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Quel piccolo monello tra gli immigrati di fine 800: Yellow Kid

Da Paolominucci @paolo_minucci

Riuscite a immaginare un bambino dai tratti grotteschi, calvo, sporco e con le orecchie a sventola, che scorrazza beffardo nella New York di fine ottocento? Bene. Ora provate a pensare a questo monello come allo stereotipo che incarna le difficoltà derivanti dalla massiccia immigrazione dell’epoca, ed ecco che avrete il personaggio di cui vogliamo parlarvi: Michey Dugan, passato alla storia come Yellow Kid, il papà di tutti i fumetti.

Questo piccolo ragazzino che indossa un camicione giallo, da cui il soprannome, vede la luce nel lontano 1895 grazie alla matita e alla fantasia di Richard Outcault, che ne disegna le storie per il New York World di Pulitzer.

Il mondo in cui si muove, è un mondo caotico, distratto, in cui gli ultimi della scala sociale, spesso bambini, restano ultimi, e l’unica arma per scuotere le coscienze sembra essere un potente sarcasmo.

I monelli che, nei disegni di Outcault, affollano sino all’inverosimile le strade di Hagan’s Halley, appaiono sempre come una miriade di piccole esistenze disagiate. Immigrati di ogni colore e cultura che, pur facendosi gioco dei malcapitati di turno, raccontano di un processo di inserimento ancora da costruire.

Già dal primo episodio della serie, At the Circus in Hogan’s Alley, si può percepire lo spirito di critica sociale di questo comic.
In un sobborgo di New York vediamo, infatti, un gruppo di ragazzini che in gran confusione prova a metter su uno spettacolo. Sembrano tutti divertirsi, indaffarati come sono, ma ciò che colpisce l’osservatore è quello che a loro manca. Cioè un’educazione, dei genitori attenti e premurosi e un’igiene sufficiente.

Questi bambini, veri protagonisti di ogni episodio della serie, non hanno nemmeno una corretta istruzione, e lo si comprende dalle frasi sgrammaticate che riempiono le vignette e il vestito del piccolo Dugan, dandogli voce. Eppure dai loro occhi traspare sempre un’ingenuità di fondo che li assolve da tutte le piccole birichinate che commettono.

Ed è forse proprio grazie a questa caratteristica, che le storie di Yellow Kid ben presto si diffondono a macchia d’olio.
Infatti, anche se inizialmente viene creato più che altro per far sorridere il lettore, Yellow Kid diventa in poco tempo molto più di un fumetto.
Gli immigrati iniziano a guardare a lui come a un portavoce di diritti e rivendicazioni. Gli si avvicinano, e poco a poco, grazie al linguaggio semplice e diretto di queste strisce, prendono contatto anche con i giornali che le ospitano.

E così in pochi mesi il bambino in camice giallo è ovunque, diventando un vero e proprio marchio da commercializzare. Diviene tanto popolare da suscitare addirittura una disputa tra il NY World e il NY Journal ma con esso cresce, inevitabilmente, anche l’attenzione dedicata ai problemi delle periferie sociali e degli immigrati.

L’esperienza editoriale di Yellow Kid dura solo quattro anni, ma il solco tracciato è enorme.
Per la prima volta l’informazione su larga scala escogita nuovi sistemi di comunicazione, e arriva sino a chi, a causa della barriera linguistica, da questa informazione era escluso. E ciò accade con un fumetto, che si ritrova inconsapevolmente al servizio della collettività, essendo in grado di indicare un settore debole della società su cui focalizzare l’attenzione.

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Non sappiamo cosa il piccolo Yellow Kid possa essere diventato da adulto. È sempre un insanabile birichino? Sbeffeggia ancora a colpi di sarcasmo la società americana?
Non ci è dato saperlo. Ma molto probabilmente l’impronta che ha lasciato, oltre a renderlo il padre del fumetto moderno grazie ai baloons, che qui saranno introdotti per la prima volta, lo ha reso anche progenitore di una maniera di creare sviluppo e informazione tuttora ammirevole.

[Articolo originariamente scritto per Plain Ink]


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