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Quando un film è ancora soltanto fatica e gioco, amore e musica

Da Matteotelara

Unknown

Un film lungo 50 anni: Marina Piperno & Luigi Faccini

Dal 25 al 28 marzo, a Roma, presso il Cinema Trevi, si terrà una retrospettiva sulla produttrice cinematografica Marina Piperno e sul regista Luigi Faccini
Per maggiori informazioni potete cliccare qui.

Vi propongo il testo che mi è stato chiesto di scrivere per il catalogo ufficiale della retrospettiva e che è incentrato sul backstage di Giamaica, lungometraggio girato dal regista nel 1998.

Quando un film è ancora soltanto fatica e gioco, amore e musica

Comincia con la musica di Livio Bernardini, Antonio Lombardi ed Egildo Simeone questo backstage di Giamaica e la scelta del regista di privilegiare la musica come cadenza narrativa primaria non è per nulla casuale. Parlare di colonna sonora è infatti nel caso di Luigi Faccini sempre riduttivo, se non addirittura fuorviante, perché in ognuno dei suoi lavori (nei lungometraggi come nei corti, nella cosiddetta fiction come nei documentari antropologici) la musica assume ogni volta un ruolo di vera e propria cellula generatrice della tensione drammatica: c’è musica perché la realtà delle persone di cui si parla è fatta di musica, perché musicali sono le loro parole, le loro azioni e le loro storie. I film che ne sono espressione, di conseguenza, vivono di quelle musiche. E se Morando Morandini aveva definito Notte di stelle “struggente e stridente come un blues metropolitano”, Michele Anselmi arriverà a scrivere che la musica di Giamaica “nella sua dimensione tonale svolge una funzione protettiva, mentre si carica di presagi funesti nelle sue variazioni atonali”. In questo senso, allora, la migliore qualità di Via Lumière angolo Méliès, backstage montato da Sara Bonatti sotto la supervisione dello stesso Faccini, è quella d’aver saputo mantenere vive e pulsanti, nelle loro più profonde implicazioni, tali caratteristiche. “Dedicato ad un ragazzo che aveva un  sogno”, nella fattispecie ad Auro Bruni, un giovanissimo romano di pelle nera, figlio di una eritrea e di un italiano, morto bruciato in un centro sociale da assassini rimasti sconosciuti, Giamaica era  stato scritto e girato da Luigi Faccini per adempiere ad una promessa fatta a chi gli aveva presentato quel ragazzo, affinché partecipasse a Notte di stelle quale campioncino di breakdance. Quando Giamaica uscì, nel 1998, non furono pochi i critici che si accorsero dell’equilibrio tra il prelievo antropologico dalla realtà e il racconto espressionista che ne inondava le immagini, rendendole al tempo stesso uno scomodo richiamo al degrado delle nostre periferie urbane e un canto amorevole e partecipato delle loro potenzialità. Roberto Silvestri, sul Manifesto, scrisse “Il film respira, danza, ama, ha pietà. Un oratorio atonale, una suite free jazz, un requiem non consolatorio, un musical politico con il ritmo di un rito sacro”. L’opera, presentata come Evento Speciale al 51° Festival Internazionale del Film di Locarno, corredata del concerto live delle musiche appositamente composte, venne mal distribuita da Mikado, come spesso succedeva ai film italiani inseriti nel suo listino, e subì una circolazione limitata nonostante la segnalazione prestigiosa del SNCC (Sindacato Nazionale Critici Cinematografici) e il Premio Tertio Millennio del Vaticano, divenendo, come il personaggio di cui ‘canta’ la morte e la ricerca degli assassini, una sorta di ‘mito’ della cultura underground: conosciuto e apprezzato dai frequentatori delle sale indipendenti e dei centri sociali, ma praticamente sconosciuto al grande pubblico. Girare un film esclusivamente di notte e in presa diretta, con i “ragazzi di strada” che già avevano interpretato Notte di stelle, e quindi provenienti dalla realtà da cui il film stesso ebbe origine, era già di per sé un’impresa che in pochi si sarebbero sentiti d’affrontare. Se poi a queste caratteristiche aggiungiamo le ragioni che spinsero Faccini a scrivere e a girare Giamaica, diviene facile capire come questa pellicola abbia rappresentato e tutt’ora rappresenti un caso unico nel panorama cinematografico del nostro paese. Luciano Barisone ne parlò come di “una meteora devastante nel cielo del cinema italiano” e Paolo Mereghetti come di “un film profetico”.
Già in un articolo del 1990 il regista dichiarava di voler coniugare, nel suo cinema, Lumière e Méliès, realizzando film con persone e storie prese dalla realtà “con l’ambizione che la mia immaginazione e la loro vita si saldino e partoriscano un film che appartenga a loro quanto apparterrà a me”. Via Lumière angolo Méliès è quindi fin dal suo stesso titolo indicativo e rivelatore di questo approccio. Non a caso Faccini realizzò negli anni Novanta Notte di stelle e Giamaica, in cui confluiscono un misto di previsione e di improvvisazione e che trovano nella compresenza di Lumière e Méliès la chiave della loro riuscita. Sono infatti proprio le voci dei ragazzi protagonisti di Giamaica, oltre a quelle del regista e della produttrice Marina Piperno, ad occupare la sezione centrale del backstage. Nelle loro parole e nel loro rapportarsi ad una storia che a loro appartiene e che è stato loro chiesto di mettere in scena, è forte l’idea di un cinema che porti al pubblico notizie da un mondo normalmente ignorato. E mentre Marina dice che ha fatto il film «per amore della vita», Luigi afferma di voler fornire «istruzioni per l’uso della vita» ai giovani delle periferie, affinché passino «dall’aggressività all’affettività, dalla violenza alla creatività».
«La bellezza di questo film», dice uno dei protagonisti, durante una pausa delle riprese, «è che le situazioni in cui veniamo a trovarci sono cose che esistono. Magari non s’incontrano tutte nella stessa notte, però ci sono». E ancora: «’sti cinque ragazzi, ognuno con le proprie prepotenze, ognuno con le proprie violenze, alla fine diventano un gruppo affiatato, che sa voler bene, che sa cos’è l’amicizia». O infine: «Imparamose a parla’, armeno tra de noi. E lì so’ sicuro che riusciremo a costrui’ quarcosa».
Ecco qui esplicitate quella “poetica dell’incontro” e quell’opposizione alla “logica della riserva” che caratterizzano da sempre il cinema del regista ligure: Faccini, come i suoi personaggi, si muove sempre alla ricerca di una soluzione che non comporti la perdita della propria diversità e che non determini la rinuncia alla propria e all’altrui libertà.
La storia di Giamaica (e Via Lumière angolo Méliès riesce a dircelo in maniera diretta, senza tutti quei filtri che, in una maniera o nell’altra, il cinema continua ad avere) può essere intesa come la riscoperta del dialogo e dell’importanza della comunicazione: «ma che se deve mori’ per sape’ come ce se chiama?», dice uno dei giovani protagonisti in una delle scene chiave del film, non a caso riproposta anche nel backstage.
Girato nella periferia di una metropoli notturna ferita e palpitante, Giamaica partiva da un fatto reale per divenire la metafora di un processo di crescita e autocoscienza, nel quale la ricerca degli assassini di un ragazzo conduceva, nelle parole del regista stesso, «ad un conoscersi più profondo e alla nascita di un’amicizia». Seguace di Jean Rouch e dei canadesi, soprattutto il Perrault di Pour la suite du monde, Faccini è uno dei pochissimi registi al mondo in grado di saper fare film di ricerca attraverso la fiction nella stessa misura in cui riesce a fare fiction dentro un film di ricerca. I suoi film, in una maniera o nell’altra, portano sempre a quella scoperta di sé che segue ogni viaggio, che conclude ogni riflessione, e che contiene ogni creazione: rinvenire queste caratteristiche nella maniera onesta e priva di maschere con cui i ragazzi protagonisti di Giamaica parlano della realtà da cui provengono è cosa rara da trovare, sugli schermi cinematografici come su quelli televisivi.
Come si arrivi a tutto ciò è il mistero che rende un autore quello che è e le sue opere capaci di emozionare e far riflettere.
Il backstage, in maniera essenziale e sostenuto da una musica che non ne abbandona mai le immagini, fa questo e molto di più: mostra, o meglio fa intuire allo spettatore la quantità smisurata di lavoro che sta dietro al film, i rapporti che si instaurano tra chi sta al di qua e al di là della macchina da presa, la componente tecnica (le lunghe sedute di trucco per rendere il corpo bruciato di Mauro), il lavoro sulle luci (la centralina che scandisce a tempo di musica i gialli, i rossi e i verdi della Giamaica), i momenti di relax, le parole di Marina Piperno, che eroicamente produsse il film, e quelle dello stesso Faccini, che più di una volta ha sottolineato come la migliore qualità di una pellicola risieda nei rapporti che si instaurano al di qua della macchina da presa, perché sul set accadono cose talmente forti che sarà poi impossibile ritrovarle sullo schermo. Tali ‘cose’ hanno a che vedere con la componente ‘erotica’ della macchina cinematografica, ovvero col possesso e con la scrittura dell’altro da sé che del film diventa l’oggetto e il protagonista. Ma per possedere e scrivere occorre prima di tutto instaurare un rapporto che non coinvolga l’attore quanto la persona che deve dargli vita, far sì che il proprio progetto sia l’altrui progetto, motivo a sua volta di ricerca e messa in discussione.
Per chi conosce la storia cinematografica di Luigi Faccini è facile rinvenire in Via Lumière angolo Méliès, come in Giamaica, tutto il lavoro di ricerca e preparazione fatto dal regista nel 1990, tra il carcere minorile di Roma e il Centro di Integrazione Sociale di Tor Bellamonaca, dove l’incontro con i ragazzi delle periferie e coi loro linguaggi era divenuto, grazie anche all’uso della macchina da presa, uno stimolo a prendere coscienza di sé e delle ragioni che ne avevano determinato le scelte, per poter così scoprire, eventualmente, nuove possibilità di vita e di riuscita. Ma realizzare Giamaica non fu facile. Nel backstage il regista lo dice ancora una volta con grande chiarezza: «Nel ’91 ho fatto Notte di stelle e nel ’92 ho scritto questa storia, ma ci sono voluti cinque anni per mettere in piedi il film dal punto di vista finanziario. Lo devo a Marina Piperno, alla sua ostinazione nella ricerca del denaro, se sono arrivato alla fine delle riprese». Sono passati molti anni ed oggi, nel 2014, la questione razziale, come quella dell’integrazione e della violenza delle periferie urbane, lungi dall’essere stata risolta, è andata addirittura inasprendosi. Ascoltando le voci e guardando le immagini e udendo la musica di Via Lumière angolo Méliès, viene spontaneo chiedersi che fine abbiano fatto i ragazzi di Giamaica, e se siano riusciti o meno a difendere, dagli attacchi di una politica e di una cultura votate alla marginalizzazione delle minoranze, quella presa di coscienza di sé e delle proprie possibilità che questo film ha rappresentato per loro, e che avrebbe potuto rappresentare anche per noi. Grazie a Faccini e al suo amore per il contatto diretto con le persone e le loro storie, grazie al suo istinto ad immergersi in profondità nelle strutture del reale e nelle zone d’ombra del sociale, le sue opere si nutrono della realtà per cambiarla nel momento in cui ce la restituiscono, non permettendo che il ‘dopo’ resti identico al ‘prima’, e per fare di noi stessi il perno del nostro divenire, sempre e comunque in meglio. A quindici anni di distanza dalla sua uscita, Giamaica dimostra di essere ancora una pellicola di grandissima attualità, “una moderna parabola che assume i toni del musical”, come scrisse Enzo Natta su Famiglia Cristiana, un’opera dal grande fascino visivo che farebbe piacere vedere nuovamente distribuita nelle residue sale italiane, come purtroppo non avverrà. Nel mattatoio Italia non è soltanto il cinema ad essere squartato…


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