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[Recensione] Salva con nome di Antonella Anedda

Creato il 12 ottobre 2012 da Queenseptienna @queenseptienna

Salva con nomeTitolo: Salva con nome
Autore: Antonella Anedda
Editore: Mondadori
Genere: Poesia
Anno: 2012
ISBN: 9788804617631
Num. Pagine: 119
Prezzo: 16,00€
Voto[Recensione] Salva con nome di Antonella Anedda
Nota: Articolo scritto in collaborazione con Federica Dotto

Contenuto: Dai labirinti sotterranei di una memoria legata a un passato anche remoto, o addirittura pre-natale, affiorano brandelli di messaggi, volti e nomi di figure parentali, eventi di presenze ormai inghiottite dal tempo e dai paesaggi che li videro agire e soffrire, nella irredimibile solitudine dei loro destini. Antonella Anedda in ‘Salva con nome’ ci conduce, con fermezza di voce asciutta e tagliente – cucendo con pazienza le proprie parole, come su un ramo il comporsi delle foglie – in una dimensione inquieta tra l’atemporale e l’onirico, dove le immagini si affacciano, quasi spettrali, pronte a dissolversi a contatto con l’aria. Solo il nome, solo la forza della parola riesce a salvarle: una parola, peraltro, sempre fortemente radicata nelle cose, nella realtà, nell’origine, come vediamo anche dall’uso, pur molto controllato, della lingua sarda. Una realtà che riesce a evidenziarsi attraverso i numerosi frammenti sparsi di una minuta quotidianità domestica, dai particolari di una condizione di precarietà ineludibile dove l’idea della morte – o la sua presenza condotta dal ricordo o dall’ansia – coesiste stabilmente, compenetrata nelle cose e negli esseri su cui gli occhi della poesia vengono a posarsi“.

Recensione: Come abbiamo visto QUI, il “Nome della Rosa” di Umberto Eco si chiudeva con una constatazione amara. Alla fine, di tutto ciò che ci riguarda, non restano che nomi.

Antonella Anedda ci offre una riflessione ancora più dolorosa. Non rimarranno nemmeno quelli:

Cos’è un nome? Nulla. Un suono che chiama un corpo, un campanello che ti aggioga. Ricevere un nome è la prima prova che siamo in balia degli altri. Non avere nome significa fuggire: pochi hanno il coraggio di andarsene dal nome che hanno fino al nome che sono.

Nulla esiste, nemmeno i ricordi. Se vengono meno i ricordi, anche i nomi si eclissano, insieme a quanto conserva la memoria: un viso, un paesaggio, un’immagine.

” Tu non ferisci”, dice,/ma l’aria brucia e rade – a falce – il passato.

La morte dissolve ogni cosa, i ricordi e i nomi. Cade il corpo e scivolano in un dirupo i pensieri, frantumandosi come il cristallo. Se il corpo rimane dov’è, lo spirito procede oltre, scivola ancora più giù, in un’altra dimensione. Le cose, il corpo, rimangono dietro. L’ultimo ricordo, l’immagine della morte, sopravvive per un istante, quel tanto che basta per voltarci e riconoscere l’involucro dal quale ci stiamo separando. A esso ci lega un tenue filo di seta.

Tutto poi si placa, con l’ultimo pensiero che emigra, quando quel filo sottile si spezza. Giungono così gli ultimi rumori e le tracce di ciò che torna a un primitivo senso di ordine. Un ordine che viene percepito nell’ultimo istante da chi a sua volta torna alla sua primitiva forma, quella fetale.

Nell’Ade non possiamo portare nulla, né un capello, né un’unghia che ci siano appartenuti. Lo spirito continua il salto, procede nella caduta, nella frana. In esso, ma ancora per poco, rimangono tracce dell’ultimo pensiero, poche troppe sillabe anche solo per un nome.

Da dove resta (non spostano il corpo)/spinge in un dirupo le parole/ una manciata di sillabe/ prima rigide, poi frantumate.

L’autrice continua, di componimento in componimento, a costruire e a tessere immagini delicate intorno a un corpo morente, potente quanto una reliquia. La pioggia è come una benda sulla schiena; una foglia gialla è una goccia di unguento sulla fronte, il sangue è raccolto in un catino d’osso.

La mente si posa sulle cose, fossero anche i muri di una stanza, si disperde e striscia tra le mattonelle, si unisce al mondo circostante che per questo diventa vivo, misterioso, cessa di essere materia fredda e inerte. La realtà che si abbandona si confonde in visioni che si propagano nello spazio fisico, come in una esplosione, quando la vita corporea fino a quel momento era stata implosione, limite, chiusura.

Simile al morente, lo spirito del poeta vive questa deflagrazione dello spirito. Appaiono più vere del vero le immagini surreali e spaventose che egli scorge, destinate a rientrare in qualche fessura, così come sono uscite.

Al morente e al poeta sono comuni l’angoscia, il timore di qualcosa di ignoto che tuttavia libera dalle inquietudini, rinfranca dallo spavento che turba, limita e stringe, sigilla e tappa. Dall’ignoto perviene tuttavia una promessa:

 La casa è l’architetto del suo panico/ogni stanza la geometria dello spavento/ ogni mattone compone un alfabeto di rovina (…)

Dalla porta mal chiusa un vento australe/ sembra portare una promessa

La porta mal chiusa di Anedda sembra richiamare il portone mal chiuso di Montale, da cui si scorge il giallo dei limoni che disfa il gelo dei cuori. Che tuttavia è solo promessa, mai certezza, e però qualcosa che finalmente si spalanca contro il vuoto, l’assurdità del vivere.

Montale, come ci hanno insegnato a scuola, non esce da quella porta, non fugge dalla maglia rotta della rete. Anedda ci invita, nei suoi versi, a proseguire, a non arenarci nel nostro esistere limitato, chiuso e doloroso.

In Antonella Anedda la nube, la paura, il dolore sono fiumi che irrompono e che soverchiano se si resiste loro fuggendo, implodendo, chiudendosi in uno spazio sempre più angusto. Ecco che, al contrario, non trovando essi (la nube, la paura, il dolore) più resistenza, si placano, ci danno e assumono compattezza.

Ciò che mette paura è l’indefinito-infinito che avvolge, più pressante e incombente del deserto. Se Leopardi intuiva l’indefinito-infinito dalla siepe che lo separava da esso, a maggior ragione tutto ciò che udiamo, sentiamo, percepiamo, fino al tintinnare dei piatti in cucina, l’urtare tra loro delle sedie, la tovaglia, le briciole di pane, i panni da stirare, ci fa da schermo. L’indefinito-infinito è un’intraducibile intuizione dalla quale ci proteggiamo creando confini, luoghi, spazi in cui vivere, dove la luce passa e viene imprigionata, dove scandiamo le ore e ci colmiamo di una serie di occupazioni, di intervalli inconsistenti.

Davide e Federica Dotto


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