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Quanto è pubblico questo servizio?

Creato il 11 giugno 2012 da Bagaidecomm @BagaideComm


Quanto è pubblico questo servizio?

Giovedì sera si è chiusa la prima stagione di “Servizio Pubblico”. Al di là dell’ opinione che ognuno di noi può avere di Michele Santoro, si può sicuramente dire che il suo esperimento ha funzionato: riuscire a fare il 7% di share su un canale televisivo che non esiste (è stata creata ad hoc una piattaforma di TV locali) è qualcosa di eccezionale. Questo fantastico progetto credo sia il miglior punto di partenza per analizzare il vasto panorama dell’ informazione in Italia. In ambito televisivo è superfluo ogni discorso: sui 7 canali principali, 3 sono di proprietà di Silvio Berlusconi, uno è di proprietà di Telecom Italia e 3 sono gestiti da funzionari nominati dai partiti con metodi non proprio trasparenti. Ma preoccupante è soprattutto la situazione della carta stampata. Anche perché nessuno, a differenza di quanto è successo per la televisione dove qualche timida protesta c’ è stata, ha mai sollevato la questione. Innanzitutto andiamo a vedere chi c’ è dietro i principali gruppi editoriali:

  • R.C.S. (Corriere della Sera): il numero di azionisti è corposo ma sicuramente spiccano i nomi di Rotelli, Agnelli, Presenti, Della Valle, Ligresti, Tronchetti Provera, Benetton e, attraverso il solito gioco di scatole cinesi, Berlusconi;
  • Gruppo Editoriale L’ Espresso (La Repubblica): azionista di maggioranza è Carlo De Benedetti;
  • Editrice La Stampa (La Stampa): famiglia Agnelli;
  • Confindustria (Sole 24 Ore): si vedano i nomi di cui sopra;
  • Editoriale Libero (Libero): famiglia Angelucci;
  • Società Europea di Edizioni (Il Giornale): famiglia Berlusconi;

Con ciò non voglio dire che tutti questi signori (alcuni dei quali non sono mai stati coinvolti in nessuna inchiesta giudiziaria) non abbiano il diritto di pubblicare quello che meglio credono. Non va dimenticato però, e i recenti problemi che hanno investito R.C.S. sono un ottimo esempio, che se ogni giorno in edicola troviamo tutto questo ben di Dio è grazie alle ingenti somme che i vari editori (gestiti da presunti maghi della finanza) ottengono sotto forma di contributi pubblici. Sono iper-convinto che uno dei pilastri della democrazia sia la libertà di informazione. E sono altrettanto convinto che le somme provenienti dalle tasche dei contribuenti, se distribuite secondo logica, potrebbero permettere di dar vita a qualcosa di interessante. Il problema è che se le risorse in questione vengono usate per foraggiare chi, in un modo o nell’ altro, fa parte dei cosiddetti “poteri forti”, il cortocircuito è palese. Se scopo della libera informazione è quello di stimolare la coscienza dei cittadini per permettere un’ autonoma formazione delle opinioni personali, mettere nelle mani di chi sta già ai piani alti i mass media non mi pare proprio una mossa furba. Tra le tante valide proposte fatte in questi anni da molti esperti per migliorare un sistema allo sbando, ne ritengo fondamentali due:

  • I vertici RAI e i direttori dei telegiornali devono essere scelti in base a criteri meritocratici da un gruppo di esperti indipendenti nominati dal Presidente della Repubblica;
  • I quotidiani possono accedere ai contributi pubblici solo se nessun azionista detenga (anche indirettamente) più del 10 % e se la linea editoriale viene decisa dagli stessi giornalisti.

Ma le possibilità sono molteplici. Si potrebbe, per esempio, trovare un metodo per valorizzare Internet. Oppure si potrebbero sfruttare le frequenze del digitale terreste ancora vacanti per potenziare l’ offerta della TV pubblica cercando di coinvolgere i giovani. Come si può notare le strade percorribili sono tante. Speriamo di imboccare quella giusta.
 Carlo Battistessa


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