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Pierre Bayard, Come parlare di luoghi senza esserci mai stati

Creato il 13 dicembre 2015 da Viaggimarilore

E tu che tipo di viaggiatore sei? Sei il tipo di viaggiatore che prende, parte e va, oppure sei un viaggiatore in pantofole?

Pierre Bayard, Come parlare di luoghi senza esserci mai stati

Pierre Bayard, Come parlare di luoghi senza esserci mai stati

Questo libro, Come parlare di luoghi senza esserci mai stati, di Pierre Bayard, mi ha attirato fin dal titolo. Mi sono detta “voglio proprio vedere di che parla!”. Leggerlo è stato una continua riflessione sul mio modo di intendere il viaggio, il racconto di viaggio, la scrittura di viaggio, la memoria e l’invenzione. Perché questo volumetto non è un libro sui viaggi, ma sul modo di scrivere e di raccontare viaggi, reali o fantastici che siano.

Il libro è tutto teso a dimostrare fin dalla prima pagina che “la nostra ignoranza, parziale o completa, di un argomento, non è necessariamente un handicap per poterne discutere con competenza, e anzi può tornare utile in vista di una migliore conoscenza del mondo“. Potete capire come, fin da questa dichiarazione di intenti, mi si sia alzato un sopracciglio di perplessità: come sarebbe a dire? Come posso esprimere un’opinione, e anzi raccontare un luogo più o meno lontano, se non vi sono mai stata? Che razza di racconto di viaggio è quello di un viaggio che non è mai avvenuto?

Andando avanti nella lettura si scoprono i veri intendimenti di questo libro: l’autore non parla di viaggio, e neppure di letteratura di viaggio, ma di letteratura nel senso più ampio del termine, parlando di stile, di soluzioni narrative, di invenzione. Di racconti così ben strutturati da riuscire a far credere al lettore che il viaggio sia stato compiuto per davvero. Prendiamo Marco Polo, ad esempio. Il Milione è il suo racconto di viaggio straordinario nelle terre di Kubilai Khan. Il mercante veneziano descrive così minuziosamente il suo itinerario, indulge sui particolari più curiosi, ai limiti della fantasia, come i liocorni, animali con un corno e le spine sulla lingua, mentre non fa alcun accenno a un monumento così eccezionale come la Grande Muraglia che avrebbe dovuto vedere, se davvero fosse stato dove dice di essere stato. Proprio per queste discrepanze con il reale e per l’invenzione palese di popolazioni dalle usanze bizzarre e di animali fantastici, la critica è ormai quasi tutta concorde nell’affermare che Marco Polo non sia mai andato oltre Costantinopoli, mentre il racconto, parlando di animali quasi mitologici, va incontro al gusto della sua epoca per le descrizioni /narrazioni fantasiose, un immaginario collettivo per il quale era possibile che in terre lontane vivessero uomini con la testa di cane e cose del genere. Ecco che allora Pierre Bayard dice che “il racconto di viaggio è un luogo privilegiato di esercizio della finzione.

Pierre Bayard, Come parlare di luoghi senza esserci mai stati

Ritratto di Chateaubriand. Fonte: Lacooltura.com

Tra i vari autori e personaggi che Bayard ci presenta per supportare il primato del viaggiatore in pantofole, oltre a Marco Polo descrive un altro autore/viaggiatore: Chateaubriand. Costui compie alcuni viaggi dei quali parla in alcune sue opere, uno in NordAmerica, un altro nella Grecia Classica. In entrambi i casi fa una cosa buffa: descrive nei suoi racconti luoghi che fisicamente non ha visitato, perché non vuole passare agli occhi dei suoi critici e dei suoi lettori come un viaggiatore superficiale che salta mete ritenute dai più importantissime. A Chateaubriand viaggiatore, poi, non interessano i dettagli, non interessa perdere tempo ad osservare da vicino i monumenti: gli basta una visione d’insieme, panoramica. Peccato che poi, quando si tratta di raccontare, allora la memoria non gli venga in soccorso. Ma non c’è problema, perché egli nei suoi scritti supplisce alla sua lacuna documentandosi con altri testi, più completi, sull’argomento. Ecco che allora fa una cosa particolare: racconta la sua esperienza personale, completandola però con nozioni prese altrove: né più né meno di come faccio io quando in uno dei miei post completo la descrizione del mio viaggio infarcendola di informazioni storiche o culturali per acquisire le quali mi sono necessariamente dovuta documentare leggendole su una guida o da qualche altra parte. Insomma, senza saperlo mi comporto come Chateaubriand ogni volta che in un post inserisco qualche nota informativa più approfondita che non ho acquisito sul posto, ma che ho recuperato in seguito.
Parlando a proposito dei Luoghi che abbiamo dimenticato, Pierre Bayard lancia una provocazione: “un posto che abbiamo dimenticato, ma nel quale siamo effettivamente andati nonostante ogni traccia del nostro soggiorno sia scomparsa dalla memoria, è ancora un posto nel quale abbiamo viaggiato?“. La riflessione è molto più che oziosa: per esempio, io da bambina sono stata con i miei genitori a Padova, ma di quel viaggio ricordo solo il nome della città. Così quando ci sono tornata da adulta, è stato come se ci fossi stata per la prima volta, perché il mio cervello in effetti non ricordava proprio nulla del viaggio di 20 anni prima. E va detto che se non fosse per la marea di fotografie che sono solita scattare e dei racconti di viaggio che sono solita scrivere, molti luoghi li dimenticherei (i nomi delle località in particolare); ed è vero, sarebbe come non esserci mai stata: a che serve dire “sì, sono stata a Darwin, in Australia” se poi alla domanda “com’è?” non so più rispondere perché non ne serbo più il ricordo? Il blog in effetti, o lo scrivere un diario nel caso dei viaggi più lunghi, mi aiuta proprio a preservare la memoria dei luoghi, grazie sì alle foto, ma soprattutto al racconto quasi immediato delle sensazioni legate ai posti, alle esperienze e agli eventi. Il viaggio è fatto di tutti questi elementi, di immagini, di istanti, di sensazioni ed emozioni personali; perderne la memoria è davvero un peccato.

Vi sono svariati tipi di viaggiatori in pantofole: un caso è ad esempio quello di chi racconta il viaggio fatto da un altro e lo fa come se fosse il proprio; in tal caso il viaggiatore in pantofole si affida totalmente alle parole del viaggiatore in sua vece, rischiando in quanto non ha modo di verificare la veridicità delle informazioni e al tempo stesso, però, personalizzando l’esperienza altrui, in quanto nel momento in cui la narra a sua volta, la reinterpreta inventando una sua immagine dei luoghi che però non corrisponde al reale, semplicemente perché non l’ha vista di persona.

Pierre Bayard si dilunga a raccontare anche dei casi limite, di totale invenzione: come il caso di quell’uomo che per buona parte della sua vita aveva finto di fare un lavoro che lo portava distante da casa per intere settimane, e che per rendere realistica la sua bugia inventava di sana pianta luoghi e situazioni per renderle credibili agli occhi dei suoi familiari. Inutile dire che la vicenda finì in tragedia: e impressionò a tal punto uno scrittore come Emmanuel Carrère da spingerlo a raccontarla, a farla propria, ad indagare la psicologia del protagonista, Jean-Claude Romand, che uccise moglie e figli per il terrore di essere smascherato.

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Blaise Cendras, La prose du Transsibérien (ora in mostra a #Toscana900)


Un altro caso è il racconto che fa Blaise Cendras del viaggio in treno lungo la Transiberiana ai primi del Novecento. Racconta di questo viaggio avventuroso, carico di suggestioni e di metafore, di visioni e di descrizioni realistiche in un poemetto, La prose du Transsibérien. Nonostante il racconto sia carico di trasporto emotivo come solo un’esperienza reale e coinvolgente può dare, molti avanzarono dubbi sull’autenticità del viaggio. Un aneddoto riporta proprio che all’ennesimo dubbio di qualche suo commentatore, lo stesso Cendras avrebbe risposto “Che cosa vuoi che importi, visto che quel treno l’ho fatto prendere a tutti!“. Emerge allora, con forza, il potere evocativo della scrittura, e quindi della letteratura: lo scrittore, dice Bayard, non guarda al luogo, ma allo spirito del luogo, a qualcosa che non è il luogo fisico, ma che è ciò che la scrittura letteraria può creare perché diventi proprietà immaginaria di tutti. Nel momento in cui noi leggiamo il poemetto di Cendras, e viaggiamo con lui sulla Transiberiana, guardando fuori dal finestrino Mosca, le foreste, la steppa, poco importa in realtà se lui c’è stato realmente oppure no: noi abbiamo compiuto grazie alle sue descrizioni un viaggio immaginario, che sarebbe altrettanto immaginario che se lui l’avesse compiuto sul serio, perché sarebbe comunque immaginato da noi. In sostanza, nel racconto del viaggio, conta la ricezione del lettore, non il fatto che lo scrittore ci sia stato davvero.

Ecco che allora, finalmente, si capisce cosa si intende per Viaggiatore in pantofole: uno scrittore che viaggia con la mente, che si documenta stando comodamente seduto a casa propria perché sa che il fine del suo racconto non è quello di riportare la realtà oggettiva dei luoghi (che di fatto non esiste, perché ogni luogo porta in sé una notazione soggettiva nella percezione di chi vi si trova), ma di suscitare una reazione, di interesse, di curiosità, di ammirazione, in chi riceve il racconto.

Complicato? Farraginoso? Un po’ troppo filosofico? Però davvero questo libro ha avuto la capacità di farmi interrogare ad ogni pagina sul senso del mio raccontare i viaggi, sul perché scelgo di raccontare un aspetto piuttosto che un altro, un aneddoto piuttosto che un altro, sul perché in qualche caso aggiungo delle informazioni in più rispetto alla mia esperienza nuda e cruda e sul perché decido di indulgere su alcuni particolari tralasciandone altri. Un libro che ho apprezzato veramente tanto, nonostante io sia fiera, fino alla fine, di poter dire che non sono e non voglio essere un viaggiatore in pantofole! Ma per quanto riguarda i miei viaggi, voglio andare nei luoghi e raccontarli per come li ho vissuti, per quello che mi hanno trasmesso e perché penso che possano trasmettere qualcosa anche a chi legge.

E tu che ne pensi? Ti senti un viaggiatore in pantofole o sei pronto a partire per un luogo e a raccontarne la tua vera esperienza?


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