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Schiavi degli uomini e Servi di Dio. Lettura e riflessione di Asma Gherid su Schiavitù mediterranee, opera recente di Giovanna Fiume

Creato il 20 gennaio 2011 da Viadellebelledonne

Schiavi degli uomini e Servi di Dio.

Lettura e riflessione su Schiavitù mediterranee, opera recente di Giovanna Fiume.

Asma Gherib

Schiavi degli uomini e Servi di Dio. Lettura e riflessione di Asma Gherid su Schiavitù mediterranee, opera recente di Giovanna Fiume

1. Sfogliando l’opera.

L’opera si compone di 349 pagine, edite nel 2009 da Bruno Mondadori, a Milano. Nulla è lasciato al caso, perfino la copertina è colma di significati e riferimenti meritevoli di profonde letture e riflessioni. Il frontespizio abbraccia gelosamente un quadro che rappresenta una parte del soffitto ligneo del palazzo nazionale di Sintra, una tra le città più meravigliose al mondo, la cui ricchissima storia ricorda note presenze e dominazioni musulmane che dominarono in Portogallo per più di quattro secoli[1].

Esso, inoltre, diventa un punto di partenza fondamentale per questa riflessione poiché la foto che l’autrice ha scelto per il frontespizio del suo libro è un’immagine registrata dal palazzo stesso. Cosa significa per Giovanna Fiume[2] questa foto e cosa vuole dirci tramite essa?

Il mare, le navi, e le bandiere turche, sono elementi fondamentali dell’immagine, ma il loro significato rimane oscuro se la foto non si collega al titolo Schiavitù Mediterranee: siamo dunque davanti al Mediterraneo, ma siamo anche di fronte al fenomeno della Schiavitù. Non sorprende dunque se dalla formula: Mediterraneo + Navi + Bandiere turche, ne deriva l’impero ottomano, la pirateria, la guerra, un risultato che ci porta direttamente al sottotitolo dell’opera, Corsari, rinnegati e santi d’età moderna.

Lo stile è semplice, non mira a sorprendere ma a dialogare con il lettore invitandolo   a riflettere su temi complicatissimi che sembravano appartenere solo al lontano passato, si scopre invece che essi sono ancora annidati dentro le nostre società.

La metodologia è ben strutturata in quanto tutta l’opera è basata su una grande raccolta di materiale e di preziosi documenti e lettere attraverso le quali, l’autrice fa parlare i fatti presentandoci il fenomeno della schiavitù, non solo attraverso i personaggi e le loro testimonianze, ma anche attraverso le istituzioni e le strutture politiche e religiose dell’epoca.

Il viaggio dentro Schiavitù mediterranee o, meglio ancora, dentro i suoi quattro capitoli ambientati tra l’età medievale e quella moderna, non è per nulla facile e ciò è da attribuire ai seguenti motivi:

-   La velocità con cui la scrittrice si sposta da un’epoca a un’altra per descrivere gli eventi all’interno di due sfere, una medievale e un’altra moderna;

­   -   La vicenda si sviluppa su due piani e realtà diverse: una cristiana e un’altra musulmana;

-   La moltitudine di storie di gente comune, di luoghi, di schiavi e frati mai raccontati dalla storia arabo-musulmana, né presumibilmente da quella cristiana;

-   L’impossibilità di controllare le proprie emozioni nel leggere storie di sofferenza   e disgrazia, di uomini la cui unica colpa era quella di cadere prigionieri di musulmani o cristiani, a seconda della terra in cui si trovavano; da esseri liberi essi diventano merce che attraversa mari e terre sconosciute, prima di finire tra le mani di un ignoto padrone;

-   Nelle pagine del libro, infine, non mancano i passi complessi che amaramente toccano l’apice della “satira nera”, mettendo in difficoltà le capacità intellettuali del lettore, soprattutto quando si arriva alle parti che trattano le conversioni degli schiavi, ebrei, musulmani e cristiani su questioni religiose, oppure a quelle che descrivono in che modo uno schiavo cristiano viene considerato in terra musulmana o un musulmano in terra cristiana, mettendo in risalto il fatto che spesso viene odiato e considerato un alleato di satana!

Ciò porta il lettore a esaudire il desiderio di sapere che nasce dalle pagine dell’opera e invade il cuore: “Se Dio è uno perché tante religioni?”, “perché si muore da martire in terre così lontane?”.

 

2. Dentro e fuori il libro.

 

Se Dio è uno perché tante religioni?

 

Prendendo in esame due tra le citazioni più interessanti introdotte all’interno dell’opera, in cui si parla del modo in cui si svolgevano le conversioni dal cristianesimo all’Islam e viceversa, ci sembra di essere davanti ad un grande portone con due ingressi la cui destinazione è sconosciuta; dove si arriva? Ci portano verso la salvezza o verso la dannazione? Verso Dio   o verso qualcosa a noi sconosciuto, qualcosa che neanche chi si converte conosce?[3]

Porsi delle domande sul significato della conversione che ancora oggi accade e che continuerà ad accadere fino a quando la terra sarà abitata dagli esseri umani, conduce alla trattazione della moltitudine delle religioni, realtà che è stata trascurata per secoli, visto che l’uomo ha scelto di concentrarsi sul proprio Io e il proprio Ego.

Le religioni non sono frutto di un errore storico o di un atto accidentale, al contrario, esse sono la prova tangibile della grande forza delle varie società umane. Bisogna approfondirne lo studio poiché esse rappresentano la storia del legame tra l’uomo e Dio, ossia la storia delle varie correnti spirituali, delle profezie e delle esperienze di alcuni individui o di gruppi, storie che donano ad ogni società una parte di santità, di religiosità e di rettitudine e salvezza, per cui la moltitudine religiosa diventa un fenomeno scontato e normale come lo sono tanti altri aspetti della diversità, come quella delle culture, delle lingue e delle provenienze geografiche.

La diversità delle religioni è legata alla diversità delle civiltà: ogni popolo, in ogni momento storico, ha avuto la propria religione e ogni civiltà ha avuto la sua storia religiosa, e questa moltitudine non può essere che una forma della presenza divina e della diversità dell’atto della creazione che spinge Dio ad essere sempre più coinvolto e sempre più “storico”, e questa Sua presenza storica eterna, non può essere considerata una forma di autorità divina, ma più che altro una forma di partecipazione ed attività, per cui se c’è una storia di Salvezza nel Cristianesimo ad esempio, ci sarà anche nell’Islam e in altre religioni, il che giustifica la diversità dei nomi di Dio e del suo modo di reagire e di operare in più posti e luoghi.

Questo però non costituisce un problema da esaminare, gli uomini non hanno bisogno di confermare o meno la diversità o la moltitudine delle religioni, ma hanno bisogno di capire il senso di questa moltitudine, e perché le religioni si rifiutano e si combattono a vicenda.

Spiegare il fenomeno delle diversità religiose, significa sacrificare l’interpretazione tradizionale che le religioni stesse hanno dato al fenomeno; esse infatti considerano tale diversità una forma di deviazione di un credo, una condotta o un atto di resistenza o superbia nei confronti della religione che rispetto alle altre, si considera “ufficiale”,  quella che porta alla salvezza eterna. Rinnegare la salvezza eterna a coloro che credono in una religione diversa da quella in cui io credo è un modo di pensare che dimostra che l’uomo non crede in Dio, ma nel suo personale modo di intendere la fede in Dio, due cose ben distinte. Rispettare il credo degli altri richiede tre cose fondamentali: l’umiltà nel modo di credere in Dio; ridimensionare l’aspetto globale   e universale del proprio credo in modo che ci si possa sentire vicini agli altri; uscire dalla caverna della certezza assoluta ed entrare in quella della certezza mista al dubbio per evitare di cadere nella tirannia, nell’orgoglio e nella supremazia, i veri nemici di ogni credo e fede religiosa.

Perché si muore da martire nel nome di Dio in terre così lontane?

 

La domanda non è per nulla frutto del caso. Nelle pagine dell’opera risiedono uomini   e donne che da vari posti del mondo, Sicilia, Marocco, Spagna, da tutto il Mediterraneo e senza alcuna distinzione di ceto sociale, vengono rapiti da pirati musulmani o cristiani spietati    e finiscono in schiavitù. I nomi e i casi che l’autrice ci fornisce sono infiniti, dal calabrese Giovanni Dionigi Galeni (1519-1587), detto anche ‘Alī il rinnegato[4], alla principessa Chicaba figlia del re della Guinea AbarI[5], a Berardo trucidato in Marocco insieme ai suoi quattro compagni, Otone, Pietro, Accursio e Adiuto, a Juan del Prado, il noto martire di Marrakech. Si evince che si ha a che fare con la schiavitù, con la servitù e con il martirio.

Inizierei dall’ultimo termine perché la sua analisi porta alla comprensione del significato dei primi due e perché parlandone ci ritroveremo in una sorta di gioco, che chiamerei “gioco dello specchio” in quanto parlando di passato, ci si trova inevitabilmente dentro il  presente e il futuro.

“Shahīd”, che tutti in arabo intendono come “martire”, in realtà vuol dire “testimone”. Nel Corano questo termine, considerando anche i suoi sinonimi, viene ripetuto ottantadue volte (36 per dire Shahīd/testimone), (20 per intendere Shuhadā’, plu. Di testimone), e (26 volte con riferimento di testimonianza ossia in arabo shahādah), e in nessun coso esso è usato per intendere la morte o l’assassinio, al contrario il termine ha sempre significato l’essere presente, l’essere testimone, il confessare o l’affermare qualcosa.

Si potrebbe pensare allora che il problema esiste non nel termine stesso, ma nell’interpretazione che gli viene data. Ad esempio, molti intendono il martire come colui che dà testimonianza poiché vive la stessa esperienza del Maestro, caso dei martiri cristiani che vengono considerati tali perché testimoni di Cristo e perché vengono perseguitati ed uccisi in Suo nome.[6]

Mai termine è stato più commuovente, più ambiguo e più strumentalizzato del termine “martire”. Potrebbe capitare a tutti di leggere sulla tomba di qualche personaggio storico i famosi versetti coranici: «E non chiamare morti coloro che son stati uccisi sulla via di Dio, anzi, vivi sono, nutriti di grazia presso il Signore!»[7], senza pensare mai, che magari in quella tomba giace l’uomo più sanguinario e spietato. Ovviamente, la stessa cosa vale anche per i personaggi sepolti in terre non musulmane.

Il palestinese che si fa esplodere in un autobus è un “martire” agli occhi della sua gente, mentre per gli ebrei è un “terrorista”. La differenza tra il “terrorismo” e il “jihād”, tra la “pirateria”     e “l’imperialismo”[8] è irrisoria, come pure lo è la differenza tra “l’adulterio”, lo “stupro”, e il “matrimonio”: il primo si commette con piacere in segretezza, il secondo è basato sulla violenza e la costrizione, il terzo sul consenso e la diffusione della notizia delle nozze.

Un frate che parte per una terra lontanissima come il Marocco e si fa ammazzare dal re di questo paese, dove si presume ci siano uomini “infedeli” e “miscredenti” seguaci di Muhammad, nel nome di chi muore?

Un sufī musulmano che si fa uccidere dal sultano del suo paese, altrettanto musulmano, come è successo ai due grandi mistici musulmani al-Hallāj e as-Suhrawardī , nel nome di quale Dio viene trucidato?

Riguardo al tema del martirio, l’autrice ha trattato vari casi di frati in missione per il mondo, ne sceglierei due che ritengo più clamorosi: il caso del frate Berardo e quello del frate Juan del Prado.[9]

«Alla domanda del sultano al-Muntasir billāh sul motivo della loro venuta Bernardo risponde: «Siamo stati inviati dal Re dei re, Dio nostro signore, per la salvezza della tua anima, affinché abbandonata la setta superstiziosa del vilissimo Maometto, tu creda nel Signore Gesù Cristo e riceva il Suo battesimo senza il quale non puoi essere salvato. – E prosegue: – Sappi,   o re, che tu sei il capo tanto dei culti quanto di quella legge tanto iniqua promulgata da quell’impostore di Maometto pieno di spirito maligno, così tu sei il peggiore tra i malvagi e a te sarà riservata nell’inferno la pena più grave. Perciò diciamo queste cose principalmente a te, affinché possiate essere ricondotti tu e i tuoi sulla strada della verità, nella quale finalmente sarete salvati». Le cronache raccontano che il frate ha pronunciato tali parole hilari vultu, suscitando le ire del sultano, il quale commina carcere e tormenti, poi offre oro, donne e ogni possibile ricompensa, in ultimo, di fronte alla fermezza dei frati, li condanna a morte. Ma la vendetta divina raggiunge il sultano –il braccio con cui ha colpito i frati si paralizza e si abbattono pestilenze, cavallette e la carestia tra la sua gente … La vicenda di Bernardo verrà letta dagli storici delle missioni come antecedente di quella di Juan de Prado »

Questo pezzo, citazione tratta dalla pagina 210, ha degli elementi fondamentali:

- I frati Bernardo detto anche Berardo e Juan del Prado.[10]

- Al- Mustansir billāh, Sultano del Marocco.

- Il Re dei re Signore nostro.

Da queste parole possiamo leggere anche il seguente:

-   Frate Bernardo = Servo e missionario di Dio

-    Al- Mustansir billāh, Sultano del Marocco/ Dinastia degli Almohadi= Rappresentante di Dio sulla terra (secondo l’interpretazione, che veniva data una volta ai re).

-   Il Re dei re Signore nostro = Dio

Il termine che unisce le tre formule è Dio, infatti tutte girano e ruotano attorno a Lui. Ci sarebbe però una quarta formula che possiamo estrarre dall’intera lettura del libro:

- Questi frati andavano in Marocco per liberare i captivi cristiani (i prigionieri di guerra nelle mani dei musulmani) e aiutarli a mantenere la propria fede oppure riavvicinarsi ad essa, in caso fossero stati costretti a convertirsi all’Islam oppure se l’avessero lasciata per convenienza   o ipocrisia.[11] Abbiamo dunque a che fare con uomini schiavizzati da altri, come loro, in terre lontane.

Ciò ci porta a interrogarci sulle seguenti domande:

Qual è la differenza tra il servo di Dio e lo schiavo degli uomini? Tra il re di un determinato popolo e il re dei cieli e della terra?

Si è sempre detto che Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza e i primi dotti musulmani hanno ritenuto questo fatto il motivo per cui Dio ha scelto l’uomo come suo successore e rappresentante sulla terra, ma il fatto che molti “dotti religiosi” sostengono ch’Egli abbia sempre scelto l’essere umano maschio per proseguire successione e rappresentanza, escludendo la donna da tutti i privilegi è cosa a cui non è mai stata trovata una motivazione! Se osservassimo l’universo con più attenzione e riflessione ci accorgeremmo che l’essere umano   è la vera immagine di questa grande opera che è il Creato, infatti tutto ciò che dentro l’Universo esiste come aspetto di crescita e di fioritura; ciò si trova anche nel corpo umano, non a caso infatti il corpo cresce, crescono i denti, crescono i peli,  i capelli e anche le unghia. Nell’universo vi sono le acque salate, amare, dolci, agrodolci, e amaro-salate, nel corpo umano si trovano le stesse acque con gli identici gusti, le lacrime, la saliva, il cerume, le secrezioni della bile, dello stomaco, della vagina e infine lo sperma. Nell’universo c’è terra, acqua, aria, e fuoco come nel corpo umano vi sono queste cose, e non solo, nell’universo vi sono quattro tipi di venti per le quattro direzioni geografiche; nel corpo dell’uomo vi sono quattro forze che spingono, tirano, prendono e digeriscono, e come nell’universo vi sono forze cattive (diavoli ad esempio), bestie docili e altre feroci, anche nel corpo umano vi sono questi aspetti, di ferocità, cattiveria, astuzia, rabbia, invidia, gelosia, avidità; e altri istinti come mangiare, bere, avere rapporti sessuali; nel mondo vi sono gli angeli come nel corpo umano si possono manifestare queste forze di grande spiritualità e santità.

Oltre a questo, l’uomo è la creatura a cui il creatore ha dato la grande responsabilità di fargli da successore sulla terra, non nel senso di governare gli altri che sono più deboli di lui, o di governare sotto il suo nome, ma nel senso di governare se stesso, nel momento in cui il creatore gli abbia fornito gli strumenti basilari per farlo. Attraverso lo spirito soffiato dentro l’essere umano, Dio è sempre presente nel corpo o la terra degli uomini, come viene diversamente detto, ed ecco perché si dice Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, e non perché Egli abbia delle mani come loro, dei piedi  o degli occhi.

Il corpo è la città del successore di Dio sulla terra, città che ha anch’essa un popolo, un governatore e dei funzionari che dirigono l’apparato governativo. Dentro questa città ci sono delle guerre, terribilmente accese e in continuazione. Il motivo di queste guerre è il POTERE, obiettivo sul quale si accaniscono i due grandi avversari LA RAGIONE e la PASSIONE, ecco perché sulla terra vi sono corpi dominati dalla ragione e altri dalla passione, nel senso ampio di due termini senza alcuna limitazione o pregiudizi.

I funzionari di questa grande città sono il cervello, il cuore e l’anima. Il popolo è composto invece dagli orecchi, gli occhi, il naso, la bocca, le mani, i piedi e la pelle del corpo (il derma)     e altri componenti del corpo fisico.[12]

Solo l’essere umano che riesce a percepire il valore del legame che unisce corpo e terra, corpo   e Universo, corpo e Dio, può arrivare a percepire perché uomini come frati Berardo e Juan del Prado sono andati a morire per la Parola di Dio in Marocco.

Non si tratta di due pazzi con un cervello pieno di concetti, preconcetti e pregiudizi su Dio, sulla fede, sul martirio e altre cose simili, basta ricordare ad esempio il caso di Giuseppe il sognatore con il Farone Akhenatun, di Mosè dentro la corte del Faraone dell’Egitto[13] e di Abramo con la sua gente, che molto assomiglia a quella di Juan del Prado, in quanto anche quest’ultimo fu gettato come Abramo in un gigantesco rogo..

Perché i frati sono morti in questa maniera? I motivi sono molteplici: le parti in conflitto parlavano due linguaggi diversi; i santi infiammati d’amore parlavano il linguaggio d’amore, mentre il re infiammato dall’idea del rispetto per Dio e per i suoi profeti, parlava il linguaggio di questa idea. E mentre per il santo il mondo è tutto un simbolo, per il re il mondo è ciò che si vede. E mentre il santo è servo di Dio, il re è schiavo di se stesso.  E quando si è servi di Dio, si ha sempre bisogno di Lui, e si è sempre poveri in quanto il servo non deve essere di se stesso, e non deve avere nulla di se stesso, altrimenti avere qualcosa significa possedere e il possesso   è il contrario del continuo bisogno di Dio. Essere servi di Dio vuol dire essere liberi, la schiavitù degli uomini, invece, nasce quando altri uomini come noi, abbandonando lo status di servi di Dio per ignoranza, per errore o per arroganza, diventano schiavi del corpo-città del quale si è parlato prima, e soprattutto quando la passione e l’impulsività cominciano a governare,   o quando i nostri consiglieri non sono più il Cervello, il Cuore e l’Anima, ma le allusioni, la psiche e le immaginazioni mal immagazzinate nelle nostre memorie e nelle memorie di tanti altri uomini, tra i quali ci possono anche essere dei capi di governo, dei ministri e dei re, politicamente parlando. Ecco perché la schiavitù di cui ci parla Giovanna Fiume in questo libro non è solamente un fenomeno storico ma è soprattutto un fenomeno umano, motivo per cui l’autrice insiste nel concetto di rileggere il passato per capire il presente e il futuro, percependo al contempo che questo fenomeno sarà vivo finché saranno vivi gli uomini, anche se cambieranno solo le forme e le maschere. Schiavi dunque non sono solo coloro che vengono catturati in guerra, nei mari o nei boschi di terre lontane, ma lo siamo un po’ anche noi, schiavi dei nostri pregiudizi, dei nostri luoghi comuni e delle nostre paure e debolezze ingigantiti dalla cultura dei mass media e dalle politiche gestite da uomini altrettanto schiavi, ognuno a suo modo o a piacimento degli altri.

 

http://www.youtube.com/watch?v=0U5S04KDPik&feature=player_embedded#!


[1] Muhammad ‘Abd Allāh ‘Inān, al-Athār al-Andalusiyyah al-Bāquiyyah fī Isbāniyah wa al-Burtughāl, Maktabat al-Iskandariyyah, Egitto,1 ª ed. 1997. Pp. 422-423.

[2] Giovanna Fiume, è professore ordinario di Storia moderna presso l’Università di Palermo. Ha scritto, tra l’altro, Il santo Moro. I processi di canonizzazione di Benedetto da Palermo (1594-1807) (Franco Angeli, Milano 2002 e 2008). Ha curato Il santo patrono e la città. Culti, devozioni, strategie di età moderna (Marsilio, Venezia 2000).

[3] Per le due citazioni a cui si fa riferimento, si prega di consultare le pagine 78 e 124 dell’opera. Giovanna Fiume, Schiavitù mediterranee, Corsari, rinnegati e santi di età moderna. Bruno Mondadori, Milano, 2009.

[4] In procinto di entrare in convento, nel 1536, viene catturato da Barbarossa e messo al remo. Diventa musulmano per potersi vendicare di un turco che lo ha schiaffeggiato, senza incorrere nella pena capitale prevista in questi casi. Così almeno racconta Cervantes nel Don Chisciotte. Sposata la figlia di un altro rinnegato calabrese, Yafar Pascià, intraprende la carriera di corsaro, che lo conduce a governare su Algeri, Tripoli e Tunisi. Le sue incursioni vanno da Pantelleria e Marettimo, nelle Egadi, alla Liguria, dalle coste napoletane a Nizza. Della sua leggenda fa parte l’incoraggiamento ad alcuni cospiratori calabresi per annettere la Calabria ai domini turchi; con certezza partecipa alla battaglia di Lepanto come ammiraglio, riuscendo nello scontro a mettere in salvo una trentina di navi. Il sultano Selim II gli conferisce il titolo di ammiraglio della flotta con l’appellativo di Kiliç Alì, Alì la Spada. Ancora nel 1574 riconquista Tunisi, espugnata solo l’anno prima dagli spagnoli. G.Fiume, Schiavitù mediterranee,Bruno Mondadori, 2009, pg.11.

[5] Rapita dai pirati quando aveva una decina d’anni viene venduta ad una facoltosa famiglia madrilena,   i marchesi di Mancera. Nel 1700 a 24 anni, la giovane africana, convertita totalmente al cattolicesimo, tentò di farsi accettare in un convento di suore cattoliche, ma non fu accettata.

Dopo vari tentativi nel 1708, fu accolta nel convento delle Suore Domenicane del Terz’Ordine di Santa Maria Maddalena di Salamanca, con il permesso del vescovo di rimanere al servizio domestico del convento, prendendo il nome di Teresa.

Dopo molti anni, visto la sua sincera vocazione e crescita spirituale, con il consenso del vescovo, Teresa Chicaba, fu accettata come Suora Domenicana e fece la sua professione. Visse santamente per 40 anni, secondo la Regola di S. Domenico e morì nel suo convento di Salamanca il 6 dicembre 1748. Attualmente le sue reliquie riposano nel monastero detto delle Dueñas di Salamanca.

[6] “Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani… E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato (Vangelo di Matteo 10, 17-22).”

[7] Il Corano, la sura di Famiglia di ‘Imrān, versetto 169.

[8] Il grande filosofo e linguista Noam Chomsky, ci narra in una delle sue interessantissime opere intitolata Pirati e imperatori (traduzione araba di, Mahmūd Barhūm, al-Mu’assasah al-‘Arabiyyah li ad-Dirāsāt wa an-Nashr, Beirut, 1 ªed.  1995) di Alessandro il magno quando chiese a un pirata, che dicevano fosse assai spietato: “con quale diritto infesti tutti i mari  e procuri grandissimi danni ai naviganti?”. Il pirata con singolare audacia, al potentissimo re rispose: ” io infesto i mari con lo stesso diritto con cui tu infesti il mondo. Ma, poiché io faccio ciò con una piccola nave, tutti mi chiamano brigante; colui che compie le stesse azioni, con un grande esercito e una maestosa flotta, tutti lo chiamano imperatore”.

[9] Si prega di consultare le pagine n°199/202/203/209/210 e 263/266 dell’opera oggetto di questo studio.

[10] Nato nel 1563 a Mongrovejo (Morgovejo) da Sancio, secondogenito della casata de Prado, notissima nel regno di León, e dalla catalana Isabella d’Armenson, presto orfano, viene istruito da un parente, l’arcipresbitero Floran de Pedrosa, e poi inviato all’università di Salamanca;  prende l’abito della stretta osservanza di san Francesco nel convento di Roccamador (provincia di Badajoz)  nel 1584, dimentico di patria e famiglia si esercita nello studio e nella penitenza e prende i voti nel 1585. Questi cenni biografici sono tratti dalla prima biografia del futuro martire, scritta nel 1652 da un frate che ha accesso agli archivi della provincia cui appartiene Juan e contatti con molti laici e religiosi che lo hanno conosciuto.  Un’accurata ricerca genealogica negli archivi notarili, accolta come veritiera dagli agiografi successivi, farebbe ipotizzare invece la sua nascita illegittima da Francisco de Prado (XII signore della casata),  messa in ombra dal biografo dell’ordine – se la sua origine fosse stata a suo tempo maliziosamente occultata, la sua professione non sarebbe stata valida. L’arciprete a cui sarebbe stato affidato, in questo caso,  potrebbe essere parente della madre, appartenente anch’ella a una famiglia di piccola nobiltà provinciale. Ad ogni modo, Juan, quasi a compensare la sua condizione di figlio naturale, «poteva gloriarsi di provenire da ambo i lati, tanto paterno, quanto materno, da lignaggi di hidalgos».  Dagli otto ai quattordici anni studia nel collegio dei gesuiti di León e passa poi, come già detto, all’università di Salamanca, in quegli anni al suo apogeo, frequentata da cinquemila studenti spagnoli, portoghesi, irlandesi, appartenenti a tutti gli ordini religiosi.  Nel 1584 interrompe gli studi e si fa frate, rifiuta l’offerta di raggiungerlo fattagli da uno zio paterno, abate benedettino a Valladolid, e si dirige verso l’Estremadura, dove, nel convento di Roccamador, pronuncia i voti. Qui continua i suoi studi e, nel 1591, ottiene l’ordinazione sacerdotale, quindi passa nel convento degli scalzi della provincia di San Gabriele.

Nonostante sia sacerdote e predicatore, non disdegna di sottoporsi ai lavori più umili. (Giovanna Fiume, Schiavitù mediterranee, Bruno Mondadori, Milano. P. 201)

[11] Senza dimenticare coloro, che si sono convertiti all’Islam, senza alcuna costrizione o influenza, diventando così dei veri musulmani, rifiutando di conseguenza ogni legame con qualsiasi cosa, che le faceva ricordare la vecchia fede o le terre di provenienza.

[12] Questa descrizione può servire anche nel campo della politica, come può essere utile per le donne e gli uomini a coloro è stato affidato l’incarico di governare un determinato Paese, motivo per cui, colui che governa è ritenuto a sapere innanzitutto, la città del suo corpo come è governata e da chi è governata e se lui stesso, sa o meno le chiavi di questo corpo, altrimenti un Uomo che non sa nulla dei meccanismi della città corpo e del suo reale legame con la terra e con l’Universo, non può mai essere un bravo e giusto governatore.

[13] Il cui nome non si sa con esattezza, infatti, molti studi dicono che è Ramses II , altri invece dicono che era Merenpath. Al di là di chi era, a noi interessa il significato del messaggio e della disputa teologica tra Mosè e uno dei più potenti faraoni dell’Egitto.



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