso o sei destinato a soccombere (e comunque sei destinato a soccombere, o a vivere come scarto, quando passa il tuo attimo di gloria).
È vero anche, però, che la soluzione di Gep è quella del dominio e in questa decadenza generale l'autocontrollo di questa voce incisiva, razionale e cinica, perfettamente in sé, capace di sceneggiarsi, non può non ricordare il Giulio Andreotti de Il Divo: Gep tiene per sé il suo passato, rivelandolo solo in un attimo di abbandono, e rimane aperto al suo futuro, a tutto ciò che gli resta da fare. In definitiva, il suo vantaggio sugli altri è proprio nel presente: non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare. Gep resiste al vortice perché ne è al centro e guarda tutto ciò che gli ruota intorno come su uno schermo, spostando, quasi per un tic o un lapsus, lo sguardo oltre i momenti bui, in un continuo lavoro di sottrazione. Già, però è la sottrazione dell'esercizio di stile e non impedisce alla fattura del film di rimanere cesellata e un po' barocca, Come dire, La grande bellezza sa sedurre, ma non incanta.
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