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Pompei, dopo il Vesuvio, il governo

Creato il 10 settembre 2012 da Albertocapece

Pompei, dopo il Vesuvio, il governoAnna Lombroso per il Simplicissimus

Chiunque abbia posseduto una vecchia 500 ormai innalzata a vettura storica, sa che la caratteristica delle Fiat di una volta e probabilmente anche di quelle di oggi è di reggere a intemperie e contrattempi per poi crollare improvvisamente con un sinistro rumor di ferraglie. Si dice che succeda così anche agli umani, uomini e donne che fronteggiano il tempo che passa con intrepida inossidabilità per poi dissolversi come una porcellana craquelé: resta per tutte la frase di Wilder su Bogart, peccato che l’abbia scritturato per Sabrina proprio nella settimana in cui è invecchiato.
Si vede che Marchionne è maestro di vita, si vede che la Fiat fa scuola, ed ecco che Pompei – ieri è stata la volta di una trave portante della Villa dei Misteri – che una volta liberata dalle ceneri aveva mantenuto per noi la sua prodigiosa essenza di vita, è uscita da quell’incantesimo di eternità conservata, per cadere a pezzi.

Non è colpa di un maleficio, ma del concorrere di condizioni climatiche cui governi ottusi guardano come a avvenimenti naturali e quindi inevitabili, insieme con fenomeni ancora meno naturali da cui gli stessi governi distolgono gli occhi con serena indifferenza: la mancanza di azioni di tutela a cominciare da quella elementare, primaria, quella pensata con molta ragionevole modestia da uno degli scopritori di Pompei, Amedeo Maiuri, l’ordinaria manutenzione. Le procedure erano semplici e i mezzi elementari: una squadra circolante che quotidianamente svolgeva ispezioni e attività di vigilanza, attraverso un piccone telescopico, in grado di sondare la tenuta delle pietre, e lo stato dei materiali. Se il piccone lanciava l’allarme si interveniva subito immediatamente con poche spese e forze ridotte.

Anni di irragionevole ricorso all’emergenza come sistema per imporre scelte autoritarie, investire di incarichi straordinari commissari speciali e spendere a spandere fuori controllo e legittimità quattrini di incerta origine e di sicura e opaca destinazione, ha fatto dell’ordinario, manutenzione o amministrazione, una pratica risibile, arcaica inadatta ai fasti della modernità del terzo millennio.
Forse perché anche Pompei diventi una smart city invece di mettere a punto un programma coordinato di interventi continuativi di custodia e conservazione Monti – disse anche in quel caso che non si poteva far finta di non vedere, e capirai se ti casca in testa una trave, c’è poco da far finta – insieme a 4 ministri presentò ad aprile un programma straordinario che proprio per la sua eccezionalità non ha avuto corso: la prima seduta per la valutazione dei progetti per le prime cinque domus pompeiane, presentati per le procedure di appalto, prevista per l’11 settembre, è stata spostata a data da destinarsi in quanto oggetto di ben 17 ricorsi. Ma i quattro dell’avemaria sono ottimisti: il meccanismo sia pur complesso è avviato dopo questa gara altre seguiranno e d’altra parte è come se ce lo chiedesse l’Europa che ha stanziato 105 milioni a valere sui fondi Fesr.
Eh si il piano è complesso: una Carta archeologica del rischio declinata su 4 linee direttrici e cinque piani esecutivi, altro che ordinaria manutenzione, peccato che secondo i tecnici della sovrintendenza quei 105 milioni siano poco più di una goccia nel mare: di euro ne servirebbero almeno 500 anche tenendo conto che il piano del Governo per Pompei investe poco più della metà dell’area considerata a rischio.

Il fatto è che anche in questo campo, anche trascurando la sconcertante inclinazione di Ornaghi a stare appartato, per lasciare campo libero al ministro dello Sviluppo – a Napoli alla presentazione del piano per Pompei sembrava l’uomo invisibile – il governo dei tecnici dimostra una singolare incompetenza proprio nella gestione dei problemi tecnici: come ha appena scritto il Simplicissimus a proposito dell’Alcoa, ben oltre il cinismo, ben oltre all’incarnazione di quell’autodissoluzione che anima il capitalismo contemporaneo, semplicemente non sanno far tornare i conti, non sanno fare i preventivi, non sanno trovare soluzioni né semplici né complicate, si contraddicono, si scavalcano, fanno passi falsi, pur di dimostrare ubbidienza cieca e assoluta ai loro padroni e alla loro ideologia.
Se Berlusconi ha deliberatamente ignorato la necessità della tutela e della produzione culturale così come dello sviluppo sostenibile, per favorire con la logica dell’emergenza, l’egemonia dell’illegalità funzionale a disegni e progetti personalistici, condoni, licenze, scudi, deroghe, la compagine governativa combina spocchia e inadeguatezza, arroganza e impotenza soprattutto nel misurarsi con la gestione ordinaria, quella che impone costanza, saggezza, oculatezza e senso pratico, intenta invece ai grandi disegni, le grandi opere, le grandi speculazioni, i grandi profitti, i grandi manager con grandi referenze di grandi multinazionali.

Tanto che se per caso si imbattono in un tecnico – vero – lo mettono da parte, per non cadere in tentazione di compiere scelte competenti e efficienti poco congrue con il delirio compulsivo e distruttivo, che sta muovendo le politiche economiche del mondo.
Da molte parti si è denunciato che tra le aberrazioni paradossali del governo tecnico di Mario Monti rischia di esserci la massiccia espulsione dei saperi tecnici dai ministeri, affidati al borioso controllo dispotico della casta burocratica e di “chiamati” provenienti dalla società incivile dei manager. La spending review ha infatti stabilito che i comitati tecnico-scientifici ministeriali in scadenza vengano soppressi: il che ha provocato la morte di tutti quelli del ministero per i Beni culturali, campana a martello che sembra annunciare l’eutanasia del dicastero, sommessamente e sobriamente promossa dallo stesso Ministro. L’estremismo contabile della spending review dà il colpo di grazia a un sistema già in agonia: soprintendenze massacrate nell’organico, tutela sacrificata al marketing della valorizzazione, finanziamenti sempre più ridotti, ministri incompetenti e ideologizzati, vocati al sacrificio dei beni pubblici e della loro tutela, anzi intenti alla loro distruzione. Così che una volta volontariamente compromessi, li si possa consegnare in affidamento totale e perenne ai privati.

E’ una ulteriore conferma che per il governo e per i partiti di sostegno, la Costituzione è proprio un fastidioso orpello. Anche quando parla di tutela del patrimonio artistico e culturale legandola indissolubilmente alla competenza e alla ricerca scientifica.
Proprio nel rispetto dell’articolo 9 della Costituzione (che integra obiettivi di salvaguardia alla ricerca e alla conoscenza) la rete delle soprintendenze si è sempre basato sul sapere scientifico, con qualche inefficienza, qualche “infedele”, qualche caso di cronaca, certo, ma fermo restando che per dirigere gli Uffizi sarebbe consigliabile uno storico dell’arte, e per il Colosseo un archeologo. Questo era il presupposto per il quale il ministero in passato, con la riforma Giannini, e ancora di più dopo l’eclissi bondiana , ha dovuto, e avrebbe ancor più dovuto, dotarsi di personale competente. Proprio questa era la funzione dei comitati tecnico-scientifici, organismi di consulenza alle scelte del Mibac e del ministro.
Ma ora a decidere se opere vulnerabili possono fare da globe trotter, a indirizzare le scelte dei piani città, a dire una parola decisiva sul destino delle biblioteche o sulla svendita delle pinacoteche sarà la struttura burocratica ricattata o prona al governo, infoltita da una cerchia di nominati dal ministro, il cui presidente annunciato pare sarà un filosofo del diritto, sempre meglio ma non poi tanto, del manager di McDonald, durato lo spazio di un mattino e poi auto dimissionato, perché per competenza l’arte gli piace sono tra due fette di pane e con molta mostarda.


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