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Quello che le commesse dicono

Creato il 16 marzo 2012 da Lundici @lundici_it

Qui la crisi non c’entra. Fare shopping è una delle terapie più efficaci conosciute nel mondo occidentale. E’ una pratica curativa ‘olistica’ ed ‘adattogena’. Olistica, nel senso che è in grado di lenire qualsiasi dolore psicofisico a prescindere dalla sua natura ed intensità, ed adattogena nel senso che può essere utilizzata e declinata nella maniera più adeguata a seconda dei contesti e dei differenti scenari, persino quando ci troviamo in un Paese che da due trimestri è in conclamata recessione.

Quello che le commesse dicono

Si può fare shopping dalla culla alla bara

Si può fare shopping terapeutico ovunque. Non mi viene in mente un solo luogo che sia sprovvisto di dispositivi pro shopping. Dalla culla alla bara, appunto, ognuno può scegliere anche nei due momenti estremi di A e B, per i propri congiunti, appena arrivati o appena dipartiti, il modello, i materiali e le finiture che più gli aggradino.

Lessico ed Onomatopea dello shopping

Da un punto di vista lessicale, la sostantivazione del gerundio sta ad indicare con grande chiarezza la contemporaneità dell’azione: shopping è qui ed ora, shopping è indubbiamente now, ma l’orologio del tempo è quello di “Alice nel Paese delle meraviglie” ed è bene applicare anche al nostro discorso il noto brocardo Carrolliano  “E’ sempre l’ora del té e negli intervalli non abbiamo tempo di lavare le tazze!”. Potremmo facilmente per trasposizione affermare che è sempre l’ora dello shopping e ci conviene accantonare o ridurre al minimo lo spazio-tempo in cui prendiamo consapevolezza di quante cose inutili possediamo. Sarebbero soltanto fughe nel pavimento del tempo che non incidono per niente sull’effetto di insieme.

Da un punto di vista onomatopeico, inoltre, la “s” aspirata dall’acca della parola “shopping” ricorda una fretta di andare: sciò sciò, oppure il modo di dire ulteriormente partenopeo sciuè sciuè (veloce veloce). Insomma lo shopping ci chiama e se anche noi lo volessimo chiamare, per esempio, “andare a far compere”, a parte una certa caduta nel ritmo e nella sintesi, direi che in definitiva potrebbe andare bene lo stesso. Dunque ci occupiamo dello shopping globalmente inteso, ma vogliamo restringere il focus dell’analisi allo shopping non globalizzato. Ah, dimenticavo, naturalmente parliamo di negozi di vestiti, vestiti, vestiti!!

La lingua H&M

Quello che le commesse dicono

Le commesse dei grandi magazzini danno l’impressione di essere state messe lì, sempre un po’ in prestito, in transito da una collocazione all’altra delle loro esistenze

Accantoniamo a malincuore le meravigliose catene di magazzini, affascinanti mondi fotocopia, rassicuranti e termici nella loro ripetitività, regni indiscussi della qualità schifosa e del prezzo talmente basso che, anche se ormai ci sei abituata, ti stupisce ogni volta. Accantoniamo questi favolosi paradisi del low cost perché qui non troviamo francamente nessun interesse nell’osservazione delle loro abitanti residenti: le commesse.

In genere, sebbene generalizzare sia sempre un po’ morire (come partire), le commesse dei grandi magazzini hanno facce con espressioni del tipo ‘che cazzo vuoi’ o ancor più esplicitamente ‘che cazzo ci sto a fare qui’. Spesso hanno storie comuni: studentesse universitarie che arrotondano con l’impiego di commesse, soggetti che danno l’impressione di essere stati messi lì, sempre un po’ in prestito, in transito da una collocazione all’altra delle loro esistenze. Nomadi della vendita, mai veramente molto affezionate alla loro attività. Mai armoniosamente allineate alle merci che si apprestano a vendere, pedissequamente adagiate al ruolo di ‘ausiliari subordinati dell’imprenditore’ ex art. 2210 del Codice civile, quanto noi potenziali acquirenti ne siamo bramosi, durante la sacra pratica dello shopping.

Dunque è inutile uscire dal camerino di prova e rivolgersi ad una di queste addette-alla-vendita-per-caso domandando uno speranzoso ‘come mi sta?’. Risponderebbe con buona probabilità statistica uno striminzito ‘dipende dai gusti’ oppure  un ‘a me piace’ buttato lì con una faccia talmente poco convincente da risultare stitica. Il massimo che si possa ottenere da questo genere di interlocutrice/interlocutore è un ‘non ti sta male’, gentilmente concesso nelle giornate di maggiore euforia e buonumore, magari a ridosso della paga o prima o dopo della sigarettina fumata nel retro assieme alla collega. Ma si tratterebbe di un eccezionale strappo alla regola del chemmenefrega, una deliberazione octroyée (si diceva di Costituzioni concesse dal sovrano, NdR) che ci comporterebbe un ben misero beneficio terapeutico. Dobbiamo dunque scegliere un altro campione per la presente dissertazione.

Le family-boutiques. Sorella commessa, fratello negozio

Quello che le commesse dicono

Le family boutiques spesso appartengono ad una dimensione di corso pedonalizzato di piccola città

Ci focalizzaremo allora sulle commesse-commesse, le commesse vere, le commesse impiegate cioè nei negozi veri, le boutiques che ci sono da una vita, in cui si vestiva tua mamma e forse anche tua nonna, in cui la prima mezz’ora di conversazione, una volta varcata la sacra soglia del negozio, è riservata agli aggiornamenti sui parenti e le malattie. Le chiameremo le “family–boutiques”. Spesso appartengono ad una dimensione di corso pedonalizzato di piccola città, ma resistono talvolta o, paradossalmente, spuntano fuori ora anche nelle metropoli, come esperienze significative dell’importanza antropologica e sociale dei quartieri, certe volte chic, certe volte middle. Li chiameranno spazi, progetti, ma sono sempre negozi!

In certi contesti di paese rappresentano magari l’unica boutique, tempio a se stante in una noia mortale di centri commerciali più o meno raggiungibili in automobile. In questi casi trascendono ad un ruolo puramente commerciale, quasi si potrebbe parlare di templi di culto, paragonabili alla chiesa della piazza principale. Al loro interno si pratica una religiosità diffusa e variegata: sono come le chiese dell’America Latina, ove il cristianesimo si fonde, in sincretismo inatteso, con i culti più antichi e politeisti delle popolazioni precolombiane. In queste chiese si prepara il cibo e si mangia insieme, si dorme, ci si ripara dal caldo e dal freddo, si socializza. Templi moderni dello shopping, questi luoghi rappresentano un posto dove si va e una volta arrivati, dove si sta. A modo loro,  sono una meta nel viaggio. E non è poco.

Sia chiaro in premessa, comunque, che la dimensione familiare delle sopradescritte boutiques non abbassa i prezzi della merce venduta. Anzi spesso accade che la caratteristica di non essere venditori esclusivi di un marchio, ma di offrire una pluralità di griffes diverse, le rende dal punto di vista strettamente economico meno competitive di altri punti vendita. Più le boutiques sono ben apparecchiate e costose, più le loro commesse diventano soggetti interessanti per la presente analisi. A queste ‘commesse scelte’ si richiedono performances comunicative superiori, adeguate al ruolo e alle mansioni. Questa casta di commesse sono per noi clienti un po’ come parenti o comunque sono tutte conviventi in una casa chiamata per accidente fortuito ‘negozio’, in cui vivono e, nella mente del cliente, risiedono stabilmente come una famiglia allargata insieme ai proprietari. Queste commesse si conoscono tutte e si frequentano. Fanno parte di una lobby, un partito, un movimento. Hanno luoghi di ritrovo e canali di comunicazione paralleli. Parlano la stessa lingua. Ed è qui che volevamo arrivare. Sono totalmente affascinata dalla lingua delle commesse!

Bellone

Quello che le commesse dicono
Se per esempio ti propongono una cosa bislacca tipo un paio di pantaloni verde ramarro o un cappotto con le maniche corte o ancora delle scarpe da clown tacco 15 è probabile che accompagneranno la profferta con l’aggettivo qualificativo declamato in un mezzo sorriso: ‘bellone, eh?’. I pantaloni sarebbero belloni, il cappotto bellone, le scarpe bellone. Bellone indica stranezza, originalità, una cosa che si nota e che, ammicca l’amica commessa, darebbe una connotazione originale ed unica al tuo incedere nel mondo. Una cosa è bellona quando ha una personalità in sé, pare dotata di una anima propria e tu non puoi fare altro che prenderne atto e portartela a casa. Solo una cosa ancora non uscita dal negozio merita l’appellativo di bellona. Già alla prima prova in camerino la cosa perde un po’ dello smalto di ‘bellona, eh?’ e diviene più una cosa ‘bella, eh?’, ‘particolare’, che ti sta proprio bene. Attenzione, bellona è una definizione scivolosa, sotto la simpatica apparenza della quale potrebbero nascondersi significati diversi. Se volessimo utilizzare un neoverbo “wikipediano”, la disambiguazione dell’espressione ‘bellona’ potrebbe anche mostrare aspetti significanti negativi e assimilabili per prossimità semiotica a ‘fa schifo’, ‘ti sta da cani’,  e, soprattutto, ‘sei veramente ridicola vestita così’. Bellona, eh!?

Sdrammatizzare

Sdrammatizzare è un verbo che mi è sempre piaciuto molto perché indica una filosofia di vita precisa che consiste nel ‘non aderire mai completamente al dramma’ ma tenere sempre un po’ le distanze, qualsiasi cosa succeda, grazie all’ironia. La “s” privativa davanti a dramma, inoltre, conferisce una forza di Coriolis a tutta la parola che risuona così di catartica liberazione pur non dimenticando una eleganza compassata. Sdrammatizzare ha stile, non c’è dubbio. Per sdrammatizzare, infatti, ci vuole stile. ‘Oppure – ci dice l’amica commessa - lo puoi sdrammatizzare con una fusciacca‘.

Quello che le commesse dicono

Un'utilissima fusciacca

Orbene, molti di noi hanno una vaga o precisa idea di che cosa sia una fusciacca. E’ una sorta di cintura, alta, lembo più o meno grande di tessuto o pelle da avvolgersi intorno alla vita o ai fianchi. Si tratta di un accessorio completamente inutile e il cui valore estetico è del tutto discutibile. Pare che fosse una decorazione utilizzata dalle danzatrici nell’antico Egitto ed in Grecia per sottolineare la sensualità delle movenze del bacino dei corpi che venivano esibiti quasi totalmente nudi. E’ evidente la totale mancanza di similitudine con le necessità del cliente attuale che molto difficilmente danza seminudo avvolto soltanto in una sciarpa. Ma questa grossolana lettura delle parole della commessa nasconde invero una molto più raffinata interpretazione. E’ proprio l’assurdità del paragone linguistico ad ingenerare l’effetto di sdrammatizzazione: mettere una fusciacca su un maglionazzo di lana o intorno ad un piumino Moncler o soloDiosadove, fa ridere, dunque sdrammatizza! Un altro punto a favore della commessa.

L’ho presa anche io per me

Questa è una espressione introdotta in tempi relativamente recenti nel linguaggio delle commesse. Diciamo che fino a due, massimo tre, anni fa io non ricordo di essermela mai sentita dire. Chiarisco subito che secondo me non funziona, nel senso che soltanto in misura percentualmente irrilevante ottiene l’obiettivo per il quale viene pronunciata: la vendita del capo di abbigliamento che lei ha preso anche per sè. Non so voi, potenziali acquirenti, ma per me questo annuncio, pronunciato di norma con una certa dose di solennità, non costituisce il benché minimo stimolo all’acquisto. Perché dovrei sbracciarmi per assicurarmi una cosa uguale alla tua? Mi pare proprio antitetico all’effetto-originalità trainato da ‘bellona, eh’. Mi pare che non costituisca nessun valore aggiunto al gusto dell’acquisto venire a sapere che forse domani troverai al bar dell’aperitivo una commessa con il tuo stesso abito e che vi guarderete imbarazzate e complici e tu dovrai sdrammatizzare facendoti una risata quasi come con una fusciacca, mentre dentro rosichi. Allora perché mai è dilagante il dato che lei l’ha preso per sé e lo mette benissimo, lo porta tutto il giorno, ma va bene anche per cambiarsi?

Te la porti fino a primavera inoltrata (o fino ad autunno inoltrato)

Quello che le commesse dicono

..ma se lo dice la commessa!

Marketing apparentemente anti-crisi, questa espressione è da sempre molto utilizzata dalle commesse nell’estatico periodo dei saldi.  Non va mai disgiunta dall’espressione complice del viso che ammicca al fatto che questa possibilità eccezionale di portare il capo in questione fino a primavera/autunno inoltrati viene concessa solo e soltanto a noi e a nessun altro. La commessa pare dirti che questo deve rimanere il nostro piccolo segreto. In verità si tratta di un escamotage anti senso di colpa che di solito funziona bene perché dopo esserci già comprati, per esempio, durante l’inverno un sufficiente numero di maglioni, piumini, sciarpe e magari aver ‘investito’ la busta di Natale in accessori, borse e ulteriori capi spalla, ci sembrerebbe un tantino superfluo comprarne ancora..ma se lo dice la commessa!

Ho rimasto solo la M

Punto dolente in “quello che le commesse dicono”. Evidentemente hanno avuto tutte la stessa prof. di italiano parecchio distratta o incompetente perché fino a prova contraria il verbo, così, è coniugato malissimo. La prossima volta glielo faccio notare, poi vi darò conto della reazione: non sarà una impresa semplice, anche perché potrei imbattermi in un sociotipo di commessa di cui non abbiamo parlato finora ma che merita senz’altro una riflessione: la commessa stronza. In un futuro non troppo lontano, dunque, vorrei affrontare questo argomento.

Il metodo che prediligo è l’inchiesta sociale, dunque fatevi sotto con esempi, racconti di vita vissuta, esperienze dirette o indirette di incontri ravvicinati con commesse stronze. Prometto che ne farò un puntuale resoconto! Inviatemi, dunque, le vostre segnalazioni su commesse stronze e dintorni!


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