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[Recensione] Upstream Color (di Shane Carruth, 2013)

Creato il 03 febbraio 2014 da Frank_romantico @Combinazione_C
[Recensione] Upstream Color (di Shane Carruth, 2013)
Il cinema indi non è soltanto il cinema della libertà espressiva e della sperimentazione. Non è neanche solo il cinema dei budget risicati e dei cast sconosciuti. Il cinema indi è il mondo del self made, il cinema delle idee, la prova che non servono per forza grandi budget per fare dei bei film. Oddio, se ci sono i soldi tutto diventa più facile, ma non sono l'essenziale, nonostante quello che ci vogliano far credere. Ora, non voglio dire che bastano le idee a fare un buon film. Fosse così saremmo bravi tutti. No. Serve talento, abnegazione, capacità. Studio. Per metterle in pratica 'ste benedette idee ci vuole qualcuno che sappia quello che sta facendo. E non è detto che, anche in questo caso, il risultato sia univocamente eccellente. O buono. O accettabile. 
C'è un regista che qualche anno fa ha fatto parlare di se nel circuito indipendente. Si tratta di Shane Carruth, quello di Primer, film del 2004 a bassissimo costo (si parla di 7000 dollari) di cui lui fu praticamente tutto: regista, attore protagonista, sceneggiatore, produttore, addetto al montaggio, compositore della colonna sonora. Un film di fantascienza sui viaggi nel tempo. Immaginate: un film di fantascienza sui viaggi nel tempo girato con 7000 dollari. Carruth fece molto parlare di se allora divenendo paladino dell'underground, simbolo di un cinema fatto in casa dal fortissimo impatto, simbolo di un certo tipo di cinema che non spiega e che lascia che tutto fluisca. Ma non è di Primer che voglio parlare oggi: adesso preferisco parlare dell'ultima fatica uscita proprio l'anno scorso e passata totalmente sotto silenzio. Voglio parlare di Upstream Color (2013).
[Recensione] Upstream Color (di Shane Carruth, 2013)
Kris è una ragazza che un giorno viene rapita e drogata tramita una larva (o un verme) che annulla la volontà di chi la ingerisce. Dopo essere stata derubata, Kris - che non ricorda nulla di quello che le è successo - incontra Jeff. I due sembrano innamorarsi, ma c'è qualcosa che li lega più del sentimento. Qualcosa che dovranno scoprire per poter continuare a vivere.
Riassumere la trama di un film come Upstream Color è difficile. Si tratta di una fantascienza che trascende la fantascienza. Nel senso che l'input fantascientifico è, appunto, solo un input. In realtà Upstream Color è un thriller e una storia d'amore. E' un film esistenzialista sulla solitudine. E' un dramma.  Si parla poco, quasi per nulla. Ci sono lunghi silenzi interrotti da dialoghi ripetitivi, monologhi, follia. Si respira aria di Lynch ma non l'onirismo lynchiano. Si respira la poetica della carne di Cronenberg, ma ad un livello quasi mistico. E poi ci sono dei maiali. Non è facile comprendere un film come Upstream Color. Lo intuisci, più che altro. Lo vivi, ad un certo punto arrivi persino a subirlo. Ma non arriverai mai a capirlo fino in fondo, forse perché a Shane Carruth non interessava essere capito. E questo può essere sia un bene che un male.
[Recensione] Upstream Color (di Shane Carruth, 2013)
Oggi, a qualche giorno dalla visione, non saprei ancora dire se Upstream Color mi è piaciuto oppure no. Ci penso e ci ripenso, ma non riesco ancora a decidermi. Sono troppi i punti oscuri. Di solito non do tantissima importanza a queste cose, la storia può anche passare in secondo piano. Ma questo film è talmente self made (anche in questo caso il regista fa tutto) da non avere una qualche specifica ricerca visiva. La fotografia è nichilista, il film è fantascienza applicata alla realtà, i meccanismi non vengono spiegati (un bene) ma il regista non fa nulla per portare lo spettatore a comprenderli (un male) perché non ci sono veri e propri indizi. Lo stesso montaggio diventa labirintico. E alla fine ci si perde. Alla fine ci si può sentire abbandonati. Alla fine la cosa veramente meravigliosa è una storia d'amore originalissima. Ed è su Jeff (Shane Carruth) e Kris (Amy Seimetz) che si basa davvero il film, sulla solitudine, sulle mancanze che entrambi vivono, odiano e di cui arrivano a nutrirsi. E alla fine il loro amore diventa, in un certo senso, amore per se stessi, l'unico modo per sfuggire al caos che li circonda (e che coinvolge lo spettatore, negandogli qualsiasi punto di riferimento).
Alla fine Upstream Color è un film che è possibile odiare e amare in ugual misura. Decidere sta agli occhi di chi lo vede. E alla sua capacità di accettare o meno questo tipo di pellicola. Io, forse, mi trovo ancora nel mezzo. 
[Recensione] Upstream Color (di Shane Carruth, 2013)

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