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Requiem per la Moda pt. 2: fast #fashion crash

Creato il 25 gennaio 2013 da Intervistato @intervistato
Dicevamo: la Moda si muove troppo velocemente.
E  proprio il tema della velocità introduce egregiamente il secondo capitolo di questa saga.

Requiem per la Moda pt. 2: fast #fashion crashPartiamo da un dato di fatto. Oggigiorno chiunque, con un modesto investimento, può vestirsi come una It girl fashionista in cinque minuti: basta andare da Zara, da Mango, H&M eccetera e mettere insieme un outfit a occhi chiusi. Essere “alla moda” è evidentemente alla portata di tutti, e proprio per questo  non ha più alcun valore. (Questione diversa è avere uno stile, proprio perché lo stile non si trova in vendita).
Negli ultimi decenni, grazie al fast fashion, capi graziosi e in linea con le ultime tendenze sono diventati accessibili a un numero sempre crescente di persone, in quantità sempre maggiore, a prezzi sempre più irrisori. Il che in teoria è una cosa positiva: non fosse che questo meccanismo, portato all’estremo, sta generando un corto circuito nel sistema. Perché per continuare a fare profitti i retailer fast fashion devono avere grossi volumi, e tenere bassi i costi di produzione. Delocalizzare è una scelta obbligata.
E pecca d’ingenuità chi pensa al classico Made in China: oggi anche quello ormai è un lusso, e per tagliare veramente i costi, è necessario spostarsi in Banghladesh, nelle Filippine, in India – insomma in quei paesi che non offrono grandi expertise ma che sono famosi per i costi di mandopera più bassi al mondo (e sì, non è una coincidenza, anche per gli incendi nelle fabbriche). 
Ovviamente la logica del risparmio si applica anche alla scelta delle materie prime: inevitabile, date queste premesse, che la qualità ne faccia le spese. Il problema però è relativo: perché - diciamocelo onestamente - quanti consumatori al giorno d’oggi sono in grado di distinguere una cucitura alla francese da una finitura fatta col taglia-e-cuci, o di apprezzare le differenze tra i diversi tipi di fibre?
Complice la velocità con cui si avvicendano le tendenze, l’abbigliamento sta diventando un bene usa-e-getta. E mentre nei brand di lusso tentano di corre ai ripari ampliando le collezioni di “continuativi” (cioè quei capi classici, senza tempo, sempre uguali a se stessi – per intenderci, quelli che non vanno in saldo) a me viene da fare una mesta considerazione.
Non è solo che la moda è morta: è che si è proprio suicidata.
Elisa Motterle | @downtowndoll


Fast fashion crash
So, we were saying: fashion is moving too fast. And it's exactly the topic of speed that introduces the second chapter of this saga.
Let's start from a fact. Today anyone, with a modest investment, can dress like a girl fashionista in five minutes: it's enough to go to Zara, Mango or H&M, and put together an outfit with closed eyes. Being "in fashion" is evidently possible to anyone, and it is the reason why it doesn't have any value anymore. (Another matter is to have a style, because style isn't for sale.)
During the last few decades, thanks to fast fashion, nice clothes in line with the last tendencies are available for an increasing number of people, in increasing quantities, for prices that are lower and lower. Which in theory is positive: if it weren't that this mechanism, taken to the extreme, is generating a short circuit in the system. Because in order to continue to make profits, thefast fashion retailers must have big quantities, and keep the production costs low. Delocalization is an obliged choice.
And whoever thinks about the classical Made in China is simply naive: even that is a luxury nowadays, and in order to really cut on costs it is necessary to go to Bangladesh, the Philippines, India - those places that don't have great expertise but are famous for the lowest manpower prices in the world (and yes, it's not a coincidence, also because of the fires in the factories).
Obviously the saving logic is also applied to the choice of the materials: inevitable, given these premises, that quality is the one who suffers. The problem however is relative: because - let's face it honestly - how many consumers today are capable of telling the difference between a French sew and one done with a sewing machine, or appreciating the differences between several types of fibers?
Helped by the speed with which tendencies follow one another, clothing is becoming a disposable good. And while luxury brands try to supply by widening their collection with "continuatives" (which are the classical clothes, timeless, always the same - the ones that never go on sale, to be clear), I feel like making a very sad consideration.
It's not that fashion is dead: it actually committed suicide.
Elisa Motterle | @downtowndoll

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