Magazine Cultura
In uno dei primi viaggi a New York ho visitato il museo dell’immigrazione di Ellis Island. Più un obbligo morale che una visita di piacere, come quando i nostri passi ci portano in un luogo segnato dalla memoria del dolore.Mi è rimasta impressa una piccola storia riportata in un quaderno tradotto in italiano e visibile su uno dei diversi computer a disposizione. Si è piantata dentro di me, questa storia, e rispunta ogni volta sulla mia rabbia e sul mio dolore. Non è nemmeno più terribile delle tante storie di emigrazione che ho sentito o letto, però ogni volta mi commuove. Due persone sono davanti al commissario della dogana. Un italiano, un calabrese e suo figlio. Il padre è vestito male, una grande testa poggia su un corpo stanco ed emaciato. Gli occhi evocano la terra perduta e il sole della Calabria. Accanto a lui c’è un figlio coraggioso, ben vestito e con gli occhi che guardano diritto. Si capisce che ha studiato. "Chiedete loro perché sono venuti", dice il commissario piuttosto bruscamente. La risposta è : "Abbiamo dovuto""Qual’era il suo business in Italia?" "Bracciante.""E il figlio?""E’ andato a scuola, finché abbiamo potuto.""Che cosa si aspettano di fare in America?""Lavorare."Il commissario confabula con i suoi uomini e alla fine si rivolge sbrigativamente all’interprete. "Chiedete loro se sono disposti a essere separati, il padre a tornare indietro e il figlio a rimanere." Si guardano l’un l’altro il padre e il figlio, nessuna emozione è ancora evidente, sono storditi, inebetiti dalla richiesta. Poi qualcosa si muove nelle loro facce e il padre, che si sente abbandonare la vita, dice sottovoce, eppure tragicamente: “Naturalmente"E il figlio dice, con gli occhi a terra perché si vergogna di cercare suo padre in faccia: "Certo""Questo resta e l’altro torna a casa".Così dispone il commissario. Senza nemmeno vagamente sospettare che per due persone questo è stato il giorno del giudizio universale, quello atteso e temuto nei giorni di rabbia.
Ellis Island e più lontano la statua della Libertà. Una speranza oltre la lunga trafila burocratica, i controlli di polizia, le umiliazioni e per alcuni anche la morte nel cuore. Ma qui, vai a capire cos’era l’Argentina per i nostri emigrati. Il mio nuovo amico qualche risposta ce l’ha."Dopo tanto e tanto mare, durava più di venti giorni il viaggio, finalmente si respirava il leggero senso della speranza, la percezione di una libertà che doveva essere lì, alla portata di mano, ma che nessuno ti avrebbe regalato. Andava presa, conquistata giorno dopo giorno. Gli emigranti si rendevano conto di essere giunti nell'America com’era e non come l’avevano sognata. Ma la speranza era tanta e la fame a casa ancora di più". Tito Barbini "Il Cacciatore di Ombre"
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