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Premio Strega 2013: intervista a Paolo Di Paolo

Creato il 24 giugno 2013 da Sulromanzo
Autore: Daniele DusoLun, 24/06/2013 - 11:30

Premio Strega 2013Trent’anni e già nella cinquina dello Strega. Quali sono le sue sensazioni?

Dopo aver saputo di essere entrato nella cinquina dello Strega, la prima sensazione è stata di pura sorpresa. È stato un evento non solo lusinghiero, ma anche abbastanza inaspettato. Insomma, lo Strega è il premio letterario italiano più importante; ha premiato nella sua storia i migliori scrittori italiani, davvero, quindi, anche soltanto la sensazione di poter avvicinarsi, attraverso la cinquina, alla storia del premio Strega, per me è una grandissima soddisfazione. In un momento come questo, poi, un premio così popolare può dare voce e visibilità. Il periodo di visibilità in libreria si accorcia sempre di più, è chiaro che un premio dilata questo tempo, gli offre un’esposizione più ampia, e quindi di questo uno scrittore oggi può soltanto essere contento. Certo, nella storia si rimane soprattutto vincendolo, entrando nell’albo d’oro. Però, come ho già detto, sicuramente è importante essere anche solo all’interno della cinquina. Tra gli scrittori che non sono stati premiati per un soffio, nella storia, ci sono anche nomi di prim’ordine, per questo il risultato mi lusinga. Certo, questo risultato non ha un valore assoluto: dipende sempre dall’annata, dal fatto che le case editrici comunque intervengono nella scelta, però tutto sommato ritrovarsi, alla mia età, in questa che è la principale competizione italiana per me è già un ottimo motivo di soddisfazione.

Mandami tanta vita, pubblicato da Feltrinelli, sembra proporre un modello di intellettuale impegnato anche nell’azione politica. Ritiene che tale modello sia oggi ancora rintracciabile o che si possa soltanto narrare attraverso il recupero di exemplum del passato?

Non ho mai creduto nella letteratura programmaticamente impegnata. Non mi interessa l’idea di uno scrittore che si differenzia da un cittadino normale dicendo “io scrivo e perciò differisco nell’impegno”. Come un qualsiasi cittadino anche lo scrittore può, e deve, sentire una responsabilità nei confronti della realtà che osserva, e più invece di qualunque cittadino, come accade ai giornalisti, come accade a chi lavora con le parole, deve sentire il raddoppio di questa responsabilità; perché può tradurla in un racconto, può tradurla in testimonianza. L’“io faccio lo scrittore impegnato…” sembra sempre piuttosto una formula recitata, e quindi anche una formula ormai logora. Ha funzionato in alcune stagioni della nostra storia recente, ma oggi la vedo fuori tempo. Lo scrittore risponde a un senso di responsabilità nei confronti della realtà, e risponde a suo modo. Uno scrittore che non interviene direttamente sulla realtà, politica o sociale, non è meno interessante. Anzi, nel momento in cui affronta qualche dramma, che riguarda anche semplicemente l’emotività, sta comunque facendo il suo lavoro. Semmai la distinzione è tra chi scrive opere di puro intrattenimento e chi si occupa delle parole lavorando sullo stile e, più ancora che sullo stile, su una visione del mondo. Ci sono moltissimi libri oggi che producono storie simili a quelle prodotte da televisione e web. E addirittura capita che siano storie migliori proprio quelle che escono dalla televisione e dal web, che possono contare sulla forza delle immagini e addensano capacità diverse, come quelle degli sceneggiatori. Ma penso sia molto più interessante, e necessario, cercare nelle storie qualcos’altro, un’idea del mondo e quindi anche la responsabilità di decifrarlo, che ne deriva. La figura di Piero Gobetti, nello specifico, non era tanto interessante per il suo impegno politico. Egli è uno dei primi ad accorgersi della deriva autoritaria del Fascismo, e ne paga le conseguenze. Ma più interessante, di lui, è un’altra questione, che va al di là del dramma con cui finisce la sua storia, ed è la quantità di energia che lui, intellettuale, è disposto a spendere in un tempo che sembra difficile, ingrato e ostile. Oggi, siamo molto portati a pensare che nulla di quello che facciamo abbia una radicamento. Piero, in un tempo forse anche più ingrato del nostro, è disposto a spendere delle energie, senza chiedersi troppo quale sarà l’effetto del suo impegno. Allora mi sembrava interessante riproporre il bagliore di questa esperienza, proprio perché insegna ciò che dovrebbe essere un qualunque cittadino, non solo uno scrittore. Non possiamo misurare nel tempo della nostra vita l’effetto di quello che stiamo facendo, ma dobbiamo pensare che possa produrre qualcosa anche dopo di noi. E da questo punto di vista mi sembrava appunto istruttivo, anche non direttamente praticabile come modello, quello di un personaggio che infondeva la vita di ogni giorno di tanta voglia di fare, di lanciarsi, e di produrre con le parole.

«Combattevamo Mussolini come corruttore, prima che come tiranno; il fascismo come tutela paterna prima che come dittatura; non insistevamo sui lamenti per mancanza della libertà e per la violenza, ma rivolgemmo la nostra polemica contro gli Italiani che non resistevano, che si lasciavano addomesticare». Questo è il Piero Gobetti di Scritti attuali. Un grido di dolore che lei ha raccolto nel suo romanzo o un proposito programmatico d’intervento dell’intellettuale anche nella società contemporanea?

Penso che di Gobetti sia molto conosciuto il nome, ma ben poco la sua storia. Il romanzo è diventato per me l’opportunità di parlarne a un pubblico più vasto. Qualunque spia di autoritarismo, di limitazione della libertà, non riguarda solo il passato, ma  può riguardare anche il presente. Per questo uno scrittore può essere una sentinella. Se si guarda, ad esempio, al caso dell’odierna Ungheria, tanto per restare in un Paese europeo, è chiaro che la parola di un intellettuale, la capacita di analisi di un intellettuale, può riconoscere in un sistema apparentemente democratico la germinazione di un’antidemocrazia, di autoritarismo. E chi può denunciare tutto, chi può “dire”, è lo strumento della parola. Piero non ha potuto vedere tutta la parabola del Fascismo e della dittatura, ha semplicemente captato, ed è riuscito a denunciare le spie di una deriva autoritaria. È stato lungimirante ed è stato prezioso, perché ha messo in guarda anche altri intellettuali che non avevano la stessa percezione. Teniamo conto che negli anni Venti, quando Piero inizia a scrivere queste note sul Fascismo, molti intellettuali stavano ancora in una posizione di attesa. Parla di “autobiografia della nazione” molto prima di sapere quale sarà l’esito del Fascismo. 

Moraldo è, rispetto a Gobetti, l’esemplificazione di una vita ancora irrisolta, di un ragazzo che si muove ma in sostanza solo per amore, senza alcuna ragione politica. Esiste un parallelo tra il suo Moraldo e quello dei Vitelloni di Federico Fellini oppure è una fortunata coincidenza?

Molti mi hanno fatto notare questo riferimento quando hanno letto il libro, ma ammetto che io non ci avevo pensato molto. Semplicemente trovato famigliare il nome, e mi sembrava interessante proporlo anche perché avevo trovato una lettera indirizzata a Piero da uno sconosciuto Moraldo. Ero quasi alla fine del libro quando ho pensato che c’era una parentela con il film di Fellini, e con un personaggio che non riesce a decidere cosa fare della sua vita. Mi sembrata molto felice come corrispondenza, anche se in realtà l’atmosfera del film è molto diversa. Però noto una comune volontà di mettere a fuoco la figura del “perplesso”, di uno che non riesce a decidersi.

Giuseppe Iannozzi ha definito Mandami tanta vita un «romanzetto giovanilistico, uguale a cento altri nei secoli dei secoli». Secondo lei, basta veramente parlare di gioventù per essere giovanilisti?

Il lavoro che fate voi, e che fanno anche altri blog, è molto serio, è fatto con gli strumenti della critica. Quindi, anche laddove produce sensazioni negative su un libro, le spiega, le affronta in modo analitico, capita di trovare una conclusione non entusiasmante, ma suffragata da strumenti di critica letteraria. Penso che il blog di chiunque, il parere di chiunque, conta, anche se è negativo, ma solo se è motivato. Non parlo nello specifico di Iannozzi, ma sto registrando sempre di più un’attitudine istintiva a sparare a zero, senza motivare, facendo una critica quasi fine a se stessa dell’azione creativa. È difficile rispondere a una critica che muove solo da una sorta di malumore. Raccontare la giovinezza non significa fare giovanilismo. Tenderei a osservare che il mio libro non è un’esaltazione della giovinezza, ma tutt’al più un tentativo di metterla a fuoco. Non c’è alcuna esaltazione delle modalità espressive, del costume e delle mode giovanili, come ci si aspetterebbe da un libro davvero giovanilistico. È tutt’altro parlare della giovinezza con un esempio drammatico come quello di Piero. L’esempio di Piero, semmai, può fare da spinta ai giovani. Al di là dell’esito finale è interessante quello che accade nella vita di Piero, e quello che lui riesce a fare con le sue sole forze. È una spinta, un qualcosa che può far ragionare e pensare che, comunque, al di là delle difficoltà oggettive, i problemi possono essere superati con la sola forza di volontà.

Paolo Di Paolo, Mandami tanta vita, Premio Strega 2013
Ha intervistato Antonio Debenedetti, Dacia Maraini, Raffaele La Capria ed Elio Pecora. Hanno inciso sulla sua scrittura? E in quale modo è riuscito a non subire il loro fascino?

Io sono stato prima di tutto un lettore appassionato dall’idea di poter conoscere le persone che avevano prodotto quei libri. Incontrandoli, alcuni di questi autori, mi sono trovato in contesti in cui anche l’aspetto più brusco e disagevole è stato istruttivo. Ho trovato grande vicinanza con persone come Dacia Maraini. Anche laddove potevano nascere dei dissensi questo comunque è stato molto utile. Nel caso di Tabucchi, ad esempio, inizialmente mi colpì il suo aspetto di maestro burbero, persona che poteva essere anche umorale, difficile da avvicinare perché poteva dirti delle cose molte dure. Una durezza che poi mi si è rivelata molto utile a posteriori. Per me, è stato sempre molto affascinante pensare che stava accadendo a me quello che accadeva a chi andava a bottega dai pittori, nel Rinascimento. Allo stesso modo trovo sia un esempio produttivo, nella nostra quotidianità, ora che siamo meno disposti di un tempo a credere al valore e al senso del magistero, e siamo meno pronti a riconoscere i maestri come interlocutori più adulti e più attrezzati. Parliamo di solito su un piano individualistico, e in effetti è raro che oggi si pensi anche a una staffetta, a un rapporto con un maestro. C’è poco dialogo all’interno della stessa generazione, più difficile ancora quello con le generazioni precedenti. Per me, invece, era importante vedere come fosse possibile creare un ponte con chi aveva attraversato più soglie. Avevo anche la curiosità di capire con quali stati d’animo, con quali difese si va avanti nel tempo, nonostante le difficoltà e le delusioni. Ecco, sicuramente nella mia scrittura ha inciso maggiormente Tabucchi. L’avevo letto con grande passione e trasporto, negli anni del liceo, e mai avrei potuto nemmeno immaginare che avrei avuto, un giorno, la fortuna non solo di incontrarlo, ma addirittura di lavorarci assieme, come è avvenuto, e di frequentarlo moltissimo e diventargli amico poi negli ultimi anni. Sì, a Tabucchi devo molto.

Come si preparerà per la serata finale del Premio Strega?

Essere arrivato nella cinquina è tutto, come ho detto per me era questo il traguardo vero, che naturalmente non è dipeso solo da me, ma  anche dall’investimento della casa editrice. Ora mi preparo al gran finale con l’idea che possa rivelarsi una gara prevedibile, ma convinto che ci possano essere anche delle sorprese. Certo, tutto quel che succederà sarà un di più, e in ogni caso sarà a vantaggio della visibilità del libro, che avrà la possibilità di arrivare a più lettori. Mi avvicino con grande ansia, perché non nascondo che c’è una pressione psicologica e anche mediatica. Già il periodo precedente, prima della cinquina, è stato abbastanza carico di ansia, ma penso succeda soprattutto a chi, come me, non è così attrezzato. Certo, ci sono stati il Mondello e il Vittorini, vinti l’anno scorso (con Dove eravate tutti), ma qui siamo su un piano di visibilità molto più alta. E anche per questo penso di dovermi preparare, collegandomi al discorso fatto su Iannozzi, ad essere esposto a un profluvio di malumori e di critiche. Ma ripeto, essere tra i cinque finalisti, per me, è già una vittoria. 

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