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Quel luogo siamo un po’ anche noi: Antonio Tabucchi, esploratore di mondi e parole

Da Dedalus642 @ivanomugnaini

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«Un luogo non è mai solo ‘quel’ luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi. In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati.»
Questa citazione tratta da Viaggi e altri viaggi dice molto di Antonio Tabucchi professore universitario, scrittore, critico, traduttore, opinionista. Eclettico e cosmopolita, Lisbona e il Portogallo se li portava già dentro quando per caso ebbe la fortuna di incontrarli tra le pagine di un libro acquistato su una bancarella di Parigi. Da allora il suo percorso umano, professionale e letterario fu scandito dai ritmi e dai versi di Fernando Pessoa il cui spirito rivive e viene celebrato in tutti gli scritti di Tabucchi, che, non a caso, è stato definito “il più portoghese tra gli scrittori italiani”. La sua esistenza può essere vista davvero come un lungo viaggio, un viaggio non verso una meta ma incontro ad un’identità cui si approda per scelta.
Non è un piccolo equivoco senza importanza l’incontro di Tabucchi con il Portogallo. Non lo è, in virtù di quella logica illogica che ci conduce in un percorso apparentemente cieco in cui i rari sprazzi di luce forse sono poesia, o ironia ulteriore, o entrambe le cose. Ma l’incontro avviene, favorito da eventi in apparenza minimi, quasi banali.
E tutto assume un senso, o almeno uno spazio, forse vivibile, di sicuro raccontabile, si potrebbe dire cantabile.
Lo scrittore nato a Pisa, città piccola e grande, con un presente fatto di turisti chiassosi e distratti e un passato glorioso di Repubblica Marinara lanciata sulle strade e sulle rotte di terre e porti traboccanti di gente e di merci, scopre Lisbona. Lisbona e il Portogallo. Un paese appartato, quasi spinto ai margini dalla pressione dell’Europa, chiuso in un angolo e costretto suo malgrado a guardare in direzione dell’unico angolo libero, l’oceano. Un paese di vocazione quieta e contadina obbligato a rendersi ardimentoso marinaio. Navigando verso ricchezze lontane, reali o immaginarie, palme da cocco e pepite d’oro, mentre culla nel cuore la nostalgia del verde dei suoi olivi e del giallo del suo grano.
Un paese di silenzi e di saudade, che ha scelto come colonna sonora dei suoi giorni il fado, lo struggimento della malinconia che ti salva mentre ti uccide, e ti uccide, con ferocia suadente, mentre ti salva dalla trappola del tempo.
Una lingua sensuale, il portoghese, lenta come un lungo amplesso, lontana dalle cadenze squillanti e rapide dello spagnolo, in grado di nascondere dentro un’interminabile vocale le incertezze del dire e del sentire. Anche questa lingua Tabucchi si è trovato di fronte e con lei si è dovuto confrontare. Con lei, non con essa, perché è una lingua che diventa persona, corpo vivo, nell’istante in cui tutto il percorso assume una dimensione.
Per andare avanti è necessario a volte fare un passo indietro. Nel caso specifico di questa escursione il passo indietro ci conduce a Parigi. Diversi anni fa il giovane Tabucchi sale sul treno che dalla Ville Lumière lo avrebbe riportato in Italia. Ma, come si è detto nel paragrafo introduttivo, prima di salire si procura un compagno di viaggio, un libro trovato per caso su una bancarella. Gli capita tra le mani un minuscolo volume intitolato Tabaccheria, composto da un poeta portoghese a lui sconosciuto di nome Fernando Pessoa. Il testo racconta la quotidianità nelle vie della Baixa di Lisbona: un frammento di gesti e parole dentro cui Pessoa aveva concentrato il suo intero universo.  Il cerchio inizia a prendere forma, come per gioco, perché, come spesso accade nella vita, le cose di maggiore spessore nascono come un gioco: Tabucchi, sul treno che lo riporta nella sfera rassicurante del suo ambiente, si trova ad esplorare tramite un piccolo libro in apparenza innocuo il mondo di uno dei più complessi misteri umani e letterari, un puzzle di personalità, labirinti di metafore e arabeschi di significati. Si sarebbe potuto salvare dal gioco gettando il libro dal finestrino, nonostante la scritta di divieto riportata in quattro lingue. Oppure avrebbe potuto fingere anche lui, con se stesso, di essersi dimenticato il libro in una prudente fessura tra due sedili. Ma non era possibile: non era stato lui a scegliere il gioco. Il meccanismo ludico, serissimo, vitale, aveva riconosciuto lui.
Pessoa è l’anello che congiunge Tabucchi ai luoghi del suo essere. E il ricongiungimento, l’agnizione, non poteva che avvenire attraverso le parole, la poesia. Per arrivare al Portogallo, a Lisbona, doveva passare da mille altri tragitti: l’India, il Brasile, il Messico, l’isola di Creta e città come Madrid, Genova, Barcellona, Il Cairo, Kyoto, tutte diverse tra loro, distanti l’una dall’altra, come donne con pelle, capelli e mani di diverse fogge e colori, attraversate e accarezzate con lo sguardo curioso del viandante, con la nostalgia e la gioia del flaneur che indugia per cercare un passo adeguato al respiro. Sono ancora le parole dello stesso Tabucchi a fornirci una chiave: «ho visitato e ho vissuto in molti altrove. E lo sento come un grande privilegio, perché posare i piedi sul medesimo suolo per tutta la vita può provocare un pericoloso equivoco, farci credere che quella terra ci appartenga, come se essa non fosse in prestito, come tutto è in prestito nella vita».
In un luogo in prestito si viene a trovare, Tabucchi, a fianco delle parole di un poeta e scrittore dalla personalità multiforme, costellazione di eteronimi e individualità, in una città sospesa tra terra e mare, passato e presente, dolore e sete di vita. A Lisbona e con Pessoa, nella Lisbona che si trova dentro le pagine di Pessoa e nelle malinconie di ogni uomo in fuga da qualcosa, fosse pure da se stesso, Tabucchi trova la terra in cui posare finalmente i suoi piedi e le radici del suo essere e della sua scrittura. La leggerezza della non appartenenza, lo scorrere rapido e impalpabile della vita, non lo conduce però ad un atteggiamento di resa e disimpegno. Tabucchi, disilluso, disincantato, ironico e soprattutto autoironico, naturalmente portato all’understatement, si sente, a dispetto di questo, o forse proprio per la consapevolezza del valore di ogni singolo istante e di ogni singola esistenza, a lottare sempre, nelle pagine dei suoi libri e nella sua vita di uomo e cittadino, per qualcosa che resta prezioso e vitale: la giustizia, la dignità, il rispetto. L’idea che, pur nella friabile fragilità dell’essere, il contadino della sua Vecchiano o delle lande portoghesi ha gli stessi diritti del magnate e dell’uomo che detiene il potere, quello eternamente pronto a decapitare la verità e a farla sparire come la testa di Damasceno Monteiro.
Perché ciò che unisce gli uomini, tutti gli uomini, è o meglio dovrebbe essere la civiltà: la “civiltà del guardare”, innanzitutto, quella con cui Tabucchi percorreva, come nel suo libro Requiem, le strade della sua città ideale e reale, tra una sosta al caffè della Brasileira, la visita al Cemitério dos Prazeres, fino al belvedere più bello e alla piazza do Comércio, dove attraccavano i vascelli con le mercanzie dall’India e dal Brasile. Tra riflessione e moto, esitazione e slancio. Per portare dentro di sé, come nel suo libro edito nel 1990, Un baule pieno di gente, il vero bagaglio e il tesoro nascosto di ogni viaggio. Ancora una volta, sul modello di Pessoa, Tabucchi scopre che ciò che conta è la diversità di ogni individuo, il diritto ad un’unicità che si riconosce, come senso e come meta, nel sentire condiviso. Questo diritto alla diversità, anche e soprattutto di opinione, è uno dei temi portanti di Sostiene Periera, libro in cui il protagonista diventa il simbolo della difesa della libertà d’informazione per gli oppositori politici di tutti i regimi.
Dare voce ai diversi, agli esseri che vivono ai margini. Tabucchi, in Si sta facendo sempre più tardi, osserva: “Può succedere che il senso della vita di qualcuno sia quello, insensato, di cercare delle voci scomparse, e magari un giorno di crederle di trovarle, un giorno che non aspettava più, una sera che è stanco, e vecchio, e suona sotto la luna, e raccoglie tutte le voci che vengono dalla sabbia”. Non si tratta però solamente di interpretare esistenze diverse, si tratta di essere in uno stesso istante la finzione e la verità di una moltitudine di vite che confluiscono in una sola, un solo luogo e un’unica parola. Come Lisbona, luogo concreto e indefinito, da cui tutto parte e tutto, per vie arcane, ritorna. Così come era stato confermato con forza in altri libri della sua produzione letteraria, come ne I treni che vanno a Madras e in Notturno indiano, ad esempio, in cui viene esclusa, alla fine di tutto, la risoluzione della tematica dell’identità.
Nel Prologo a Donna di Porto Pim, Tabucchi dichiara: “Ho molto affetto per gli onesti libri di viaggio e ne sono sempre stato un assiduo lettore. Essi posseggono la virtù di offrire un altrove teorico e plausibile al nostro dove imprescindibile e massiccio. Ma una elementare lealtà mi impone di mettere in guardia chi si aspettasse da questo piccolo libro un diario di viaggio, genere che presuppone tempestività di scrittura o una memoria inattaccabile dall’immaginazione che la memoria produce – qualità che per un paradossale senso di realismo ho desistito dal perseguire. Questo libretto trae origine, oltre che dalla mia disponibilità alla menzogna, da un periodo di tempo passato nelle isole Azzorre. Suoi argomenti sono fondamentalmente le balene, che più che animali sembrerebbero metafore”. In queste parole c’è il senso del conflitto ininterrotto tra la volontà di fuga e il senso del ritorno necessario sul suolo della parola, per sua natura fallace, imperfetta, eppure imprescindibile. Il viaggio, come la scrittura, assume il ruolo di illusione vitale, metafora concreta, fascinosa e arcana come una balena, o un naufragio.
Come afferma Fernando Pessoa “a melhor maneira de viajar è sentir”. Allora, con il sentire poetico, possiamo viaggiare a Lisbona e sentirla, conoscerla, percorrendo anche grazie alle pagine di Tabucchi le sue strade, la sua luce, il suo mistero. Tabucchi muore a 68 anni a Lisbona, e non poteva accadere che lì. “Tutto finirà in un attimo, in una modestissima bolla, un residuo, un niente. (…) Non ci sono sponde, c’è solo il fiume”, aveva scritto con tono profetico. Ma è rimasto, nelle pietre di una città che è diventata anche sua, nelle parole di una lingua di cui ha imparato ritmi, danze e movenze, il percorso di un uomo che ha saputo unire letteratura e vita, cercando con tenacia quella prospettiva appartata e tuttavia aperta verso un mare trafficato di esistenze in cui si coglie il senso e l’assenza di senso, sogni di sogni, mai disgiunti dall’umanità reale. Perché, come ebbe modo di raccontare lo stesso Tabucchi: “mio padre studiava le vite vicinissime col microscopio, mio nonno cercava quelle lontanissime col canocchiale, entrambi con le lenti. Ma la vita si scopre a occhio nudo, né troppo lontana né troppo vicina, ad altezza d’uomo”.

Ivano Mugnaini



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