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RASSEGNA STAMPA/ La sconfitta di Vittorio Sgarbi, l’anti-Saviano

Creato il 20 maggio 2011 da Iltelevisionario

RASSEGNA STAMPA/ La sconfitta di Vittorio Sgarbi, l’anti-SavianoRassegna stampa dedicata al flop senza appello di Vittorio Sgarbi con lo show su Raiuno Ci tocca anche Vittorio Sgarbi – Or Vi Sbigottirà. Lo stesso Sgarbi, sulle pagine de Il Giornale, ha raccontato la sua sconfitta assumendosi tutta la responsabilità dell’insuccesso, affermando che “non avrei pensato a risultati così modesti” e che “bisogna rassegnarsi, rinunciare a una televisione diversa, accettare la legge dei numeri, chiudere tutto e lasciare spazio a pacchi, isole e caricature forzate di finti personaggi”.

Vi racconto la mia sconfitta in diretta

(di Vittorio SgarbiIl Giornale) Difficile situazione. Non posso non assumere tutta la responsabilità dell’insoddisfacente risultato della trasmissione che fu Il mio canto libero ed è stata Ci tocca anche Sgarbi. In realtà è toccata a pochi. E quei pochi (due milioni) sono prevelentemente apparsi soddisfatti se devo giudicarlo dalle congratulazioni verbali, dalle telefonate, dai messaggi telefonici dalle e-mail che hanno sommerso me e i miei collaboratori, tutti unanimi nel riconoscere l’originalità e la novità della trasmissione dalle scenografie agli argomenti, alle sigle, alla ricostruzione della mia storia televisiva con riferimenti a Federico Zeri, a Francesco Cossiga ed altri modelli come Buster Keaton nella sua resurrezione televisiva.

Devo riconoscere che, pur nella consapevolezza di alcune sbavature e nel difficile rapporto con gli ospiti, dal vescovo di Noto a mio figlio Carlo (apprezzatissimo e premiato con il 14% di share) Morgan, Carlo Vulpio, non avrei pensato a risultati così modesti per la naturale considerazione che ho di chi, come persona, guarda la televisione e per la convinzione di persuadere all’attenzione con gli argomenti e la dialettica come ho dimostrato in innumerevoli circostanze.

E invece no. Non è bastato. Raiuno, come molti mi avevano preannunciato, ha spettatori tradizionali abituati a un’offerta facile di prevalente intrattenimento, in prima serata. Così è accaduto, insistere su Raffaello e Michelangelo e poi, addirittura, deviare su Filippo Martinez e Luigi Serafini, contemporanei più intelligenti che provocatori, è troppo audace.

Pretendere poi di parlare della bellezza dell’Italia, del paesaggio, del mondo agricolo perduto con il conforto di Leo Longanesi, Guido Ceronetti, Pier Paolo Pasolini, Thomas Bernhard, Cesare Brandi, Carlo Petrini è un azzardo intollerabile se su un’altra rete c’è una partita di calcio o Chi l’ha visto?. L’assassinio di Melania è molto più attraente che non la richiesta di riflettere sull’articolo 9 della Costituzione o di ascoltare le parole struggenti di Antonio Delfini sul padre. E poi i dirigenti della Rai richiamano i valori, e indicano la necessità che il servizio pubblico contribuisca alla formazione e alla libertà delle coscienze. Tutte parole.

Ieri ho letto soltanto una sconfortante serie di banalità a cui è impossibile rispondere perché non sono neppure in grado di ascoltare. Un giorno potremo aggiungere i loro nomi a quanti hanno deliberatamente contribuito a distruggere l’Italia, a sfregiare il suo paesaggio. Non se ne accorgono, parlano per luoghi comuni, chiamano centrodestra tutto ciò che non corrisponde alla loro, perfino ingenua, attrazione per il pensiero unico. E il loro unico problema è «quanto è stato speso», «chi pagherà il conto». Una preoccupazione che ossessiona le loro menti ma non le attraversa quando riguarda i costi del cinema, del teatro, della lirica, per cui nessuno si chiede «quanto costa» e anzi si protesta se si minacciano tagli di fondi.

Nella televisione dilagano soltanto voyeurismo e pettegolezzo, piccoli e grandi scandali, orride cucine e tinelli, consumismo e banalità. Ma questo è ciò che il pubblico vuole, secondo i dirigenti Rai, e la televisione non ha responsabilità educative, deve badare ai conti, nessuna riflessione sul fatto che nella tv si specchi la realtà e si formino i modelli culturali e che non comprendere la necessità di esprimere altri e diversi pensieri equivale a considerare che la scuola debba accomodarsi ai gusti e al piacere degli studenti rinunciando ad argomenti difficili. Perché leggere Leopardi, Guicciardini e Foscolo se agli studenti piace Jovanotti o il Grande Fratello?

Con questi principi ogni ipotesi di televisione legata al pensiero lascia il posto all’intrattenimento facile, alla pigrizia dell’ascolto. Così io non ho nulla da rivendicare e non ho alcuna intenzione di correggere, emendare o cambiare i miei argomenti che si esprime nella televisione che faccio in ogni situazione, anche nella contaminazione; ma, tanto più, se io la devo costruire come forma del mio pensiero, sono anzi certo che se l’ascolto fosse stato più alto le mie idee non sarebbero state criticate come se si potesse misurare la loro efficacia o il loro peso nella quantità di persone che le ascoltano. Questo sembra volere la Rai, non una televisione che indica ed educa suggerendo letture, stimolando suggestioni, curiosità.

Per quelle pagine e per quei pensieri io ho immaginato uno studio meraviglioso, derivato dalla «Scuola di Atene» di Raffaello, non l’avrei contaminato con le vicende di Avetrana o le storie di Ruby; mi sarei astenuto dall’ossessione di occuparmi in modo pressoché esclusivo (come «Annozero» o «Ballarò») del nostro presidente del Consiglio. Non sono stato premiato ma non cambio idea, d’altra parte ricordavo ai miei severi critici, che forse non hanno ascoltato le belle pagine di Antonio Delfini, che da molti anni nei giornali la terza pagina è stata spostata verso la fine dei giornali, nei più piccoli fra pagina 19 e pagina 25, sul Corriere ad esempio dopo le Cronache regionali, intorno a pagina 50 (ieri a pagina 55). Cosa vuol dire? Che si accetta che molti non ci arrivino, o non le leggano, in esatta corrispondenza con il modello televisivo, per cui la cultura, i libri, le mostre vanno in terza serata. Una scelta rassegnata e obbligatoria.

Ma come si può sperare che un paese rinasca, che nuove idee si agitino se la televisione ha paura della cultura perché fa insufficienti ascolti, e allora non bisogna insistere, tentare di affermare un altro modo di fare televisione che non siano dibattiti regolati e confezionati ma discorsi e riflessioni argomentate, di uno scrittore (l’altroieri Gavino Ledda) di un vescovo (il teologo Antonio Staglianò), di un giornalista appassionato come Carlo Vulpio, di un cantante colto e originale come Morgan? No. Bisogna rassegnarsi, rinunciare a una televisione diversa, accettare la legge dei numeri, chiudere tutto e lasciare spazio a pacchi, isole e caricature forzate di finti personaggi. Raiuno deve difendere la propria mediocrità e rinunciare ad ogni ambizione di mostrare forme, immagini, idee nuove. Benissimo. Obbedisco.

L’invidia dell’anti-Saviano finisce in fallimento

(di Antonio Dipollina - La Repubblica) Non ci tocca più Sgarbi. Il programma in onda dalla più grande piazza del paese, la prima serata di Raiuno, cancellato in fretta e furia, una sorta di “Ops”. E il Capo che non la prende bene, ricevendo a Roma Vittorio Sgarbi e i suoi collaboratori a tarda sera, a Palazzo Grazioli, e decretando che non è il caso di continuare.Sgarbi si arrende e contrattacca il giorno dopo come può, parla di cultura che non viene accettata: 8 per cento di ascolti, poco più di due milioni, l´irrisione di una partita di calcio tra squadre portoghesi (e su Rete4) che raccoglie più pubblico. Una débacle spaziale per un programma assurdo, che voleva essere tutto e alla fine non era pressoché nulla: voleva essere Celentano o la sua evoluzione, Sgarbi, soprattutto voleva essere l´anti-Saviano. Dopo il clamoroso successo dello scrittore con Fabio Fazio, erano volate parole di fiele e di invidia purissima, più un solo grido: lo facciamo anche noi e meglio. Buonanotte. Una puntata in cui solo un esegeta pazzo di post-modernità televisiva poteva trovare godimento. Sgarbi ha voluto una micidiale auto-celebrazione sparando tutte le cartucce in una sera, giocando il ruolo di figlio con il padre, di padre con il figlio (carramba!), di incrocio auto-nominato tra 1) Walter Chiari 2) Francesco Cossiga 3) Carmelo Bene 4) Pier Paolo Pasolini. Forse, come dice il Giornale, tira una brutta aria (respirare a pieni polmoni), forse il modello che si voleva combattere aveva un minimo di pratica con la tv, e con il pubblico.

Sgarbi, e pensare che qualcosa di buono c’era

(Cose di tele di Alessandra ComazziLa Stampa) La trasmissione appena cominciata è già finita. «Ci tocca anche Sgarbi», nello sgangherato debutto, è stato seguito da 2 milioni 64 mila persone, 8,27 di share. Un’enormità di basso ascolto per Raiuno, che probabilmente, complice l’arrivo del nuovo direttore generale Lorenza Lei, non vedeva l’ora di liberarsene. Che almeno non smontino lo studio, ci facciano altro. Mancano i soldi per tutto, quanti ne avranno spesi per la ricostruzione della «Scuola di Atene» di Raffaello? L’idea mi agghiaccia. Questo è un programma nato male, con un protagonista dilettante, gli autori dicono di essere stati «azzoppati». Il problema di fondo è credere che la tv la possono fare tutti. A maggior ragione uno come Sgarbi, che la frequenta, è un polemista, è colto, va controcorrente. Caratteristiche non sufficienti a fare un buon programma. Passi il fatto che risulta antipatico, i personaggi popolari lo sono spesso. Però i professionisti sono tali perché sanno gestire lo studio, impaginare la trasmissione, impugnare le polemiche, domare gli ospiti. Sgarbi invece era in balia di se stesso e di Dio, io io io. Lui figlio, lui padre, ma chi se ne stropiccia. Nel marasma dell’affabulazione, nelle rivendicazioni, si perdevano anche le parole dedicate all’arte e alla bellezza. E acquisiva una luce incerta la polemica sull’eolico e la mafia, portata avanti brillantemente da Carlo Vulpio, che qualche fondamento forse ce l’ha.

Sgarbi sconfitto dal suo pandemonio

(di Walter Siti - La Stampa) Vittorio Sgarbi è il peggior nemico di se stesso. Ha lavorato per sei mesi a una trasmissione attesa e ambiziosa, ha ottenuto un budget altissimo che gli ha permesso una bella e fastosa scenografia. A pochi giorni dalla messa in onda, la neo-direttrice della Rai gli ha vietato di incentrare la prima puntata sul tema di Dio, le resistenze della vedova di Battisti gli hanno impedito di usare il titolo che per un mese era stato pubblicizzato, «Il mio canto libero». Che cosa farebbe una persona ragionevole in simili condizioni? Rinvierebbe la messa in onda almeno di una settimana e cercherebbe di ristrutturare la trasmissione per trovare un nuovo baricentro. Ma era partita una polemica sui giornali a proposito di malversazioni al Comune di Salemi di cui è sindaco, qualcuno aveva invocato l’opportunità di abolire il programma; fibrillazioni che si sarebbero spente in pochi giorni e che lui poteva trascurare forte della buona coscienza. Invece si è sentito chiamato sotto le armi e ha deciso di andare in diretta nonostante tutto, fidando sull’idea sbagliata che la confusione potesse essere scambiata per improvvisazione geniale.

In assenza del teologo eretico che era stato annunciato, tutto il peso della religione è caduto sulle spalle del povero vescovo di Noto, che se l’è cavata citando un passo “scandaloso” del concilio di Toledo; da Dio si è scivolati al Padre, declinato in tutti i sensi; si è visto il figlio, Carlo Sgarbi, in un confronto forse troppo verboso, e il padre, Giuseppe Sgarbi, commovente e di poche parole. Si è letta una bella pagina di Antonio Delfini e si sono ascoltate le scuse postume di Sgarbi ad uno dei suoi padri spirituali, l’odiato-amato Federico Zeri. Altri nessi sono parsi azzardati e tirati per i capelli (Umberto Bindi “padre della musica”, lui che di paterno non aveva nulla?). Intanto la scaletta diventava carta straccia, mentre al di là delle telecamere gli autori e il direttore di studio avrebbero voluto morire. Ragazze che apparivano ai lati di Sgarbi con delle carte in mano e misteriosamente sparivano dopo lo stacco pubblicitario; molti che dovevano dire o fare delle cose e non le hanno né dette né fatte, sedie che dovevano esserci e non c’erano; dopo un imbarazzante scambio d’idee con Gavino Ledda (per via del padre padrone) palesemente convocato all’ultimo minuto, un misericordioso collaboratore è entrato in scena ad annunciare che lo spettacolo era finito, coro di bambini e tutti a casa.

E’ del tutto evidente che il genere letterario a cui l’oratoria di Sgarbi può aspirare non è il romanzo, e nemmeno il racconto: è piuttosto lo zibaldone, il coacervo, la satira menippea. La sua presenza ingombrante ha bisogno di sfoghi e digressioni autobiografiche; ma se savianeggia e comincia a parlare di macchina del fango fa un mestiere che non è il suo. Il pezzo di Carlo Vulpio contro l’eolico, giusto o sbagliato che fosse sul piano dei contenuti, narrativamente funzionava proprio perché non è stato Sgarbi a recitarlo. Se mai RaiUno avrà il coraggio di riprendere l’esperimento, magari in seconda serata, speriamo che all’informe si sostituisca la forma, perché anche il pandemonium dev’essere forma. Non basta citare Longanesi, Ceronetti, Bernhard, e Pasolini in aggiunta, per costruire una credibile alternativa di destra. (A proposito: quand’è che da entrambe le parti si smetterà di considerare i testimoni del passato come icone con venerazione incorporata e si cercherà piuttosto di intenderli, magari strapazzandoli ma considerandoli finalmente nostri contemporanei?).

Il flop di Sgarbi. E’ un capolavoro anche negli errori. Perciò dà fastidio

(di Fabrizio RondolinoIl Giornale) Due milioni di italiani intelligenti e fortunati (poco più dell’8% di quelli che avevano la tv accesa) hanno potuto assistere, mercoledì sera in prima serata su Raiuno, alle prove generali di un programma che non andrà mai in onda. Pochi gli spettatori – ragionano i ragionieri di viale Mazzini -, troppo alti i costi, e soprattutto troppi neuroni in libertà. La tv ci vuole stupidi più di quanto noi vogliamo una tv stupida.

Il mio canto libero – questo il vero titolo della più bella prima serata degli ultimi vent’anni – è stata un’esperienza pressoché unica, e suprema, di errori, eruzioni ed eccessi. «Al diavolo la scaletta», come giustamente ha inveito Vittorio Sgarbi mostrando al pubblico come si scardina un palinsesto: perché Il mio canto libero è l’irruzione della libertà dentro la forma, cioè della creatività irrazionale dentro la mediocre razionalità del format – proprio ciò che Sgarbi ha detto, e giustamente, dei suoi maestri: Cossiga, Carmelo Bene, Pasolini, Walter Chiari, Federico Zeri, Arbore, Buster Keaton.

La televisione è un flusso continuo di immagini amorfe: la forma della tv è il senza-forma. È un narcotico che agisce in una doppia direzione: verso chi guarda e verso chi è guardato. Qualsiasi cosa entri in tv, smette di essere reale. Guardiamo quello schermo oramai in ogni senso ultrapiatto con la stessa passione con cui guarderemmo l’oblò di una lavatrice.

L’altra sera, invece, qualcosa è improvvisamente apparso ai nostri occhi, la tv si è inverosimilmente accesa: qualcosa di ruvido, di urticante per i pornografi assuefatti al varietà, al quiz e al reality; qualcosa di sbagliato e d’incongruo pur nella familiarità dell’ambientazione (il grande studio, il palcoscenico, l’orchestra). L’arte è precisamente quella frattura nell’ordine razionale delle cose che ci induce a riflettere o, com’è successo mercoledì, a cambiare canale. La bellezza, come la libertà, prima di tutto fa male, dà fastidio. Soltanto un popolo intellettualmente corrotto come il nostro può scambiare la bellezza per una scatola di cioccolatini.

Tutti gli errori di Sgarbi, tutte le imperfezioni del programma, le sue ingenuità e le sue temerarietà, tutto quanto c’era di sbagliato nel Canto libero è parte integrante della sua perfezione. Dall’informe abbiamo visto sorgere sotto gli occhi dello spettatore – e fra i tanti meriti televisivi di Sgarbi c’è anche quello di aver ridato dignità e senso alla diretta – autentiche perle di assoluta bellezza (come il videopoema I giovani non esistono), involontarie parodie di Saviano (il dipietrista Vulpio contro l’eolico in Puglia), rendiconti personali (Oliviero Toscani e Salemi), introspezioni travestite da people show del pomeriggio (il figlio in studio e il padre in collegamento), omaggi ai «padri» e ai «padrini», discussioni teologiche sul sesso di Dio, parodie musicali spacciate per vere (Morgan, maltrattato e senza voce). E naturalmente, e soprattutto, un continuo, ininterrotto, strepitoso e sfacciato parlare di sé, soltanto di sé, esclusivamente di sé: il Canto libero è il primo programma in cui conduttore, ospite e tema della puntata coincidono. Anche per questo è un capolavoro.

Hanno vinto le capre, e la televisione torna ad essere una lavatrice. Gli esperti diranno che non poteva andare diversamente, e che per esperimenti del genere bisogna andare sul satellite, o in terza serata, o su una rete minuscola. Tutto vero, per carità: ma la grandezza del Canto libero sta proprio nell’aver preso a calci in faccia l’obesità intellettuale della platea televisiva tradizionale. E un’impresa del genere, come dicono gli spot, non ha prezzo.

Il sipario sull’one ego show di Sgarbi

(di Stefania CariniEuropa) I numeri parlano chiaro Infieriamo? Infieriamo. Tanto ci sono già i numeri che parlano chiaro, e che hanno determinato la chiusura dopo la prima puntata del tanto discusso one ego show di Vittorio Sgarbi. Questa è la conferma che il servizio pubblico risponde a idee politiche più che editoriali. È la dimostrazione che per fare un programma televisivo non basta mettersi davanti a una telecamera a parlare per ore e ore, pensando che di poter essere “vita senza forma”, e di poter essere idoli del cazzeggio stile Arbore (che la forma la conosceva, la sua era finta improvvisazione). È la prova che il pensiero di destra non riesce a darsi forma di successo nei talk show (a parte Kalispera), e si deve rassegnare al varietà e alle fiction.

Infine, forse, è la definitiva chiusura di una diatriba estetica (per la quale non dormivamo, davvero): Sgarbi funziona solo come prezzemolino. È quella spezia trash in più che serve a una puntata de La pupa e il secchione e de L’arena. Un ingrediente fra i tanti, non l’ingrediente principale. Forse Sgarbi si deve rassegnare proprio a questo. È comparsa di lusso, ma pur sempre comparsa. Crediamo però che il suo Ego non se ne capaciterà mai.

Autoanalisi Nulla deve andare contro Sgarbi e il suo Ego. Che se qualcuno parla dietro le quinte o in sala, entrambi si inalberano. Che se Morgan accenna ad andarsene mentre il nostro si difende dalle accuse di mafia, quelli sbraitano (certo che Morgan ormai accetta qualsiasi cosa, poi però fa l’imbarazzato). Sgarbi e il suo Ego hanno parlato di paternità, hanno cioè elencato tutti i loro ispiratori, molti dei quali non hanno potuto difendersi da tale accusa perché non invitati o deceduti. Sgarbi e il suo Ego hanno parlato di se stessi, hanno ripercorso la loro carriera, hanno difeso ogni loro momento, azione, parola da chiunque in questi anni abbia mai avuto da ridire. Alla fine, però, Sgarbi e il suo Ego hanno mostrato la loro vera faccia quando in studio è comparso il loro Figlio e il loro Padre. Una scenetta molto italiana, ma anche una rappresentazione della Trinità (Ego e Sgarbi sono lo Spirito santo, ovviamente).

Ecco cosa voleva dire parlare di Dio nelle intenzioni del sindaco di Salemi. Eppure, c’è una crepa in questo tronfio parlar di sé. Tutta la puntata sulla paternità era volta a santificare i padri, ma allo stesso tempo a sostenere che la donna è il verbo, ovvero padre e madre insieme. Così, da un lato Sgarbi pareva buttar fuori un gigantesco complesso d’Edipo, dall’altro usava ore e ore di diretta per giustificare davanti al mondo il suo essere un padre assente. Ed ecco che uno show insulso andava letto come espressione di rimossi e rimorsi, un’epifania mal riuscita da conservare negli annali. Adesso come faranno Sgarbi e il suo Ego a trovare un’altra rete che paghi per questa autoanalisi in prime time?



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