Retreat

Martin e Kate, lui architetto, lei giornalista, decidono di andare a rivivere i giorni migliori, ritornando a Blackholme Island, un isolotto al largo della Scozia sul quale avevano soggiornato quando erano ancora innamorati. il cottage dove si stabiliscono è completamente isolato dal resto del mondo, ad eccezione di una radio che comunica solo con il pescatore\affittuario della casa, Doug. l’idillio- ma sarebbe meglio dire, l’incubo- viene interrotto dal ritrovamento di un militare svenuto e coperto di sangue che non porterà affatto buone notizie.
I. Fairweather
la trama s’incastra a orologeria con i meccanismi narrativi precisi e taglienti come lame di rasoi. la tensione psicologica tra i coniugi protagonisti è insinuata sottilmente e la sensazione è che stia lì lì per scoppiare- prorompere in un’esplosione atomica di frustrazione, rancore e rabbia- quand’ecco che arriva qualcosa di ben più sconvolgente a scombinare i piani: il soldato Jack, le sue strane ferite e il suo ancor più strambo (e sintetico, e inverosimile) racconto di come l’umanità è stata contagiata da un fantomatico virus delle vie respiratorie. in quanto unico detentore di informazioni (nell’era in cui viviamo, la linfa vitale), il tertium poggia su una posizione di comodo: sta ai due decidere di credergli o no, oppure astenersi dall’esprimere giudizi (in una volgarizzata epoché). difatti, drammaturgicamente s’assiste ai tentativi di spostamento del baricentro del Potere (rappresentato ora dall’arma), attraverso vie dialogiche, deliri escatologici e sforzi di seduzione stategica (o indotta?). il climax che conduce all’epilogo è condotto magistralmente, accendendo piccole micce lunghi i crinali del twist finale, per poi accendere il candelotto di dinamite a pochi secondi dallo schermo nero. esplosione, dissolvenza. un fiume di nichilismo.

titolo originale: Retreatun film di Carl Tibbetts2011