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Quella Casa nel Bosco: Fascino e Decadenza dell’Attuale Cinema Horror

Creato il 22 giugno 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il giugno 22, 2012 | CINEMA | Autore: Daniele Di Stefano

Quella Casa nel Bosco: Fascino e Decadenza dell’Attuale Cinema HorrorNon è compito facile penetrare nell’essenza di un prodotto come “Quella casa nel bosco”. Bisogna dimenticare i pregiudizi che accompagnano ormai da anni il genere horror, non farsi condizionare da quelle basse aspettative tipicamente mainstream che potrebbero porcelo sotto una luce troppo diversa da quella che è in realtà; identificare per bene il regista Drew Goddard (produttore e sceneggiatore di “Lost” fino al 2008) e il produttore e sceneggiatore (insieme allo stesso Goddard) Joss Whedon (regista dell’acclamato “The Avengers”, ma prima ancora autore delle sei stagioni di “Buffy l’ammazzavampiri”), che hanno, di fatto, svolto un lavoro a quattro mani. Ed è necessario procedere con ordine, partendo dall’inizio. È quello della pellicola un incipit che, in un contesto differente, sarebbe condannabile ed imperdonabile nel suo rifarsi al magnifico “Funny Games” di Michael Haneke e che, perfettamente in linea con sé stesso, ci dà il benvenuto in questo divertente teatro delle marionette. Che poi la similitudine di burattini e burattinaio, ripetuta più volte durante il lungometraggio, non è da considerarsi totalmente adatta, poiché i protagonisti che ci vengono posti davanti sono sì fantocci, però possiedono un’anima. Partono da un bagliore fioco ma lottano, nel loro tormentato tentativo di diventare esseri viventi piuttosto che rimanere intrappolati nel guscio di personaggi. Personaggi tendenti alla manipolazione facile, forse perchè soltanto affamati di esistenza, ma anche fobici della sciagura più che plausibile di un divenire i Rosencrantz e Guildenstern della situazione, tanto da arrivare a nutrire fede religiosa nella presenza di cugini improbabili possessori di case ancor più improbabili. Personaggi impermeabili ai sospetti come alle motivazioni valide che potrebbero spingerli a passare il tempo nel più classico degli scenari tetri. Parliamo di un luogo completamente isolato, immerso in uno scenario da cartolina (bosco, laghetto e montagne), accentrato – con un canonico movimento di macchina strofinato tra l’agitarsi di foglie secche – su una baita che porta alle pareti la testa di un alce (scusate, un lupo!) e a decorazione della stanza un quadro dall’atmosfera che è tutto fuorché lieta.

Quella Casa nel Bosco: Fascino e Decadenza dell’Attuale Cinema Horror

È un percorso senza ritorno quello che costringe cinque entità dotate di una sensibilità e caratteristiche tendenti ad un determinato sviluppo, a rinchiudersi in dei ruoli necessariamente prederminati; e sanno un po’ di lamentela, un po’ di rimpianto, da parte degli autori, i commenti di quel novello Truman Burbank che è il ribelle buffone Marty (Fran Kranz, già visto in “The Village” di Shyamalan), confuso e meravigliato dagli atteggiamenti mentalmente regrediti della “meretrice” (per evitare il termine non troppo raffinato usato nel film) Jules (Anna Hutchison) o dal vedere uno studente con una borsa di studio in sociologia come Curt (Chris Hemsworth, il supereroe divino Thor, per intenderci) comportarsi da “maschio alfa imbecille” e corrispondere esattamente allo stereotipo dell’atleta, dando dell’intellettuale all’amico Holden (Jesse Williams, il Dr. Jackson Avery di “Grey’s Anatomy”), troppo impegnato a fare il ragazzetto sfigatello ed imbarazzato con Dana (Kristen Connolly) la vergine (e al riguardo è a dir poco spassosissimo il «Ci accontentiamo di ciò che abbiamo» pronunciato durante le battute finali), per accorgersi che qualcosa di strano sta effettivamente accadendo. Controllori di un ordine più grande, origine di tutte le anomalie, sono principalmente due tecnici depositari dei volti del bravissimo Richard Jenkins (nomination agli Oscar per “L’ospite inatteso”) e del valido finto cinico Bradley Whitford (“Innamorarsi a Manhattan”, “The Mentalist”), la cui alchimia non dà adito a dubbi su quale sia la parte più riuscita del cast ed inserisce per bene gli spettatori in alcune dinamiche che approfondiremo in seguito. È la loro alienazione e la giocosità da impiegati comuni (seppure di un mestiere non affatto ordinario) a mandare avanti le cose in maniera funzionale per tutta la prima parte della storia, fungendo da simboli a cui possiamo sentirci accomunati. Possiamo difatti trovarci, senza neanche volerlo, a scommettere su quale sarà la demoniaca scelta dei predestinati o ridere partecipi del deciso «Fa vedere la merce» di Jenkins durante la “spontanea” scena di preludio al quasi sesso (avvolta da una “nebbia di feromoni”) tra Curt e Jules, necessaria quanto condotta nella giusta maniera.

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E, sebbene il tutto riesca a coinvolgerci parecchio, esso non vuole e non riesce a sviarci dalle necessarie considerazioni riguardanti un comparto tecnico dotato di fotografia, montaggio e colonna sonora che nulla aggiungono al panorama odierno (sebbene spesso simpatici e piacevoli; si pensi al climax che porta alla scelta dei mostri o al salto in moto, caricato da quella musica speranzosa, che nel suo epilogo non può che farci, come minimo, sorridere), un tecnicismo di effettistica live-action di buon livello ed una CGI che invece appare un po’ sotto la media e che, nella sua descrizione di momenti e protagonisti riconoscibili nella linea del passato, pecca di un errore simile a quello di Rodriguez nel suo “Planet Terror”, affidandosi ad una ricostruzione errata di esseri mostruosi e bagni di sangue che tempo fa venivano prodotti a costi decisamente più bassi e con risultati più realistici. In fondo, però, pure questa conformità contribuisce non solo a non farci provare alcuna antipatia per una pellicola che potrebbe – però in nessun modo ci prova – essere pretenziosa, ma anche ad amplificare il legame tra noi e gli autori Goddard e Whedon, persi tra divertissement, opinioni personali e cattivi pensieri. Sfogo di questi ultimi è una satira mirata prevalentemente al loro paese di origine, ma senza sconti anche per l’Oriente, in particolare il Giappone, espressa dai due impiegati-sceneggiatori Jenkins e Whitford in discorsi scialacquati tra patriottismo e disprezzo rispettoso («Il Giappone è sempre in vantaggio», «Se volete un buon prodotto compratelo americano»). Ed in questo sentiero si inserisce un ennesimo riferimento a non ben specificati grossi insuccessi cronologicamente fissati all’anno 1998, anno (per niente casuale) d’uscita del giapponese “Ringu”, catalizzatore della recente e cattiva abitudine degli horror-remake hollywoodiani su base asiatica. Non stupisce, in quest’ottica, l’assenza di riferimenti di qualunque tipo a mostri più umani e recenti del calibro di Jigsaw o la matta famiglia de “La casa dei 1000 corpi” di Rob Zombie, rappresentanti qualificati del cosiddetto torture porn, evoluzione (o per alcuni, compreso lo stesso Joss Whedon, degenerazione) del genere cinematografico del terrore, la quale, insieme alla abusata pratica del falso documentario, sembrano già aver esaurito la loro fonte di ispirazione, non preannunciando per niente quella sintesi ex-novo basata su materiale differente di cui tanto ci sarebbe bisogno.

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Il divertissement è riconoscibilissimo e pienamente condiviso, nell’elencazione di mostri terrificanti e nella loro liberazione; come in uno zoo, li si vede imprigionati nelle nostre menti e poi lasciati a vivere i loro istinti peggiori in un tripudio gozzovigliante di sequenze da annoverare tra le più interessanti, accattivanti e godibili del cinema horror degli ultimi tempi, stabilendo un processo di fusione tra fantascienza e fantasy (che ricorda molto alcuni accadimenti e scoperte di “Lost”) che non esita nemmeno al cospetto di un problema come quello dei diritti d’autore e che saccheggia (seppur con le giuste modifiche) un patrimonio mitologico orrifico ormai comune, muovendosi furtivo da “Hellraiser” fino a Stephen King, passando per le membra zombie di George Romero e sfociando addirittura nella leggenda vera e propria, con un unicorno che mai è stato visto così malvagio e assetato di sangue. E la fa da padrona, nel contesto di critica alle metodiche statunitensi, la riflessione su strumenti ed arnesi ormai imprescindibili dalla narrazione in questo genere di storie. Si fanno largo difatti quei dibattiti che hanno accompagnato ognuno di noi almeno una volta, in seguito a una vera e propria overdose di cliché a cui siamo stati sottoposti, portandoci a lucide valutazioni (che facciamo molte volte senza avere una esperienza reale regressa a cui aggrapparci) sulla stupidità insita in dei personaggi attaccati da tutte le parti che, anziché stare uniti, decidono sempre e costantemente di dividersi o che, in questo caso, vengono aiutati a farlo («Dobbiamo restare uniti» dice lo studente intelligente Curt; se ne pente subito dopo grazie a qualche narcotico tra l’apprezzamento generale degli altri, a parte il già citato Marty), determinando un mutevole scambio psicologico di ruoli tra personaggi, sceneggiatori e noi nella veste degli scrittori che, in questo caso, bramiamo di essere. Gioco di scambio e definizione dei ruoli a volte espresso con metafore un po’ maldestre, riflesso in uno specchio da sala interrogatori, che tra scenette pateticamente romantiche, apprezzamenti taciuti e inversioni di camere da letto, ha anche la funzione di aumentare quella libido che tanto aggrada gli dei malvagi, se così vanno davvero chiamati. Perché se, in questa narrazione, ogni tassello è costretto ad assumere una certa posizione, allora non ci vuole un esperto per rendersi conto del meccanismo storia-sceneggiatori-pubblico che i due autori vogliono portare alla nostra attenzione: loro sono i tecnici nel bunker, il film dell’orrore la vicenda che si svolge in superficie e noi le divinità cattive, capaci di far finire il loro mondo.

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Ma non ci avranno attribuito troppo potere? Non è forse dimostrato anche da questo stesso faticoso frutto del loro lavoro quanto lo spettatore sia profondamente sterile ed incapace di fronte allo show business, un universo dove l’arbitrio nella scelta di cosa vedere, ascoltare, amare è soltanto una illusione atta a nascondere gli interessi delle major e di chi vuole soltanto controllarci? Dubbi esistenziali di questo tipo scivolano su un ponte reso fatiscente da instabili plot holes che, nonostante il tono e l’atmosfera dell’opera, non sempre riescono ad essere abbandonati senza batter ciglio; si rischia seriamente di cadere – e non lo si fa soltanto perché sarebbe troppo strano che un film finisse senza nemmeno raggiungere un’ora di proiezione – nel momento in cui si vede ricomparire un personaggio dato precedentemente per morto (che poi, se proprio non ti uccide, un coltello piantato alla schiena dovrebbe perlomeno farti penare per il resto del tempo), se si considerano le tecnologie avanzatissime e le metodiche dei tecnici nel bunker, capaci di monitorare le funzioni vitali di ognuna delle vittime predestinate. Si fluttua in aria alla scoperta (tra l’altro sorprendentemente vera dal punto di vista clinico) che cannabis e torazina si annullanno a vicenda, ma risulta poco credibile pensare che in anni di offerte umane giovani una situazione del genere non si sia mai verificata, ed ancor più che l’uomo sul tetto della casa di Dana, piazzato a mo’ di vigilante solitario (tra l’altro in pieno giorno), non si sia accorto della nuvola di fumo uscita fuori dalla macchina di Marty e del suo thermos-bong (arma potentissima, a giudicare dai resti di zombie che si lascia dietro). E poi: sono soltanto ben tramate coincidenze o derivano tutte da un fattore comune le gravissime sviste di tecnici competenti che dovrebbero avere tutto sotto controllo, culminanti in un tunnel che dovrebbe implodere su sé stesso ma non lo fa (può essersi trattato sempre della nascosta bravura del fattone Marty?) e nel lasciare a due vittime sacrificali libero ed indisturbato accesso ad una stanza dove un bottone rosso che sarebbe limitativo definire da cartoon – simile com’è (insieme al datato telefono che si trova nel bunker) ad un poggia dita per Willy il Coyote -, può, se premuto, scatenare letteralmente il pandemonio?

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Il trucco di Goddard e Whedon sta proprio nell’ostacolare allo spettatore la comprensione e il discernimento tra una messa in scena parodistica e della semplice, dolorosa, cattiva scrittura. Il colpo di grazia lo si riceve così proprio quando tutto sta per terminare, in una sequenza finale che fa lo slalom tra uno spiegone salvato in extremis da uno squisito cammeo assolutamente da non svelare (e qui sembra quasi di sentire Goddard e Whedon dirci: «Vi offriamo questo con timore e umiltà») e un risvolto che attinge a H.P. Lovecraft, ma che si configura in una forma che ci lascia attoniti, dissociati tra la sensazione di essere stati partecipi e compiacenti in qualcosa di intensamente e profondamente trash e l’onere di essere i destinatari di un messaggio specifico, ma frazionato in varie parti. La metafora del film dell’orrore costruito come un sadico rituale degno di psicopatici seriali, differente da cultura a cultura, ci sbatte in faccia quanto sia criminale e peccaminoso ai giorni nostri essere giovani nei paesi occidentali. Perché noi giovani siamo egoisti e facciamo sempre la scelta sbagliata, non curandoci degli altri e, nonostante la modernità e le tecnologie, siamo molto sensibili alle ciarle (come quelle tragicomiche del rozzo benzinaio) di chi ci vuole influenzare, e magari gli gridiamo contro e lo lasciamo perdere come veri anticonformisti, ma ne usciamo comunque suggestionati e inclini a farci infinocchiare (scendendo in cantina, in preda a sana curiosità, e giocherellando con oggetti che non ci appartengono), alimentando lo status quo; e di conseguenza, andiamo puniti. Ma forse non è colpa nostra, ma di chi gestisce le cose, forse «un cambiamento è quello che ci vuole» come dice Marty. Retroscena ambiguo sulle falle del sistema, la possibilità di non stare semplicemente ad assistere a questo rigor mortis della società e, nel dettaglio, del cinema horror, che per un’ora e mezza si è mosso e ci ha affascinato facendoci credere che uno spiraglio di vita gli sia ancora rimasto, ma di proporre (perché né Goddard né Whedon effettivamente lo fanno), agognare, richiedere con insistenza qualcosa di differente, cosicché quel grande magazzino immaginifico fatto di cubi mobili di vetro possa essere smantellato, cosicché anche gli scarti degli incubi possano andare avanti.

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