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“POETI MISCONOSCIUTI TRA NOI?” di Thomas MANN

Creato il 05 agosto 2010 da Fabry2010

“POETI MISCONOSCIUTI TRA NOI?” di Thomas MANN

Poeti misconosciuti: che significa? Vuol forse dire: poeti ingiustamente ignorati? O immeritatamente noti? O poeti noti, ma fraintesi? Poiché gli sconosciuti, almeno, non corrono il pericolo di venire fraintesi. La menzione che Ella fa di Rilke nella Sua lettera (dove dice che, benché ammiratissimo, egli non è stato capito affatto nella sua fase estrema) dimostra che Lei sa benissimo come la probabilità di venire fraintesi aumenti in proporzione alla notorietà. Certamente ricorderà le parole di Hegel sul letto di morte: “ Di tutti i miei discepoli, uno solo mi ha inteso”. Pausa. “E quello mi ha frainteso.” Ma la “gloria” non è di per sé un malinteso, seppure un malinteso altamente dinamico? Non è un’irradiazione diretta con l’essere capiti, che dell’essere capiti non è in alcun modo la conseguenza? Wedekind è stato forse capito? Voleva essere capito? Si capiva lui stesso, quando cercava di farsi capire? Di farsi, per esempio, capire in senso morale? Era possibile capirlo? Non era forse “senza fondo”? La poesia non sarebbe per caso una forza che disorienta l’umanità proprio mentre la innalza? Credo che faremmo bene a rispettare l’irrazionalità della gloria. La vita stessa è una grandezza irrazionale, e lo spirito, come dice Goethe, è “la vita della vita”.
Ella mi risponderà: “Ma qui si tratta della gloria, cioè di quei casi in cui essa manca e non dovrebbe mancare, perché un grande ingegno la esige; si tratta della carenza, sia pur provvisoria, di quella irradiazione naturale che, per nostra vergogna, ci è dato osservare così spesso nel passato”. Mi accuserà di empio ottimismo se le dico che il pericolo di una tale anomalia, nelle condizioni attuali, si è ridotto fin quasi all’inverosimile? L’anarchica curiosità ed eccitabilità del nostro tempo e del nostro mondo ha indubbiamente le sue spesso criticate zone d’ombra, ma credo che escluda quasi del tutto la possibilità del “genio incompreso”. Forse m’inganno, forse ogni età s’è ingannata allo stesso modo, ma il misconosciuto e innovativo che sia, mi sembra oggigiorno impossibile. Abbiamo i casi più curiosi. La fama di narratore di Alfred Doblin è considerevole e quasi da nessuno contestata. E lo è tanto meno in quanto la grande maggioranza dei portatori e dei banditori di questa fama non è in grado di controllarne i titoli di validità, non essendo assolutamente in grado di leggere i libri di questo modernissimo scrittore del tutto privo di ascendenti. Sono pochissime le persone che riescono a leggere fino in fondo i libri di Doblin, ma moltissime li comprano, e tutti, più o meno, riconoscono che Doblin è un grande narratore, anche se devono ammettere che è terribilmente difficile seguirlo. Si può dare un migliore esempio di ciò che ho chiamato l’irrazionalità della gloria?
Ma in generale chi e che cosa non è ben accetto, oggigiorno, purché abbia qualcosa da dire, in qualunque modo e in qualunque senso, a questo tempo così multiforme? Proprio il più nobile, dice Lei? Ma Stefan George è considerato il maggior lirico dei nostri giorni, sebbene intorno al suo nome si faccia poco rumore. Confonde Ella forse la gloria col rumore? Glielo domando, perché cita il caso di Emil Strauss, intorno al quale sarebbe calato il silenzio. Ma il silenzio intorno a un grande talento non significa necessariamente che esso sia misconosciuto: potrebbe anche essere il prodotto della sua natura, della sua volontà. L’amico Hein di Strauss ha destato una profonda impressione; le opere successive un po’ meno, ma è anche vero che, per quanto degnissime, non raggiungevano l’intensità di quel suo primo lavoro. Ma il valore di Strauss è universalmente riconosciuto, e il suo sessantesimo compleanno, dica ciò che vuole, è stato cordialmente festeggiato in tutta la Germania e anche all’estero. Crede forse che Strauss desiderasse una giornata più trionfale? Il silenzio, ripeto, può far parte di un temperamento, e non tutti hanno la bonarietà o l’ingenuo senso del dovere per lasciarsi festeggiare come Hauptmann. Ma un poeta come Strauss, insiste Lei, dovrebbe essere più ricco, più conosciuto, più esteriormente onorato. Certo, sarebbe desiderabile. Ma perché ciò avvenga bisognerebbe o che cambiasse lui, cosa che non possiamo augurarci, o che cambiasse il mondo, cosa che in verità potremmo desiderare per più di un motivo, ma che pure esitiamo a desiderare se pensiamo che di Jakob Wassermann, ad esempio, ha fatto un autore conosciutissimo, ben remunerato e letto con passione fin nelle due Americhe. Ne è responsabile lui? Ne è responsabile altrimenti che per la sua natura, che è tutt’uno con la sua volontà, con il suo talento, con i suoi rapporti col mondo? Non parlo affatto di differenze qualitative nella sfera dello spirito, che o non esistono o possono venir giudicate in modi del tutto opposti fra loro. Ma è indubbio che in Wassermann abbiamo un ingegno di tutt’altra aggressività, un artista ambizioso e di vastissimo raggio, una volontà narrativa di grande stile, un condensatore e raffiguratore di mondi sociali che, nella sua poderosa alacrità percorre l’intera orbita della vita moderna, uno scrittore di enorme capacità che a volte può sconfinare nella pura destrezza, ma che anche allora resta ammirevole e che, in tutti i casi, ha da offrire al mondo attrattive che non appartengono affatto al genio forse più puro ma indubbiamente più provinciale di Strauss, e che questi, anzi, non può nemmeno desiderare di possedere o di sviluppare in se stesso. Ora smetto di riferirmi a Strauss e a Wassermann, ma non è comunque difficile immaginare due ingegni l’uno dei quali è ricco di una bella freschezza naturale, ma ha in sé una certa angustia casalinga che non soddisfa in pieno la vastità di questo nostro mondo democratico; mentre l’altro, forse meno dotato di sorgiva naturalezza, più secco, più letterario, meno denso, attinge col suo vertice un livello europeo. Si ha il diritto di parlare di misconoscimento e di accusare il pubblico internazionale se è il secondo a godere di maggiore fama?
Poiché Ella, ormai, mi avrà giudicato un cinico, voglio confessarLe un’altra cosa: io credo che in fondo ciascuno riceva ciò che, nell’intimo, desidera (non già quel che erroneamente e impropriamente crede di desiderare), poiché è questo l’intimo volere che costituisce il nostro essere, al quale si aggiungono gli elementi reali che a esso convengono. Così la gloria, la risonanza esterna. Riesce Lei a immaginarsi D’Annunzio senza risonanza esterna? Lui stesso non v’è mai riuscito, e perciò gli è toccata in sorte. E’ una qualità che egli ha derivato da Wagner, derivata non in quanto l’abbia conosciuto direttamente, bensì tramite la critica di Nietzsche. Si ricorda di ciò che scrive Nietzsche sull’artista ambizioso, sul suo desiderio di “battere tutte le campane a un tempo”, ad esempio anche quella del proprio paese; ricorda ciò che dice della sua “doppia ottica”, del suo aver di mira i più raffinati e insieme i più rozzi? La gloria, il grande influsso esercitato si possono anche reinterpretare in chiave psicologica. Si dirà allora: “Costui desiderava conquistare anche i più sciocchi”. Ma qui, naturalmente, s’insinua un fattore erotico. Chieda un po’ a Freud o a Jung se il talento non è libido repressa, al pari della nevrosi, e se la massa e l’intensità del desiderio represso non è in preciso rapporto con gli effetti universali del suo equivalente. Pensi solo a Rousseau! Pensi a quel passo del Tristano in cui Wagner accentua musicalmente la parola “mondo” (“Allora io stesso sarò il mondo!”) col tema del desiderio. Chi al “mondo “ collega il tema del desiderio finirà per conquistarlo. Il mondo non lo misconoscerà, si “riconosceranno” l’un l’altro, il mondo lo stringerà tra le sue braccia di Astarte… La gloria è un’orgia, assai indecente tanto in senso borghese quanto in senso cristiano. Salute alla casta vitale del misconosciuto!
Smetto. Le ho già detto abbastanza. Invece di accontentarLa, invece di attenermi alla Sua semplice richiesta, mi sono addentrato in una metafisica della gloria, della cui problematicità sono convinto io per primo. Il diritto di citarLe dei nomi che vorrei vedere più grandi e più stimati, me lo sono ormai giocato, anche se la mia risposta non è stata un gioco ma il tentativo di dire ciò che, al momento, mi sembrava vero. Rileggo queste righe e mi accorgo di essermi fortemente compromesso. Ma non è la prima volta. Se le redazioni sapessero fino a che punto ci angustiano e ci sgomentano con le loro inchieste, certo… Certo le diramerebbero lo stesso.

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Thomas MANN
Da: Nobiltà dello spirito e altri saggi
Mondadori – I Meridiani
A cura di Andrea Landolfi



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