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Questo posto ti cambierà

Creato il 22 agosto 2011 da Fabry2010

La realtà delle cose non si cela di fronte agli occhi dei ciechi.
Non ce n’è alcun bisogno.
I ciechi disegnano geometrie meravigliose, intrecciano parole su pensieri impossibili, penetrano i contorni degli oggetti come palombari pazzi, e visionari, che si calano tra le crepe dei silenzi a rinvenire verità. Nulla sfugge allo sguardo di un cieco. Sono nuotatori talentuosi. Ma solitari. Che vedono in profondità sconosciute.
Li senti sprofondare nelle cose e riemergere intatti, con le mani aperte a mostrare ciò che hanno rinvenuto, donando a chi ha occhi per vedere entità fatte di materia nuova: accolgono ovvietà, restituiscono sogni.
Johnni sentì il tocco leggero e vellutato quasi sciogliersi attorno a lui mentre cominciava a capire queste cose.
Il vuoto, prima.
La luce. Poi.
E tenne gli occhi sbarrati il tempo sufficiente per giocarsi dell’alba e dei suoi inganni.
Perché la luce signori, la luce ama giocare. Saltella tra gli oggetti screditandone l’identità, delinea e cancella, omette e rivela, è illusionista per vocazione e realista per mera necessità.
La luce, credetemi. La luce nasconde le cose più di quanto sappia fare il buio.
E abbracciato a se stesso nel pozzo del suo respiro, Johnni l’aveva inchiodato al suo tavolo trasparente questo croupier conformista con l’animo del baro, e la vedeva come non l’aveva vista mai, l’ammirevole Corte dei Miracoli che si avviava sul luogo di lavoro a montare la realtà. Tentennare sonnecchiando con arnesi misteriosi, e pezzo dopo pezzo, tirar su prima gli orizzonti, poi le macchie, e via con gli alberi, le case, gli animali, decidere tra un tiro di dadi e un cascare di mani cosa farne di un colle in lontananza o di un promontorio su di un mare, e poi affannarsi sugli interni, e scegliere i colori, bisticciando sui contorni e applaudendo sui finali. Benvenuti dall’armata sghignazzante che si gioca di chi è sveglio, giù risate, poi litigi, e via di corsa dietro al buio, qua assediato tra gli anfratti, confinato lungo i fossi, là braccato, lì si è arreso, forza, avanti, via e di fretta, questo è quanto, dammi retta.
Su il sipario.
“Beccàti” disse.
E si mise a cercare le sigarette.

Ciò che ancora manca è il ricordo. Lo rincorri sfiancato sullo spigolo dei marciapiedi sperando che la sbronza non l’abbia fatto cascare troppo lontano, ma tutto ciò che rinvieni intorno a te è terra battuta, e odore d’incenso, e vaghe stelle smunte e già slabbrate.
E quando ti si para davanti a riderti in faccia la certezza che se un cavaliere solitario proprio dev’esserci in questa storia quello indubbiamente sei tu, allora è giunto il momento di pentirsi per averli aperti troppo presto, i tuoi occhi da cieco.
Perché a occhi aperti la scena è già impostata. È breve e perfetta, e ben limata. È un racconto di Padri che brucia la notte in accampamenti vecchi quanto il sonno, è il tremore di un sospiro messo subito a tacere. Stendardo che nessuno osa contraddire.
Manca solo quel qualcosa.
Manca il tocco. Il brivido inaspettato che niente rimescola rimettendo tutto in discussione. Particolare non richiesto. Colpo di genio.
Johnni lo sentì arrivare proprio mentre bestemmiava raschiando tra le grinze dei suoi pantaloni, quel colpo.
Gli arrivò addosso col furore di un branco di lupi a caccia di prede, e solo quando se lo sentì entrare dentro senza riuscire in alcun modo ad arginarlo capì che la Corte aveva fatto un lavoretto coi fiocchi anche questa volta.
Quel colpo di genio fu un colpo impercettibile.
Fu la brezza.

E forse è meglio chiarire un po’ i giochi, a questo punto della cosa. Ciò che il vento portò con sé fu una luna corsara e sbattere d’ali di falene, rumore di crackers che si infrangono e paura dell’ignoto. Fu un’infinità di cieli bastardi e ingannatori, e fessure giallastre a vegliarne lo stupore. Spicchi affastellati come raggiere e sfilare etereo di corpi su silenzi densi di sfide. Fu un colare cerimonioso d’istanti. Ma su tutto fu suo padre, colto di spalle in un giorno glorioso, a guardare avanti senza nulla vedere, sul confine di un cielo capovolto chiamato mare.
Ecco. Questo fu.
Dapprima una semplice parola.
Calima.
Poi l’immagine scarna di un uomo. Il suo sorriso stupefatto, la sua carne ammutolita. E una domanda. “Cosa vedi?”
(Acqua pà. Nient’altro che acqua).
E in quel lento gocciolare di momenti, occhi già calzati, sguardi lucidi, mani che si stringono su risposte mai avute, vide la certezza di un presente chiamato per nome. Quello sì.
“Ecco il calima” disse Johnni, “ecco il respiro del deserto.”
Con le immagini ad appollaiarsi ognuna al proprio posto, e quella stupefacente simmetria cronologica che annichilisce le membra rinvigorendo il cuore, e che taluni, chiamano ‘memoria’.
Perché quattro settimane prima, un Johnni pallido e smunto da sembrare quasi paralitico era scivolato come una ruga giù dal fianco di una barca, sprofondando tra i suoi dubbi, resistendo a malapena, aveva dato un respiro che non conosceva né verso né fondo né aspetto né ragione, e con i polmoni intrisi di quel calima aveva avuta chiara in sé, limpida, lampante come poche cose sanno esserlo nella mente di un uomo, la sensazione tragicomica che niente nella vita, niente neppure la vita stessa, va come sognavamo da bambini.
Ma non aveva sorriso. Si era sentito come Armstrong sulla luna.
“E ora?” si era detto.
Il tizio che s’era degnato di dargli il passaggio, un Caronte thailandese di venticinque anni che ne dimostrava almeno il doppio, coi denti marci e una foglia di coca perennemente sulla lingua, lo aveva guardato come dal fondo di un utero sterile, e con un ghigno affilato che sembrava una trappola pronta a scattare aveva riso. Per tutto il viaggio non si era preoccupato di fare altro che sbavare, e masticare, e discutere con qualcuno all’altro capo della radio in una lingua incomprensibile. Un farfugliare di parole ipnotiche come filastrocche, ritmate dal lento incedere dell’imbarcazione, in un guardare senza vedere, parlare senza capire, millenaria incomprensione di popoli e culture.
Aveva la pelle carica di tatuaggi, una schiena liscia e curva e impregnata di volti e scritte, e se ne stava ingobbito su se stesso come schiacciato sotto il peso di tutto quell’inchiostro, ma si muoveva sul ponte con l’agilità di un ragno nella sua tana. Senza lasciare nulla al caso. Con meticolosa parsimonia. Calma raccapricciante. Puliva la stiva e la teneva pronta all’uso. Chiusa nell’attesa feconda di una futura ripartenza.
Johnni non aveva osato spiccicare una domanda che fosse una. Si era limitato a pattuire la cifra per uno strappo di sola andata e una scorta di acciughe in salamoia passando tutto il resto del tempo ad ascoltare i Pink Floyd e a calcare lo sguardo contro il mare. Se glielo avessi domandato ti avrebbe risposto con quel suo fare placido da saggio ventunenne che “non si fanno mai troppe domande a chi ti dà l’impressione di non voler dare troppe risposte.”
È così che era andata.
Scivolando per tre giorni e tre notti ad arare un mare immobile, come due estranei che dividono un viaggio senza davvero viaggiare.

“Merda” disse allora passandosi e ripassandosi la mano sull’ematoma e al solo pensiero del thailandese gli venne voglia di prendere a pugni quel che ancora restava della notte e ricacciarla indietro insieme all’amplificatore sfondato che ancora gli fischiava nell’orecchio. Quel bastardo masticacoca avrebbe dovuto avvertirlo, ecco cosa avrebbe dovuto fare, avvertirlo, invece che starsene aggrovigliato su se stesso a sghignazzare come una iena in attesa del suo turno.
“Che stupido”, sputò e risputò, col volto in equilibrio sul collo malmesso “è proprio per questo che rideva.”
Perché stava aspettando…
“Perché sta ancora aspettanto” aggiunse. Poi respirò, un respiro ennesimo e taciturno, e il calima gli entrò nuovamente dentro.
Sensazioni.
Inquiete stringhe che legano tra sé oggetti e pensieri, parole e persone, universi allungati su cui scorrono ritmiche d’origine ignota. Una cellula vibra d’improvviso, percossa da un fremito senza senso né nome, e si scuote ridestandosi, e sparge onde attorno, germogliando in un suono ora dolce ora insofferente. Vite dentro vite, linguaggi che precedono le lingue.
Cose di cui fidarsi, le sensazioni.
Stringhe che parlano, lacci che legano, e che cominciano a vibrare prima ancora di darci il tempo di aprire bocca e starnutire.
Ed è alle cellule che parlò il calima. Ripiombandole indietro alla notte del suo arrivo, sfiorandole appena per poi dileguarsi senza neppure ascoltare il suono che da lì era uscito. Suono tenue, a dire la verità. Ma antico, sottile come certe filigrane che sembrano smembrarsi al vento, ma resistono nei secoli ad affermare il tacito assenso dell’immortalità. Monolitico e compresso. E fermo. Ben deciso. E così sottile nell’afferrarlo da dentro, che se non fosse stato per quella sensazione che ne scaturì neppure si sarebbe accorto della sua presenza: fu come ritrovarsi di fronte a qualcosa di mai incontrato prima ma che il tuo istinto ha già riconosciuto come vecchio, come primordiale, e sta come cercando di metterti in guardia. (“Stai attento Johnni” dice, “attento”).
Era sceso dalla barca che era buio, sotto un tappeto sfrangiato da stelle e da ali di falene. A centinaia sbattevano le ali cozzando l’una contro l’altra e cadendo a tratti sulla sabbia col rumore sordo di crackers che si spezzano a contatto col suolo, e morendo così com’erano vissute, falene, dal niente nel niente, a scrivere poesia là dove magari avresti voluto leggere prosa.
Il thailandese stava controllando che lo scafo non si fosse arenato, masticando come suo solito, si era messo a preparare la stiva per ricevere il ‘carico’, e Johnni le aveva sentite, ne era certo, (le aveva percepite santiddio) quelle ombre silenziose scivolargli al fianco come fantasmi sputati dalle tenebre e senza neppure accorgersi della sua presenza salire a bordo.
Per un istante gli era venuta una voglia sfrenata di mettersi a ridere di se stesso.
Era questo che doveva caricare.
Niente traffici d’armi o partite di droga, o quant’altro fosse andato farneticando nella sua mente di fine allibratore.
Ma invece di scoppiare a ridere si era tutto a un tratto ammutolito con quel riso schiacciato in gola insieme a un vuoto gelido, stretto in petto come un interrogativo che ha già in sé la propria risposta. Uomini, signori. E di cose se ne potrebbero scrivere a riguardo, se ce ne fosse tempo e voglia, ma sto strappando parole a furia dal silenzio della notte cristosanto, e allora vi basti sapere che alle volte ciò che è usuale diviene d’improvviso estraneo e ti lascia dentro una sporca paura senza nome.
Guardi gli uomini e vedi desideri. Vedi esseri abbarbicati sulla storia ad innalzare formicai, tenuti assieme dalla sola forza dei propri pensieri.
Ecco quello che vedi. Vermi e topi, e semidei, morsi dalla taranta della vita. Fremono e strisciano, e alzano il capo ad annusare le stelle, e soffrono e cercano. Vedi che scopano, e sudano, e si consumano tra corpi e parole. Da milioni di anni amano. Uccidono. Uomini assassini e poeti, misteri incantevoli ancora in cerca del proprio nome. Uomini falene che cascano in un crac di cui nessuno sa parlare, e ti scivolano a fianco come se neanche esistessi, lasciandoti solo come un palo piantato nella sabbia a fissare il buio.
L’assurdo di una biglia che galleggia nell’assurdità di un silenzio.
E così il grande Johnni B, quello stesso Johnni B che dalle sue parti tutti chiamavano Johnni Solitario e che incontravano d’inverno con lo sguardo ebbro e desolato dell’avventuriero, proprio quel Johnni B si era sentito smarrito, improvvisamente troppo solo e triste per affrontare quell’ignoto, e aveva provato l’istinto di girarsi e pregare il thailandese di riportarlo indietro all’istante, il desiderio infantile di supplicare quello sconosciuto di dirgli almeno una parola. Una. Cazzo. Di parola che non fosse la sua mezza risata supponente. Perché siamo esseri umani no? E dobbiamo aiutarci a vicenda no? Era rimasto per un attimo immobile ad ascoltare i passi alle sue spalle e senza riuscire a girarsi aveva sentito su di sé, allora, sì, i denti gialli del thailandese stagliarsi nel nero pece della notte come a dire: “questo posto ti cambierà bello. E non necessariamente in meglio.”
“Forse avrei dovuto voltarmi” sospirò Johnni “patti o non patti, ovunque fossero diretti. Forse avrei dovuto risalire a bordo e chiedere di essere riportato indietro.” Cercò la giusta posizione per alzarsi senza soffrire troppo per il dolore al collo e disse “forse avrei dovuto tornare indietro.”

(Tratto dal romanzo/allucinazione/flusso di coscienza TOTEM, Edizioni Clandestine, 2003)



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