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Psicologia geopolitica clinica. Impatto delle violenze della storia collettiva sui singoli individui

Creato il 11 giugno 2012 da Raffaelebarone

Le violenze della storia collettiva hanno un forte impatto sulla psicologia dei singoli individui. Generano sofferenze psicologiche, psicopatologie o socio patologie gravide di conseguenze individuali e collettive. Questi disturbi non sono riducibili alle abituali forme di psicopatologia che scaturiscono dalle problematiche legate alla prima infanzia; sono indotte deliberatamente dalla dimensione politica. Questi sono gli argomenti trattati nel testo di Françoise Sironi “Violenze collettive” edizione Feltrinelli.

Con la fine dei sistemi totalitari e la caduta dell’impero sovietico è crollata anche la modalità di strutturazione del pensiero secondo un sistema binario. La fine dei due blocchi, Est e Ovest, ha riportato alla ribalta un’altra dicotomia, l’opposizione fra universalità e particolarismi. Oggi la fine della contrapposizione binaria permette di pensare la molteplicità. Viviamo ormai nell’era globale. La coesistenza delle molteplici eterogeneità umane, religiose, politiche e culturali però non va da sé. Come ogni cambiamento radicale, la globalizzazione degli scambi, delle pratiche, dei saperi, al pari della circolazione planetaria degli esseri umani, può generare al contempo miglioramenti e peggioramenti. E’ innegabile che un mondo nuovo è in costruzione. In psicologia, come altrove, dobbiamo accrescere la complessità dei nostri punti di riferimento teorici e ragionare  in una nuova dimensione, al tempo stesso globale e locale. Ormai  problemi degli esseri umani, la loro psicologia, possono essere compresi in modo adeguato se si integrano i parametri culturali, quelli geopolitici e le tracce a lungo termine impresse dalle violenze collettive sulla storia degli uomini e dei popoli.

La psicologia geopolitica clinica, nata dall’etnopsichiatria, analizza e costruisce soluzioni concrete  relative alle problematiche cliniche e patologiche che emergono nei luoghi di interfaccia fra i mondi: -Pratiche cliniche che vengono esercitate in Occidente presso le popolazioni migranti o le popolazioni culturalmente, socialmente o politicamente emarginate. – Pratiche cliniche e terapeutiche rivolte a popolazioni che hanno conosciuto un massiccio processo di deculturazione a causa di guerre, invasione del loro territorio o attacchi ai loro oggetti culturali. – Pratiche cliniche e terapeutiche nel quadro delle azioni umanitarie a carattere psicologico attuate in seguito a conflitti in diverse aree geografiche del pianeta.

La psicologia geopolitica clinica è un approccio delle scienze umane che ha l’obiettivo di osservare, descrivere, analizzare, teorizzare e trattare  l’effetto “normale”, “psicopatologico” o “sociologico” dell’articolazione fra storia collettiva e storia individuale su ciascuno di noi e su un intera società. E’ una pratica impegnata. “La società non può rispondere con cortese accoglienza alla spregiudicata messa a nudo delle sue insufficienze e dei danni che essa stessa produce.” (Freud 1910). La psicologia non mette sotto accusa la realtà sociale o politica contemporanea, piuttosto ne constata, caso per caso, i “danni” sui singoli individui. Si propone di determinare con precisione le modalità di azione e l’impatto dei fatti politici e sociali sulla psicologia individuale. A questo fine la psicologia geopolitica clinica è in interazione costante e fluida  con diversi campi disciplinari. E’ una psicologia delle interfacce, sia nel rapporto con le discipline cui fa riferimento (scienze politiche, psicosociologia, psicoanalisi, neuroscienze, storia, antropologia..), sia nei suoi campi d’intervento (pazienti deculturati, disturbi delle identità culturali, delle identità di genere, traumi intenzionali dovute alle violenze collettive di natura politica, culturale o economica..). C’è un’isomorfia formale fra psicopatologia individuale e sociopatia (o sociopatologia) all’interno di una stessa società. Per questa complementarietà di fondo la psicologia geopolitica clinica è un vero approccio transdisciplinare sul campo. Procede, caso per caso, alla messa in sinergia di diverse discipline. Da un punto di vista tecnico, l’analisi del materiale e delle situazioni viene effettuata attraverso processi successivi di decostruzione e nuova analisi. Il terapeuta che interviene in questo campo psicologico è egli stesso molteplice e fluido. Accetta di essere modificato dalla complessità dei punti di vista e dei registri professionali: e “clinico sul campo” e “teorico della clinica”. La sua riflessione è più ampia di quella prodotta  dai campi perfettamente circoscritti dalle discipline, a causa della necessità che egli ha di adattarsi al carattere complesso (nel senso della molteplicità delle determinanti che agiscono in sinergia) della realtà clinica osservata.  Un essere umano non è riducibile alle sue componenti intrapsichiche né alle sue componenti psicopolitiche, sociali, culturali.. E’ tutto questo contemporaneamente. E’ preferibile che la riflessione e l’azione siano condotte dallo stesso attore, al fine di evitare due trappole: da una parte la fabbricazione di soluzioni sganciate dalla realtà, dall’altra la mancanza di una sufficiente generalizzazione. Le culture sono delle forze locali che vanno considerate seriamente. Sono spesso in forte opposizione con le teorie contemporanee veicolati dai professionisti della cura. Il paziente può diventare campo di battaglia di giochi contraddittori. Si commette un errore logico quando si applicano interpretazioni psicologizzanti (problemi della prima infanzia, conflitti relazionali, carenze affettive precoci..) a fatti che richiedono in realtà letture e interventi complessi. Questi fatti devono essere presi in esami in seno a un dispositivo terapeutico capace di farli emergere e di identificarli. E’ il tipo di dispositivo costruito dall’etnopsichiatria clinica. Le teorie dei terapeuti, entità non visibili, ma attive, hanno un forte potere di strutturazione delle cure e delle politiche sanitarie e sociali. Hanno delle intenzioni, producono effetti psicologici visibili. E a volte producono incomprensioni culturali, recalcitranze geopolitiche  e possono rientrare nel campo di quello che viene chiamato maltrattamento teorico.

Le pratiche cliniche devono essere continuamente reinventate, alla luce della realtà emergenti e delle nuove psicopatologie prodotte dal mondo. Bisogna costruire nuove teorie psicopolitiche che pensino il mondo e gli interventi clinici nella loro articolazione. L’insieme delle frontiere, delle interfacce, delle sovrapposizioni di mondi costituirà la nuova territorialità contemporanea del pensiero e delle pratiche umane su scala mondiale.

Questo approccio pone i fattori collettivi, geopolitici al centro della pratica terapeutica. Di qui la necessità di avere al tempo stesso una solida formazione nelle teorie psicologiche cliniche (etnopsichiatria, psicodinamica, psicoanalisi, teorie cognitive, neurofisiologiche..) e una buona conoscenza delle  discipline antropologiche, storiche e politiche, ma anche economiche e giuridiche, nella loro dimensione internazionale. Le teorie psicologiche non sono mai neutre. Sono determinate culturalmente, storicamente e politicamente e sono iscritte in contesti sociali precisi e di ciò che emerge nei luoghi di interfaccia fra mondi culturali, comunitari, sociali, religiosi e politici.

Oggetto della psicologia geopolitica clinica è inoltre lo studio e l’impatto che hanno sugli individui e sui gruppi (famiglie, clan, società, abitanti di una regione..) i fenomeni geopolitici propriamente detti. Oggetto della geopolitica sono la comparsa di nuovi stati, il tracciato delle loro frontiere, la scomparsa di popoli e di nazioni, i conflitti territoriali, l’espansione di certe ideologie politiche e religiose e le rivendicazioni d’ indipendenza. La geopolitica riguarda anche i problemi anche a uno stesso stato, le rivendicazioni territoriali, culturali, religiose che emergono al suo interno, e anche la geografia delle circoscrizioni elettorali.

Il termine “geopolitica” comparve per la prima volta nel 1904 negli scritti del geografo svedese Rudolf Kjellèn. Riprese poi il termine  nel 1916 nel libro intitolato Der Staat als Lebensform (Lo stato come organismo vivente). Dopo il 1945 il termine “geopolitica” fu proscritto perché, nel momento in cui si inaugurava l’era dei due blocchi (Est/Ovest), l’importante era evitare  qualunque cosa che rischiasse di indebolire l’unità di ciascuno. Nel campo socialista gli stati venivano proclamati fratelli del socialismo. Di conseguenza bisognava vietare la geopolitica perché  si occupava fra l’altro delle rivalità  territoriali che potevano aver opposto gli uni agli altri popoli fratelli, rivalità che ora dovevano dimenticare per sempre. All’Ovest era altrettanto poco opportuno evocare la geopolitica a causa delle liti territoriali. Antichi conflitti dovevano apparire secondari e superati. Contava solo l’opposizione planetaria fra due visioni del mondo. Solo dopo il 1985 il termine geopolitica ha avuto grande diffusione. Dopo la perestrojka divenne sinonimo di un nuovo modo di vedere il mondo. In seguito al crollo dei regimi comunisti si sono moltiplicate le rivendicazioni di indipendenza nazionale , le nuove alleanze, le nuove ripartizioni, e sono emerse numerose rivendicazioni etniche, culturali, religiose.

La psicologia geopolitica clinica contribuisce anche all’analisi delle persone (uomini politici, rivoluzionari, dittatori..) che influenzano la vita collettiva e che inducono comportamenti psicopolitici specifici.

Gli individui che sviluppano problematiche psicologiche e psicopatologiche specifiche nei luoghi di incontro fra i mondi culturali, politici, sociali o religiosi sono veri testimoni o portavoce dei disagi collettivi contemporanei o in divenire. Essi rendono evidente qualcosa che, di solito, nei sintomi individuali è ancora nascosto. Sono messaggeri di problematiche culturali o sociali emergenti. Dobbiamo guardarci bene dallo psicologizzare tutte le problematiche contemporanee, riducendo a determinanti individuali qualcosa che invece appartiene alla storia collettiva. Questi “pazienti” preannunciano in maniera esemplare un nuovo modo di classificare la realtà (identità di genere), nove rivendicazioni, nuove forme di divenire. Pagano a caro prezzo la loro posizione di messaggeri.

Le violenze collettive, le emozioni politiche, la storia sociale e politica esercitano un’influenza forte e duratura sugli individui e sui popoli.  La psicologia geopolitica clinica studia le problematiche psicologiche che possono essere di varia origine e natura: -Possono  nascere da esperienze di acculturazione (dovute alle migrazioni, ai meticciamenti, ai viaggi planetari) o di deculturazione (dovuti ai conflitti con una forte componente etnica o religiosa). Tali problematiche danno origine  a psicopatologie specifiche: traumi psicopolitici, disturbi dell’identità culturale, inibizioni psicosociali, depressione..

-Possono essere conseguenze individuali e collettive del mancato adattamento all’accelerazione  del tempo e alle neo-tecnologie che creano  nuove sinergie uomo-macchina. Generano psicopatologie legate allo stress, organizzazioni  traumatiche della personalità, depressioni e malattie psicosomatiche.

Tenuto conto del suo campo d’intervento, la psicologia geopolitica clinica è una psicologia che agisce nel mondo e sul mondo. Non è solo una psicoterapia, ma anche una socioterapia. Il suo metodo è la ricerca-azione. Si propone di studiare non solo dei campi dati, ma anche (se non soprattutto) la deformazione impressa da questo approccio al fenomeno studiato.

La globalizzazione, le situazioni di interfaccia fra i mondi sociali, filosofici, commerciale, culturali, politici sono veri e propri osservatori della post-modernità. La globalizzazione e la fine dell’era dei due blocchi contrapposti produce nuove suddivisioni geopolitiche e una densità di scambi di idee, di saperi, di competenze, di merci e di contatti mai raggiunta prima, in particolare grazie all’impiego di internet e alla velocità dei trasporti. Queste dinamiche stimolano un nuovo tipo di operatore: il “diplomatico”. Non si tratta di diplomatici di mestiere, ma di diplomatici di natura, per il posto che occupano nei luoghi di interfaccia fra i mondi. Sono esseri cosmopoliti e post-moderni, legati al loro mondo di appartenenza e al tempo stesso fluidi, capaci di circolare attraverso la grande diversità dei mondi e delle culture. In psicologia, il terapeuta che adotta la posizione del “diplomatico” agisce mettendo la molteplicità dei mondi al centro della sua pratica clinica, senza per questo perdere la sua cultura, le sue costruzioni identitarie.E’ capace di decentrarsi senza fondersi nell’identità dell’altra. Il diplomatico deve accettare la paura associata al rischio di tradimento che implica il suo mandato. Il personaggio del diplomatico è quello che viene a situarsi nel cuore stesso del fraintendimento culturale, ma non si perde in esso. Per sua natura è un essere molto composito. E’ attraversato dalla questione della diversità dalla molteplicità delle appartenenze culturali, religiose, politiche..Viene qui la sua familiarità con l’estraneo e con l’estraneità. Il paradosso è una caratteristica naturale del personaggio del diplomatico. Questi riceve mandato (coscientemente o all’insaputa delle due parti) da un gruppo con cui in genere non è interamente d’accordo (gruppo professionale, culturale, familiare..) come è logico, visto che non appartiene a nessun gruppo, ma si colloca in una posizione di lealtà con ciascuno di essi. Il diplomatico è un passatore di mondi. Produce una nuova realtà facendo resistenza agli egemonismi. Infine è un essere delle frontiere, un meticcio culturale. E’ incarnazione della molteplicità e della costrizione di creare. Il personaggio del diplomatico emerge in un contesto di guerra potenziale, di tensione fra i mondi. Il suo principio fondatore è la reciprocità dei mondi. Sa che la negoziazione  permanente fra le forze in campo è ciò che garantisce un vero universalismo.

Pensare e trattare i disturbi psicologici, culturali, politici e sociali direttamente legate alle violenze collettive, alle nuove migrazioni planetarie, alle trasformazioni ideologiche e tecnologiche e alle recalcitranze che esse inevitabilmente generano, diventerà una delle principali sfide delle pratiche cliniche contemporanee. Dobbiamo costruire nuovi paradigmi etici a partire dalle specificità culturali locali non ignorandole. E’ possibile che le teorie , le pratiche, le rappresentazioni “locali” non si oppongono alle teorie e pratiche globali. Si tratta di cercare , a volte di inventare soluzioni concrete per ogni sorta di problemi nuovi, tenendo conto però di un’etica integrativa, garanzia di un approccio intelligente e umanistico. Vivere insieme rispettando le differenze è una delle principali sfide che si trovano di fronte oggi gli stati e gli individui.

L’integrazione  della dimensione globale e della dimensione locale, in scienze umane e in altri ambiti, diventa allora garanzia di un nuovo umanesimo capace di opporsi ai fanatismi politici e religiosi contemporanei.


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