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Scontri ultras, violenza negli stadi e tifo calcistico

Creato il 15 novembre 2013 da Postpopuli @PostPopuli

di Francesco Gori

La sospensione della partita Salernitana-Nocerina e le presunte minacce ai giocatori ospiti da parte dei cosiddetti “gruppi ultras” è l’ultimo caso di una lunga serie che riguarda l’ingerenza del tifo organizzato. La falsa notizia di una morte mai avvenuta portò ad interrompere il derby Roma-Lazio del 2004, l’episodio più eclatante di una storia recente che riporta un elenco infinito di situazioni: ricordiamo i casi dei calciatori genoani costretti dai propri supporters a togliersi la maglia nel 2012; le minacce all’allenatore Giampaolo da parte dei bresciani nel 2013 o, per andare oltre i confini italiani, l’aggressione fisica subìta dall’allenatore bulgaro Ivaylo Petev del Levski Sofia. Cerchiamo allora di capirne di più sul mondo del tifo calcistico: perché avvengono gli scontri ultras, chi sono i sostenitori più estremi, il loro potere, la dicotomia amico/nemico, l’aggressività ritualizzata che diventa violenza negli stadi.

La descrizione di Buford[1] sintetizza molto bene cosa significhi vivere una partita di calcio sugli spalti, tra piacere e sacrificio.

“Avevo sempre pensato che un evento sportivo fosse un divertimento per cui si pagava, come una serata al cinema… mi accorsi di essermi sbagliato. Quali erano i principi che regolavano l’avvenimento principe dello sport inglese? Sembrava che, in cambio di qualche sterlina, tutto quello che ti davano fossero un’ora e quarantacinque minuti caratterizzati dalla mancanza di qualsivoglia protezione contro il peggior tempo possibile, dalla presenza del maggior numero di persone possibili nel minimo spazio e dal maggior numero di ostacoli (mancanza di parcheggi, una folla estremamente pericolosa…) per far passare la voglia di ritornare a vedere la partita. Eppure erano tutti qui, a godersi il sabato” (Buford, I furiosi della domenica, 1992, pp.16-17).

“Avevo capito come stare in piedi sugli spalti e guardare la partita, ed era già qualcosa. In realtà cominciavano a piacermi anche le situazioni che si verificavano sulle gradinate e questo, lo ammetto,  mi sorprese. Non era naturale né logico; tuttavia, a distanza di tempo, ho capito che non era molto diverso dall’alcool  e dal tabacco: disgustoso all’inizio; piacevole mettendoci un po’ d’impegno; irrinunciabile con il passare del tempo. E forse, alla fine, un po’ autodistruttivo” (Buford, 1992, p.18).

Vediamo alcune caratteristiche di coloro che “vivono” sulle gradinate. Il bisogno di identità e la dicotomia amico/nemico La fedeltà ai colori, lo spirito militante è il principale valore dei gruppi ultras, e il contrassegno della loro identità.

“Noi, come gli altri gruppi ultra, siamo di volta in volta accusati di essere pagati dalla società o di non essere da questa riconosciuti; in realtà, pur avendo, ormai da più di un decennio, ottimi rapporti con i vertici della società di via Turati (il Milan), ci teniamo moltissimo alla nostra autonomia di scelta e decisione anche perché, e non sia presa come sciocca presunzione, abbiamo la più grande consapevolezza di essere noi i veri padroni morali del Milan. A noi interessano relativamente la composizione del consiglio d’amministrazione ed il presidente della società; ciò a cui noi teniamo veramente sono i gloriosi colori rossoneri, perché, come si dice, GLI UOMINI PASSANO, IL MILAN RESTA” (Dal Lago, Descrizione di una battaglia, 1990, p.109).

Un fatto in particolare differenzia i valori degli ultras da quelli degli altri spettatori: mentre un “amatore”può fischiare un giocatore della propria squadra, spesso un ultra non può accettarlo, vedendolo come un tradimento della bandiera.

Dal Lago (1990, pp.42-53) enuncia tre ipotesi a proposito della logica dei tifosi organizzati:

1) in quanto sport di squadra, che permette identificazioni con determinati simboli, il calcio promuove una divisione del mondo, in particolare dei tifosi, in amici e nemici;

2) una partita non è solo l’incontro tra due squadre di calcio: per i tifosi organizzati la partita è l’occasione di un confronto rituale amici e nemici, che può trasformarsi, in circostanze determinate e ritualmente prevedibili o ordinate, in scontro fisico;

3) uno stadio non è solo l’ambiente fisico in cui si gioca una partita, per i tifosi organizzati è soprattutto la cornice della celebrazione ritualec della metafora amico/nemico.

La possibilità di uno scontro fisico dipende dai tradizionali rapporti delle due tifoserie in ballo e dalla situazione momentanea mentre lo stadio è una cornice particolare dove valgono regole tacite, comportamenti che in altre situazioni di vita quotidiana non sarebbero accettati. Oltre all’affezione per i colori e alla passione per il calcio intervengono altri fattori che contribuiscono al desiderio dei tifosi di vivere in prima persona le vicende calcistiche ed impediscono di allontanarsi dallo stadio per seguire, magari in maniera più distaccata e meno radicale, le sorti della squadra. Uno di questi fattori è il forte legame di amicizia che unisce i membri dei club e i ragazzi dei gruppi ultras tra loro. Il processo di socializzazione che si avvia sulle gradinate di uno stadio, è destinato a rinsaldarsi poi in occasione di cene sociali, bevute di gruppo, uscite in pizzeria, feste organizzate per celebrare successi di particolare valore.

È chiara, quindi, l’opposizione amico/nemico, gemellaggi ed inimicizie giocano un ruolo fondamentale in questa metafora di guerra. La cultura ultrà viene tradizionalmente associata soprattutto alla percezione dell’altro come elemento ostile: “Chi non tifa per la nostra squadra non è in generale un nostro amico”- “Gli amici dei nostri nemici sono nostri nemici, e i nemici dei nostri amici sono nostri nemici” (Dal Lago, 1990, p.115-116).

Agli occhi dei ricercatori, il mondo del tifo appare come una dimensione unica, dotata di simboli, valori, norme, costumi e modalità organizzative che non hanno riscontro in altri contesti della società italiana; una dimensione ludica, ma vissuta con serietà ed impegno dagli attori che vi operano, i tifosi. Una dimensione, inoltre, che pur nella sua specificità non è del tutto separata dalla società complessiva, da cui assorbe tensioni e conflitti (in modo per lo più parodistico e iperbolico) e a cui trasmette ormai non solo un certo folklore, ma anche modalità espressive che trovano un senso nella vita seria. I “tifosi”, dal canto loro, non provengono soltanto da realtà sociali marginali, ma anzi, spesso, da comuni, normali. Sintetizzando il loro profilo sociologico, vengono definiti da Dal Lago e Moscati come soggetti con un livello medio di istruzione e inseriti normalmente nel mondo del lavoro; capaci di organizzare minuziosamente le loro attività nel tempo libero, sono dotati di strutture che mostrano un grado sorprendente di complessità. Le loro attività rituali, per quanto bizzarre o sgradevoli agli occhi dei profani, appaiono come un’elaborata espressione della cultura giovanile.

Va sottolineato il carattere interclassista del tifo. L’identità dell’ultra si esprime solo la domenica e, contrariamente ai luoghi comuni, la sua identità non è in contraddizione con nessun ruolo professionale o appartenenza politica.

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Pressoché tutte le indagini condotte sull’argomento confermano che la cultura calcistica è relativamente indipendente dalla situazione sociale dei tifosi e ridurre le manifestazioni più stabili della passione calcistica all’espressione di rivendicazioni, frustrazioni e bisogni insoddisfatti in altri campi della vita viene interpretato come un peccato di superficialità. Nel grande contenitore del calcio viene di fatto riversato di tutto. Allo stesso modo, fenomeni di emarginazione sociale e di micro-devianze non sono estranei alla cultura ultrà di cui viene rilevata la normalità e l’istituzionalizzazione; il tifo, nelle sue forme organizzate, si definisce come una manifestazione culturale specifica, autonoma, e, come già detto, interclassista. Si può parlare, quindi, di identità culturale nel caso dei tifosi solo in un senso molto specifico. I tifosi di calcio rappresentano il caso particolare di un’identità parziale proprio perché il loro ruolo è periodico e intermittente, si può cioè essere tifosi senza pregiudicare le altre attività “serie”, come il lavoro e la politica. L’espressione più estrema della passione calcistica, il tifo ultrà, è una sorta di parentesi nella vita, una fase specifica di socializzazione che coincide con la prima giovinezza. Il mondo del tifo appare come la stabile espressione di una dimensione ludica che ha trovato un posto legittimo nella nostra società.

Dal Lago e Moscati collegano questa dimensione ludica ad esperienze primarie, a una sorta di rivendicazione dell’infanzia che permane nella vita adulta, dopo aver promosso, nel corso della giovinezza, le manifestazioni più estreme (il tifo ultrà).

L’infantilismo in questione (che non assume necessariamente connotazioni negative) vale, evidentemente, per il ruolo della passione sportiva in ogni società, tuttavia, per quanto riguarda la passione calcistica nella società italiana, questo bisogno di restare bambini non viene spiegato solo in base ad un universale culturale come la pulsione ludica. Al fine di tentare un’interpretazione del tifo (soprattutto degli aspetti più estremi come la violenza negli stadi), è necessario separare sul piano metodologico l’analisi della condizione sociale da quella dell’azione collettiva; occorre cioè distinguere tra i metodi di analisi che indagano i fenomeni dell’agire collettivo in quanto tali (in questo caso i rituali del calcio) e quelli che studiano le caratteristiche dei soggetti coinvolti nel fenomeno collettivo.

Prendendo dunque in esame i tifosi e, in particolare, i giovani tifosi organizzati in club e gruppi ultrà, come fanno Dal Lago e Moscati, non si può non fare riferimento al contesto storico-sociale nel quale essi si muovono e alle dinamiche e tensioni di cui sono espressione. È necessario considerare alcune trasformazioni nel quadro generale della società italiana negli ultimi decenni, ricordando la trasformazione prodottasi nel clima sociale del paese, in ragione delle diverse fasi dello sviluppo economico. Numerose analisi comparative segnalano a questo proposito (e con riferimento peculiare al nostro tema) l’ottimismo generalizzato e le grandi speranze che pervadono il clima degli anni sessanta: ciò consentiva che i giovani rifiutassero la logica dominante della società, ma allo stesso tempo mantenessero la speranza per un futuro diverso. Al contrario, dalla seconda metà degli anni settanta, il clima culturale muta drasticamente: la dimensione del futuro si opacizza e svanisce la speranza di poter modificare in termini globali e, attraverso un’azione collettiva, la condizione esistente. Il venir meno di una visione complessiva del mutamento ha come effetto una ristrutturazione dei modelli e delle aspirazioni, con una riduzione delle aspettative e delle ampiezze progettuali in favore di traguardi a breve termine da perseguire individualmente o comunque senza far troppo affidamento sulle istituzioni. Tra larghi strati di giovani si diffonde e diviene sempre più obbligatorio il rinvio dell’ingresso nell’età adulta mentre non resta che ripiegare sulle attività fini a sé stesse, valide in quanto “consumabili”: vengono, in sintesi, incentivati i consumi e non gli investimenti. Si viene così a configurare una situazione di marginalità culturale imposta, dove c’è spazio per attività caratterizzate da valori non utilitaristici (amicizia, solidarietà di gruppo) e da atteggiamenti conformisti e per lo più passivi. Da ciò derivano alcune conseguenze decisive per la costruzione dell’identità come l’accentuarsi dell’importanza di appartenere al gruppo dei pari e lo sviluppo di forme di identità negative di tipo spettacolare. Poiché costretti a ruoli passivi, di consumatori e spettatori, i giovani si orientano verso un’identità di stile, capace di offrire un’immagine di sé fuori dai canoni, dalle aspettative, dai modelli sociali prevalenti, un’immagine che sia in grado di imporsi all’attenzione del pubblico e li identifichi come diversi, soprattutto rispetto agli adulti.

Posta in una condizione di marginalità priva di ruoli di spicco, quella parte di giovani che non si riconosce nei codici di una normalità imposta ha proposto, ormai da tempo, modelli di distacco dalle proposte fornite dalla società degli adulti. Distacco che assume forme vistose perché si fonda sull’immagine e sulla spettacolarità della condizione, sugli aspetti simbolici della trasgressione collettiva. Estremizzando le caratteristiche del loro contesto, questi giovani reagiscono alla loro condizione e formulano una risposta alternativa e critica di nuovo tipo. Da un lato, si enfatizza la diversità dagli adulti in forme clamorose, vistose, spettacolari; dall’altro, la dimensione simbolica ha assunto forme di contestazione e di violenza all’interno delle aree consentite.

Dal Lago e Moscati si spingono oltre: quello che il tifo organizzato degli stadi di calcio segnala loro è che anche tra i non più giovani il non voler e non poter crescere, nel senso dell’acquisizione di una piena identità, sotto forma di ruoli attivi e responsabili, si rivela come una condizione non solo legata a regole biologiche, confermando il fatto che la gioventù è sempre più una definizione culturale, in ragione degli stili di abbigliamento, consumo e comportamento.

Le manifestazioni di questa protesta, di questa ricerca di identità negative sono diverse e si collocano su una scala ideale che può essere riscontrata nelle espressioni del tifo calcistico individuali o del gruppo organizzato, secondo canoni riconosciuti (i club) o del gruppo ultrà.

Secondo Dal Lago e Moscati (1992, p.78), il parallelo con la politica rappresenta una discrepanza tra realtà pubblica e privata. La sfera pubblica è quella in cui si addensano gli stereotipi, relativi soprattutto alle identità negative, alla definizione dell’altro come inferiore o nemico, mentre in quella privata le opposizioni tendono a perdere senso, o almeno a essere subordinate alla dimensione delle relazioni interpersonali. E così, anche la realtà del tifo si sdoppia in una convenzionale e pubblica, in cui sono determinanti gli stili collettivi di comportamento, e una privata, molto più accomodante.

Eccitazione collettiva ed aggressività ritualizzata

Purtroppo molto spesso la grande eccitazione che si crea nella cornice dello stadio in occasione di una partita, genera un eccesso di aggressività e, di conseguenza, comportamenti violenti.

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Il problema del passaggio dall’aggressività ritualizzata al comportamento violento è ben analizzato da Alessandro Salvini[2] dal punto di vista psicologico, prendendo in esame le manifestazioni di aggressività dei tifosi ultras e cercando di analizzarne funzioni, significati e ragioni.

Per Salvini la ricerca in questo settore deve individuare il significato del comportamento aggressivo per la persona che lo mette in atto. L’autore si rifiuta di spiegare il comportamento trasgressivo e violento dei tifosi unicamente come una particolare fenomenologia aggressiva, ovvero prescindendo dal ruolo che essa ha all’interno dei processi normativi di gruppo, della reazione sociale, delle situazioni e degli obblighi legati alla rivendicazione dell’identità maschile e alle lotte, non sempre rituali,  per l’affermazione di sé. Egli considera i giovani tifosi attenti osservatori che cercano di dare un senso e quindi di capire la realtà che li ospita, il problema è capire quale sia la rappresentazione sociale entro cui i vari gruppi di tifosi collocano una domanda d’identità e quindi una data concezione di sé. La rappresentazione che i tifosi hanno della partita di calcio è certamente complementare all’immagine che hanno di se stessi e a ciò che rivendicano di essere in quel momento. Lo straordinario movimento settimanale di masse euforiche ed eccitate di tifosi, entusiastiche o rissose che siano, non è un’aggregazione priva di socialità e di credenze condivise. Anche nello sport le rappresentazioni sociali risentono dei processi sociali e storici, presentano fratture e discontinuità; anche lo sport ospita diverse versioni della realtà ed i tifosi ultras, pur avendo le radici entro una dimensione culturale comune agli altri, manifestano la propria espressività sotto altre forme ed intenzioni. Mondi e sottomondi vincolati a concezioni diverse, ma non tali da allentare le loro strutture unificanti.

Un comportamento trasgressivo, come quello dei tifosi violenti, pur rimanendo illecito, deprecabile moralmente e magari punibile penalmente, non è detto che sia frutto di irrazionalità o di malattia. La prospettiva che, a giudizio di Salvini, può in qualche misura contribuire a rintracciare alcune peculiarità psicologiche proprie alla personalità dei giovani ultras è quella cognitivista. Questo approccio teorico si propone di capire come certi giovani costruiscano la realtà; in altre parole, ognuno di noi guarda ed organizza il proprio mondo a seconda della concezione che ha di se stesso: bisogni, desideri, aspettative, intenzioni e comportamenti ne sarebbero in qualche modo il prolungamento. La concezione di sé può essere multipla, risentendo delle attese, dei contesti e anche dei processi di auto-valutazione. Le persone sono costantemente impegnate a mantenere coerenti i significati delle situazioni interpersonali e sociali con le versioni e le concezioni che hanno disponibili di sé. Anche l’individuo che indossa gli abiti dello sportivo o il ruolo di tifoso non sembra sfuggire a tale regola. La rappresentazione di sé che per esempio i giovani ultras vogliono comunicare, ci informa in che tipo di realtà essi pensino di trovarsi, chi siano loro per se stessi e per lo spettacolo calcistico; il processo di come si diviene devianti è incomprensibile senza capire l’intera attività del soggetto nel conferire significato agli eventi che lo circondano.

Il concetto di sé, che regola l’incontro tra l’individuo e la sua realtà, si differenzia durante lo sviluppo, durante la transizione infanzia-adolescenza-giovinezza. Il sé passa da un sistema di riferimento legato al giudizio degli altri, ad uno più centrato sull’autonoma capacità di autopercezione. Di conseguenza, il giovane amplia la sua capacità personale di sapersi guardare e auto-regolare da prospettive diverse. È stato rilevato che un’inadeguata concezione di sé si riflette sulle capacità del giovane di comprendere la situazione e i comportamenti propri e altrui, con difficoltà sul piano dell’adattamento sociale. Un giovane del genere sarà allora più incline a reazioni aggressive inadeguate ma efficaci, preso dalla sua ansia di non saper discriminare né padroneggiare la situazione interpersonale. È così facile supporre che certi tifosi ultras (anche per la giovane età e l’inadeguata socializzazione) siano dotati di un concetto di sé poco differenziato: ciò li porterebbe ad accettare e costruire repertori di pensiero-azione notevolmente semplificati, privi per esempio di un adeguato processo auto-valutativo. Questa difficoltà a comprendere in pieno il proprio comportamento è intuibile da queste affermazioni di ultras della Roma:

“quello della partita è il momento in cui finalmente mi sento bene, non c’è bisogno di pensare, mi sento pronto a tutto, a gridare e a menare ma se devo dire a me stesso perché, non lo so” (Salvini, 1988, p.48).

“non lo so, li odi e non sai perché. È come il tifo che non sai cos’è. Sai solo che sei felice, che sballi, che quando loro vincono è come se vincessi tu” (Salvini, 1988, p.48).

Attraverso le azioni degli ultras, Salvini riesce a cogliere due costanti: la prima è la continua tendenza a trasformare il “pensare” in “agire”, per esempio conferendo alla situazione della partita la drammatica concretezza della realtà minacciosa; la seconda, che è lo sviluppo della prima, è che questa concezione tirannica della realtà, negativa e nemica, impone il gesto eroico e la disposizione emotiva a sostenerlo.

Salvini è fortemente critico con la tesi secondo la quale la partita di calcio e la rivalità tra tifosi siano una forma ritualizzata di guerra[3]. I punti di contatto sono indubbiamente molti, ma la metafora non deve essere scambiata per la realtà, altrimenti si corre il rischio di rendere reale ciò che è solo una metafora. La tesi di Salvini è che ci troviamo di fronte non tanto ad una ritualizzazione della guerra, seppur tribale, quanto all’espressione simbolica di un comportamento di dominanza ritualizzato in maniera imperfetta. Il comportamento di dominanza è dato dall’insieme di regole che prescrivono il principio della subordinazione e le forme del suo esercizio. In ambito sportivo il successo nell’affermazione di sé costituisce il criterio di base, valido sia per gli atleti che per i tifosi, anche se orientato al conseguimento di ruoli di dominanza diversificati. Nello sport, gara dopo gara, le gerarchie vengono messe in discussione. Ad ogni partita i tifosi, facendo riferimento ai risultati della partita, ma anche alla loro capacità spettacolare ed aggressiva, si contendono le insegne di dominanza. Le attribuzioni di status devono essere in qualche modo rinegoziate, nei tifosi più giovani è rilevante l’aspirazione ad ottenere qualche riconoscimento di status. Per questi motivi l’adesione ai gruppi ultras, capaci di garantire l’accesso ai simboli della dominanza in maniera stabile, rappresenta già un’autoaffermazione non più delegata al risultato della partita o alla propria squadra.

Rimettere in discussione i risultati e le gerarchie sportive, domenica dopo domenica, è una delle occupazioni preferite dei tifosi ultras, dentro e fuori lo stadio. Il tifoso ultrà non ricava il senso del valore di sé dalla posizione in classifica della sua squadra, quanto dalla sua capacità a divenire ogni volta protagonista ammirato, temibile e riconosciuto dello spettacolo sportivo. Se la propria squadra vince la partita o ottiene una buona posizione in classifica, i tifosi ultras si sentiranno ancora di più legittimati ad accentuare le proprie condotte di dominanza.

I gruppi di giovani ultras cercano allo stadio, in maniera esplicita, le opportunità di sperimentare una qualche forma di superiorità sugli altri, poiché assistere semplicemente alla partita di calcio non consente appagamenti in tal senso, per cui il contesto viene utilizzato per trovare giustificate occasioni di scontro auto-affermativo. Il giovane tifoso ultrà, come tutti coloro la cui identità è fortemente legata alla comunicazione sociale ovvero alla visibilità, all’esserci, ai ruoli espressivi, al manifestarsi piuttosto che al fare, cerca e produce quei contesti in cui possano essere create le occasioni e gli episodi del suo “essere riconosciuto”. Non si conoscono tifosi ultras che consumano le loro manifestazioni e trasgressioni in solitudine in quanto l’identità di una persona è fissata dagli altri, dal loro situarla come oggetto sociale. L’identità diviene una sorta di passaporto e, conquistarsene una, consente al giovane la possibilità di esplorare il mondo degli altri, di esservi ammesso, di realizzare competenze sociali e capacità interpersonali.

Far parte di un gruppo ultrà piuttosto che di un altro, ha importanti conseguenze nel variegato e misconosciuto mondo della tifoseria. Tra di loro i membri dei diversi gruppi lottano sapendo che il loro credito e la loro reputazione è in gioco ad ogni partita. I discorsi, i programmi, i commenti sono pieni di riferimenti legati a quanto si è stati o si sarà in grado di impressionare la stampa, gli ultras avversari, le forze dell’ordine, i passanti; anche l’atto aggressivo più classico, l’invasione di campo, non è il comportamento episodico di sconsiderati, ma è un’azione a rischio che può servire a fare carriera nel gruppo e a divenire protagonisti in quella cronaca o storia orale che, attraverso i discorsi degli amici e i commenti degli avversari, consente di ottenere un certo grado di popolarità[4]. Il valore di sé, la propria autostima, dipende dalle relazioni che il giovane stabilisce con le persone che lui ritiene più importanti. Chi entra nel ruolo di tifoso ultrà trova un’identità già predisposta con il suo corredo di norme, valori, sanzioni, credenze, ragioni e modelli d’azione. Il profilo che emerge è quello di tifosi inclini e disponibili all’atto violento, non tanto per danneggiare, offendere, prevaricare, quanto spronato dall’esigenza di realizzare un’immagine ed una reputazione. L’aggressività molte volte è la manifestazione visibile dell’impegno degli ultras a sostenere un adeguato concetto di sé, correlato al loro essere temibili, leali, generosi, fedeli ai colori. Come detto in precedenza, la necessità di salvare la faccia, ad esempio, esige il più delle volte la maschera guerriera che impone al tifoso di essere all’altezza di ciò che dichiara di essere. In genere i tifosi ultras si prendono troppo sul serio, vi sono situazioni come la paura di vedere pregiudicata davanti agli occhi dei compagni l’immagine di sé, la necessità di reagire a provocazioni che non possono essere ignorate, l’incapacità di trovare un’onorevole via d’uscita, il timore di non essere all’altezza della situazione, che precedono la rissa tra tifosi. L’imbarazzo non è ammesso nelle curve, l’obbligo è di reagire subito, il gioco aggressivo di faccia che non viene preso sul serio, impone il passaggio all’aggressione, la quale diviene a sua volta un mezzo per superare, e per evitare l’imbarazzo, al fine di ristabilire una situazione in cui sia possibile recuperare l’autostima. L’imbarazzo allo stadio diviene una manifestazione da evitare, da nascondere, da non offrire come segno di debolezza. Il mito dell’eroe e la proiezione ideale del sé, attraverso cui ogni adolescente attua il primo stadio della propria differenziazione come maschio adulto, è un tema che ricompare sotto vesti diverse nel susseguirsi delle generazioni. Il gruppo dei compagni, degli amici, la banda o il gruppo ultrà, fanno sempre da coro e da testimoni, dinanzi a loro ogni adolescente del gruppo a turno deve dar prova di sé, dimostrare agli altri coraggio, fedeltà e disponibilità alla lotta. Il comportamento individuale di ogni tifoso diviene spiegabile se viene ricondotto ai processi interattivi di gruppo e alle norme che lo regolano, i vari gruppi di ultras, se visti da vicino, presentano differenti stili di comportamento.

L’osservatore attento, però, oltre a percepire le differenze, percepisce anche le somiglianze. Nonostante ad una prima occhiata tutto questo non traspaia, i gruppi ultras non sono aggregati occasionali ed anarcoidi, non è difficile rintracciare nelle loro condotte la presenza di valori e norme ed il fatto che essi non siano espliciti testimonia forse la loro condivisa interiorizzazione. In altre parole il giovane tifoso sembra possedere in anticipo i riferimenti necessari, le regole apprese nel quotidiano e comune retroterra socio-culturale, gli consentono per esempio di riprodurre i valori della solidarietà aggressiva. I principi astratti della giustizia, la ritorsione punitiva, l’onore e il coraggio, le giuste espressioni della virilità offesa, il valore della vittoria vengono per esempio elaborati più in termini di affermazione conflittuale che di cooperazione competitiva.

Altre norme vengono invece dal fondo della tradizione calcistica. Le forme culturali che le tifoserie si tramandano contengono le norme per trasformare l’agonismo in antagonismo. Il tifo organizzato ha una sua storia parallela, ma anche autonoma dal calcio come fatto atletico: nella sua memoria storica lo scontro tra spettatori è un fine e un mezzo per risolvere a proprio modo la contesa sportiva. L’orientamento aggressivo può divenire un valore, una dimostrazione di forza, di coraggio, di  intransigenza e di fedeltà. Il tifoso non è mai completamente separato dalla cultura sportiva ufficiale, nemmeno quando commette atti trasgressivi o violenti. Inoltre, la sua appartenenza momentanea al gruppo di ultras è transitoria, cessati i clamori domenicali rientra nelle regole della convivenza quotidiana con norme e valori precisi. Appare evidente che tra l’immagine del tifoso violento e quella dello studente o impiegato possano manifestarsi dissonanze ed è spontaneo chiedersi come venga ricomposta questa contraddizione, e di quali espedienti ci si avvalga per eliminare questa duplicità morale. Per capire questo problema Salvini isola quattro tipiche modalità di neutralizzazione della responsabilità, realizzando interviste con ultras di Roma e Milano: 1) il richiamo ad istanze superiori: in pratica i tifosi si giustificano appellandosi ad una morale superiore, richiamandosi ai doveri di solidarietà, di fedeltà ai colori e alla squadra, all’amicizia di gruppo; 2) il richiamo alla giusta punizione, cioè la spersonalizzazione degli avversari, degli altri tifosi, dei giocatori, secondo il loro ruolo di nemici; 3) la negazione della illiceità: i tifosi ultras interpretano le loro azioni come trasgressive, ma non immorali e non per questo ingiusti; 4) l’esclusione della propria responsabilità, modalità che in genere viene poco usata, ma a cui ricorrono gli ultras di fronte alla disapprovazione sociale.

Il “bisogno di apparire”

“La cultura dello stadio non favorisce tanto una politicizzazione più o meno perversa, quanto l’espressione di massa di un bisogno che i teorici hanno sempre ignorato, e cioè l’impulso all’esibizione di sé, ad apparire su una scena pubblica” (Dal Lago, 1990, p.126).

In generale, quanto più il calcio acquista le caratteristiche di un campo di investimenti emotivi, sociali e politici, tanto più diviene una ribalta per gli attori in grado di apparirvi. L’interesse dei media, il ruolo di moltiplicatore economico individuato nel calcio da tendenze imprenditoriali innovative, la grande sensibilità dei politici per questa fonte di legittimazione, fanno sì che il calcio costituisca, anche per gli spettatori, una straordinaria occasione di essere visibili e quindi di conquistarsi una porzione rilevante di ciò che Dal Lago chiama il “potere sociale delle immagini”. Per le sue caratteristiche di fatto sociale globale costruito intorno a una fonte di emozioni, il calcio costituisce, ciò che Goffman (1967) definirebbe come una realtà ideale per l’azione e soprattutto per rendere socialmente visibile l’azione, e cioè la partecipazione a situazioni “fatidiche”. Situazioni in cui gli attori partecipano a un rito in grado di dare i brividi e questo è precisamente il senso dei rituali di stadio: rendere visibili questi momenti, celebrandoli, è il significato principale della partecipazione dei giovani tifosi alla partita; qualcosa di più complesso del teppismo, della frustrazione o di una banale affermazione di sé.

Il fatto che uno striscione sia visibile in tutto lo stadio, che una coreografia particolarmente suggestiva sia visibile in televisione offre ricompense simboliche (prestigio, rispetto dei tifosi avversari) a chi ha organizzato queste attività. Analogamente, essere rispettati sul proprio territorio, dimostrarsi più forti dei tifosi avversari, rafforza il senso dell’identità di gruppo.

La vera chiave per comprendere la cultura delle curve, dice Dal Lago, è costituita dalle relazioni, spesso insospettabili, tra valori e simboli della vita seria e valori e simboli del gioco e dello sport; come già detto, il calcio non riassume o esprime ma trasforma, date le condizioni particolari in cui si svolge ogni domenica, i contenuti della vita seria.

Il significato profondo dei rituali da stadio, individuali o collettivi, divertenti o truci, strettamente ludici, o a loro modo terribilmente seri, va ricercato probabilmente nella nozione di apparire. Tra i bisogni umani vi è l’impulso a rappresentarsi, ad apparire, a esibirsi, che manifesta non solo una costante antropologica, ma è il fondamento stesso della diversità umana e anche dell’unicità irripetibile dei singoli e dei gruppi. Le forme dell’apparire sono mutevoli rispetto ai contenuti monotoni della vita sociale. Né la vita seria né il lavoro possono ospitare il bisogno, l’impulso, la necessità di apparire. Le modalità di espressione, di manifestarsi, evadono lo spazio e il tempo della serietà e cercano o inventano mondi paralleli; le divisioni funzionali della vita sociale e delle sue categorie primarie, lo spazio e il tempo, vengono modificate nelle realtà ludiche. Il calcio, forse perché temporalmente distribuito nel week-end (un’interruzione funzionale della vita seria), ha creato uno spazio separato, una parte attiva del pubblico lo usa cioè per dei riti di apparenza e di appartenenza. Il gran parlare di calcio, sgradito agli intellettuali, esprime anche il bisogno di dilatare spazio e tempo del gioco, di non cedere all’imperio della serietà che fatalmente si instaura ogni lunedì. Se qualcuno osservasse quanto sia banale questo spazio di espressione ludica, se confrontato alla musica, al teatro, o semplicemente allo sport praticato, e non solo visto o parlato, non sarebbe difficile rispondere che ogni società produce i rituali ludici o d’evasione che si merita.

Dal Lago invita a cercare, dietro ai comportamenti di tanti gruppi nati e affermatisi sugli spalti e nelle curve degli stadi, un’ammissione di impotenza da non fare ricadere solo sui soggetti, ma identificata con gli effetti dei miti dominanti della società: l’intossicazione del lavoro, del progresso, del successo, di quella micidiale serietà che senza ironia i sociologi chiamano ordine sociale. I simboli politici, trasformati e parodiati negli stadi, sono metafore di un agire impossibile, di un bisogno di apparire un tempo accettato nelle manifestazioni politiche di massa ed oggi rifiutato perché il loro referente serio è andato perduto. Paradossalmente, la violenza inscenata, proprio perché esprime soprattutto un bisogno di esibizione, controlla la possibilità di una violenza estrema o praticata. L’esistenza di gruppi, rituali, coreografie, tradizioni, inimicizie e amicizie soddisfa largamente il bisogno di forme, la fame di riti, che la noia della vita quotidiana tende ad offuscare. Il significato profondo dei rituali da stadio va cercato nella nozione di “apparire”.

“Né la vita seria né il lavoro possono ospitare il bisogno di apparire, il bisogno di forme, di colori, di suoni” (Dal Lago, 1990, p.178). La violenza inscenata, proprio perché esprime soprattutto un bisogno di esibizione, controlla la possibilità di una violenza estrema o praticata. Senza cadere nel cinismo di chi accetta la violenza rituale come male minore, Dal Lago osserva che proprio dalle voci rituali della domenica sale un certo messaggio sulla qualità dei nostri giorni feriali.

La “sindrome” di Andy Capp

I giornalisti Dario Colombo e Daniele De Luca[5] assemblano una serie di voci che, da numerose curve d’Italia, raccontano la propria storia e quella dei propri gruppi, e affrontano i temi considerati cruciali dal movimento: il rapporto con la trasformazione del calcio e della vita di curva, il rapporto con le istituzioni, i canoni dello stile di vita ultrà.

Per Colombo e De Luca, la caratteristica principale della cultura ultrà non è il dato anagrafico, ma quello comportamentale: in tutta Europa l’ultrà trova il proprio comune denominatore in un desiderio d’autonomia e un forte, a tratti esasperato, senso di contrapposizione nei confronti di ogni forma di autorità costituita (da quella sportiva a quella politico-istituzionale). L’unico, vero collante di un movimento per altri versi frammentato è il rifiuto di ogni forma di controllo da parte altrui, dalle società sportive alle forze di polizia (considerate una vera e propria tribù avversaria). Insomma un comportamento conflittuale di massa che non può non preoccupare i precursori dell’ordine sociale, culturale e territoriale.

andy capp birra SCONTRI ULTRAS, VIOLENZA NEGLI STADI E TIFO CALCISTICO

Andy Capp – birrificiobsa.com

Di conseguenza, nella terminologia utilizzata rispetto alle “questioni giovanili” affiora perpetuo un senso di allarme che sembra manifestarsi in una vera e propria sindrome collettiva, definita “sindrome di Andy Capp”, in cui ogni giovane assume le allarmanti sembianze di Andy Capp[6], protagonista assoluto del fumetto dell’inglese Reg Smythe. Questa “sindrome”, riferita alle classi dominanti e più in generale al ceto medio, si manifesta come stato di paranoia collettiva indotto dal combinarsi di cinque condizioni: la turbolenza giovanile deve svilupparsi in un periodo segnato da diffusi stati di incertezza sul proprio presente e futuro che sfociano nella ricerca di capri espiatori; la presenza di un sistema di comunicazione in grado di catalizzare ed amplificare gli stati d’ansia collettiva; la turbolenza giovanile deve andare oltre quei quartieri e quelle porzioni di territorio assegnate alla sfera d’influenza del “giovane marginale”; l’allarme-giovani deve avere tra i propri interpreti, per amplificare la propria portata, ragazzi di ogni ceto e condizione sociale, a sottolineare il progressivo allargamento del fenomeno e, infine, deve possibilmente esprimere valenze tali da rendere le manifestazioni di turbolenza del tutto estranee al proprio modello culturale.

Nella cultura ultrà troviamo soddisfatte tutte queste cinque condizioni: il movimento nasce e si sviluppa negli ultimi trent’anni, periodo, come già visto, segnato da grandi rivolgimenti sociali, culturali ed economici, dalla sempre più accelerata trasformazione tecnologica e dalla relativa restrizione del mercato del lavoro; una società contrassegnata da grandi incertezze che smarrisce il filo di ogni possibile progetto e con essa di ogni possibile futuro. Un perfetto meccanismo di propagazione ansiogena, ideale per una diffusione epidemica della “sindrome di Andy Capp”. Anche la composizione sociale prettamente interclassista del movimento ultrà, come abbiamo già visto, corrisponde esattamente alle condizioni di sviluppo della sindrome: in curva si ritrovano, fianco a fianco, giovani di ceto medio e figli dell’alta borghesia, occupati e disoccupati. La violenza calcistica non si manifesta unicamente come il frutto avvelenato della rabbia del sottoproletariato, e i gruppi sono di solito formati da giovani che condividono non tanto una comune e disagiata condizione materiale, quanto modelli culturali egemoni e unificanti.

In questo contesto apertamente conflittuale, la questione della sovranità sullo spazio momentaneamente occupato, le curve, diviene centrale. Il XX secolo è stato il primo senza terra incognita, senza una frontiera: non un centimetro quadrato di terra esiste senza polizia o tasse, “in teoria”. “In teoria”, perchè esistono le cosiddette “zone temporaneamente liberate”[7], cioè dei luoghi liberati, dove la verticalità del potere viene sostituita spontaneamente con reti orizzontali di rapporti, che appaiono e proliferano nelle zone meno appetite dal potere politico-economico, nei meandri metropolitani. Anche nelle curve, quel che si va a formare con la partita, è in tutto e per tutto una T.A.Z. (zona temporaneamente liberata): ogni domenica la curva si trasforma da luogo fisico a luogo sociale, palcoscenico di conflitti e di aggregazioni comunitarie. Così viene descritta da un tifoso del Liverpool il leggendario Kop, settore simbolo dei sostenitori della squadra inglese:

“Anche d’estate, vuoto e tremolante, sotto il bagliore del sole, il Kop rappresenta uno spettacolo grandioso. Ma vederlo attraverso la foschia dei riflettori e il turbinio del fumo delle sigarette, in una nebbiosa serata d’autunno, ti taglia letteralmente il fiato: 25mila tifosi che gridano, cantano, danzano e oscillano, che ruzzolano e cozzano un con l’altro in un ruvido mare di folla. Ed il rumore, assoluto, un’onda sonora in grado di sradicare i tetti delle case. Questo è il Kop, una leggenda del calcio. Tra le curve inglesi non è la più vasta, ma è certamente quella più allegra, e che incute più timore e rispetto agli avversari. Per i tifosi del Liverpool è una cattedrale, un luogo sacro, e dopo Hillsborough, un reliquario. La struttura è già di per sé impressionante, ma è la sua gente che crea il Kop: senza tifosi è una spettacolare ma pur semplice opera di ingegneria civile, con i tifosi si trasforma in qualcosa d’altro, in una COMUNITA’, in una CONGREGAZIONE, in una CULTURA” (Kelly, 1993, p.117).

Il movimento si autorappresenta, infatti, come una serie di comunità che si ritrovano intorno a un ideale totem (la squadra) e a un territorio liberato (la curva) e che esprimono una forte capacità di aggregazione non soltanto nei riguardi della propria tifoseria, del proprio gruppo, ma anche attraverso una rete di amicizie che va ben oltre la propria comunità.

 La violenza calcistica

Roversi, in Calcio e violenza in Europa (1990), pone l’interrogativo su cosa si intenda con il termine “violenza calcistica”, spesso associato al tifo ultras; e lo fa sulla base di sei analisi sul teppismo calcistico relativo ad altrettante nazioni europee: l’Inghilterra, la Germania, l’Italia, l’Olanda, il Belgio e la Danimarca.

C’è molta differenza, sottolinea l’autore, tra un’aggressione all’arbitro compiuta da pochi tifosi durante la partita e l’assembramento di folla che minaccia lo spogliatoio del direttore di gara al termine dell’incontro, tra gli atti di intemperanza compiuti dai tifosi per celebrare un’importante vittoria della propria squadra e quelli commessi per sfogare la delusione di una sconfitta o di una retrocessione, tra l’invasione di campo con cui di solito si festeggia l’ultima di campionato e l’invasione di campo per far sospendere una partita dall’esito sfavorevole e garantirsi così la sua ripetizione.

Roversi non si occupa di tutte le forme di violenza ma incentra il proprio lavoro sulla forma più recente e oggi probabilmente più diffusa, vale a dire quella forma di violenza tra spettatori che in Inghilterra, dove è apparsa per la prima volta su larga scala a partire dalla metà degli anni sessanta, ha preso il nome di football hooliganism (teppismo calcistico). Una forma di violenza che può essere definita come l’insieme di atti di vandalismo e di aggressione sistematica, in molti casi anche cruenta, che particolari gruppi di giovani tifosi compiono ai danni di analoghi gruppi avversari sia dentro che fuori dagli stadi.

I rituali violenti  partono dalle minacce all’ingresso, proseguono sulle gradinate tra spintoni e cariche, a volte si registrano invasioni di campo o assalti ad arbitri o giocatori; fanno parte di questo insieme anche il lancio di oggetti, le distruzioni di qualsiasi tipo e gli scontri per strada.

Disastri ed eventi drammatici fanno parte della storia del calcio e del tifo: a cominciare dalla tragedia di Glasgow del 1902[8] fino ai nostri giorni. Molti scaturiti dalla violenza, altri da vere e proprie catastrofi. Come non ricordare il giorno più nero del calcio, il 25 Maggio 1964 quando almeno 301 persone vennero uccise e più di 500 ferite allo stadio Nazionale di Lima, in Perù, dopo un incontro tra i locali e l’Argentina[9]. L’incidente più spettacolare del mondo del calcio si verificò nel 1969 in America Centrale quando, nel match tra Honduras ed El Salvador, scoppiò una tale rissa che portò i due paesi a dichiararsi guerra.. “Questa “guerra del calcio”, è un classico esempio di come il grande rituale simbolico del gioco possa perdere il proprio carattere metaforico e tornare alle sue origini primitive” (Morris, 1981, p.278).

Negli anni a noi più vicini, la tragedia dell’Heysel, nella finale di Coppa Campioni tra Juventus e Liverpool, ha contato 39 vittime.

Attorno alla metà degli anni sessanta la stampa inglese rivolge la propria attenzione all’attività di questi gruppi di giovani, subito etichettati come hooligans, che si segnalano per atteggiamenti di aggressività nei confronti dei tifosi avversari; in realtà si tratta di un fenomeno di spontanea aggregazione giovanile, che però non tarda molto ad assumere un aspetto organizzato, non troppo dissimile, per certi versi, da quello che ci siamo abituati ad associare in tempi più recenti anche ai gruppi ultras di altri paesi. Bande di adolescenti e ragazzi cominciano a rivendicare le curve degli stadi inglesi come loro territori e ad escludere da queste zone sia gli spettatori più anziani che i giovani spettatori delle squadre rivali.

“La vera svolta qualitativa della violenza legata al calcio si colloca verso la metà degli anni ’70, e cioè presumibilmente con l’avvento delle tifoserie organizzate, mentre, a partire dal 1977/78, si ha un costante incremento quantitativo degli incidenti” (Dal Lago, 1990, p.165).

Come già accennato nelle pagine precedenti, la curva assume un elevato valore simbolico e questi giovani si sentono personalmente impegnati a difenderla dalle intrusioni estranee; in questa ottica, la profanazione di essa da parte di altri tifosi è vista come una provocazione intollerabile e ogni tentativo di invadere quel territorio per impadronirsi di bandiere e striscioni viene avvertito come un vero e proprio atto di guerra, capace di scatenare una catena di vendette a distanza.

Interessante è la parte dedicata  all’analisi di un fenomeno particolare ed unico nel suo genere, il movimento di tifosi definito roligan, sviluppatosi in Danimarca all’inizio degli anni ottanta. Questo movimento si è contraddistinto sin dall’inizio dagli analoghi movimenti degli altri paesi europei per il comportamento del tutto pacifico dei suoi animatori e tale caratteristica l’ha imposto all’attenzione non solo della stampa sportiva, ma anche degli organismi internazionali che coordinano la lotta contro il teppismo calcistico.

Nell’analisi  riguardante Inghilterra, Germania, Italia, Olanda e Belgio ricorrono alcuni temi degni di particolare menzione.

Il primo di questi temi riguarda senz’altro la convinzione di alcuni autori che gli stadi europei, dopo essere stati per lungo tempo teatro di violenti scontri tra gruppi di tifosi, che spesso non hanno risparmiato neppure i normali spettatori, sono adesso tornati ad essere luoghi in cui regna una certa sicurezza e tranquillità.

In Inghilterra, dove la diminuzione del pubblico è stata una tendenza pressoché costante nell’ultimo quarantennio, ciò ha comportato un’inversione di tendenza, dal momento che, di recente, le presenze sugli spalti hanno preso nuovamente ad aumentare. Questo risultato è stato conseguito a prezzo di massicce misure di controllo e con l’impiego di ingenti forze di polizia; il complesso di misure adottate ha indubbiamente prodotto nel breve periodo dei risultati positivi ed il numero e la gravità degli scontri e delle risse tra bande rivali di hooligans dentro gli stadi sono quasi subito diminuiti. Anche qui sono stati messi in atto provvedimenti come separare le tifoserie, erigere cancellate, installare televisioni a circuito chiuso, perquisire gli spettatori all’ingresso, ecc.

Purtroppo si è visto che il risultato, sia in Inghilterra che nel resto dell’Europa, ha aperto la strada ad effetti imprevisti ed indesiderati, come quello di dislocare il teppismo calcistico fuori dagli impianti sportivi; ciò accade soprattutto alla fine della partita: tutto si trasferisce all’esterno dello stadio, “in un mondo raramente disposto a considerare ludicamente i giochi di guerra. E’ questa la fase in cui il conflitto tra violenza simulata e violenza praticata è molto sottile” (Dal Lago, 1990, p.148).

Un secondo punto che emerge ripetutamente riguarda una credenza che circola ancora in molti paesi, a livello di opinione pubblica e senso comune, sulla natura del teppismo calcistico: l’abuso di alcool, la presenza di una sparuta minoranza di giovani con spiccate tendenze delinquenziali e la capacità di trascinare nelle sue imprese altri giovani normali e tranquilli, che, data l’età, sono altamente manipolabili. Un’attenta osservazione del teppismo calcistico non può però evitare di cogliere, nella grande maggioranza dei casi, il suo essere oggi un fenomeno di tutt’altro tipo, ossia un fenomeno altamente strutturato. Come abbiamo visto, i gruppi giovanili violenti non si formano casualmente, per aggregazione momentanea, ma costituiscono invece organizzazioni  razionali, con una precisa gerarchia interna, una stabile divisione dei ruoli e un nucleo di regole di condotta. Il giovane che entra a far parte di tali strutture entra in un mondo di valori condivisi in cui il tifo è vissuto come espressione di virilità nelle sue componenti più immediate di grinta, combattività, forza.

Altro tema importante sollevato è quello che riguarda i rapporti tra violenza calcistica e mondo della carta stampata e della televisione.

Al centro di questo tema vi è in genere l’accusa mossa al giornalismo, sportivo e non, di aver contribuito in diversi modi alla diffusione del teppismo calcistico nei vari paesi e a fargli assumere la fisionomia con cui esso si manifesta di prevalenza. I mass media vengono accusati di proporre un’immagine altamente diseducativa, presentando il calcio come evento sociale di straordinaria importanza molto simile ad una guerra, con il risultato di rendere il pubblico dei tifosi sempre meno capace di analizzare e giudicare nei suoi reali contenuti ciò che ha davanti agli occhi. L’accusa prosegue sostenendo che da quando la scena calcistica è stata macchiata dai primi gravi incidenti tra gruppi ultras, i mezzi di comunicazione di massa non hanno perso l’occasione di lanciare campagne di stampa, con l’evidente scopo di vendere più copie o conquistare maggiori ascolti, che hanno offerto un’immagine puramente sensazionalistica e spesso sovradimensionata del teppismo calcistico.

Roversi si spinge oltre le analisi realizzate su scala europea e cerca di approfondire il discorso relativo al teppismo calcistico, entrando nello specifico della situazione italiana.

Una prima ipotesi da lui sostenuta riguarda la natura dei gruppi ultras italiani: non si tratta di aggregazioni giovanili prive di norme ma di gruppi all’interno dei quali il comportamento dei membri è governato da un preciso e ferreo repertorio di regole, Questi gruppi sono permeati da una cultura in cui la violenza non appare come un comportamento sanzionabile ed è fortissima in loro l’adesione a valori come la forza, la durezza, l’aggressività, il disprezzo per gli avversari. Attraverso il gruppo ultras e la pratica del teppismo calcistico il giovane tifoso tenta di assumere un ruolo adulto e conquistare una posizione di prestigio all’interno del gruppo stesso.

Le forme con cui il movimento ultras muove i primi passi nel nostro paese presentano sin dall’inizio, per Roversi, accanto ad alcune caratteristiche comuni con altri paesi, diversi tratti che non ritroviamo nelle altre nazioni europee e che segnano una via abbastanza originale al teppismo calcistico. Secondo l’autore, e come già visto nelle pagine precedenti, i fattori che paiono essere alla base dei primi movimenti ultras e che spingono alcuni gruppi di giovani tifosi a praticare una forma autonoma e diversa di tifo calcistico sono rappresentati, oltre che da una forte passione per la squadra, da un rapporto amicale che si nutre di una comune vita di quartiere e/o di una comune vita scolastica, dall’adesione ideologica o dalla militanza diretta, per quanto sempre in forme “deboli”, in movimenti politici estremisti, e dall’assimilazione, per vie diverse, del modello inglese di tifo hooligan.

Ma ciò che caratterizza in modo netto il lavoro di Roversi è la critica alla teoria della violenza ritualizzata elaborata dai ricercatori della famosa Università di Oxford[10]. Roversi concorda nel sostenere che esista anche una componente rituale nel comportamento violento dei tifosi, ma ritiene anche che la scoperta che i gruppi di tifosi violenti obbediscono a delle regole di condotta non possa essere considerata una prova del loro carattere inoffensivo. Inoltre, il fatto che una qualsiasi attività umana sia governata da regole non significa che essa sia per questo non violenta.

Naturalmente se l’osservazione dei comportamenti ultras resta circoscritta allo spazio dello stadio, quando le tifoserie sono confinate in settori separati, circondate dalle forze dell’ordine e pertanto con possibilità di contatto ridotte al minimo, il quadro che ne risulta non può che essere quello del rituale inoffensivo di una battaglia simbolica combattuta a distanza a colpi di slogan, insulti, atti di sfida e incitamenti alla violenza. Ma fuori dai confini dello stadio, le cose vanno in modo assai diverso.

Se arriva una tifoseria nemica, vengono fatti lunghi preparativi, si formano gruppi che hanno il compito di cercare gli avversari giunti in città già nelle prime ore della mattinata, si sorvegliano alcuni punti di accesso alla città come gli accessi all’autostrada, la linea ferroviaria, la stazione. Col passare delle ore si restringono le zone e si presidiano le strade sempre più vicine allo stadio. Lo stesso accade al termine della partita. Se invece si va in trasferta, occorre studiare il percorso, organizzare la difesa di coloro che portano gli striscioni, prepararsi ad eventuali attacchi a sorpresa e così via. Quando scoppiano gli incidenti l’intenzione è di fare seriamente i conti con l’avversario.

È un atteggiamento che si rispecchia nelle dichiarazioni degli ultrà stessi, da cui emerge innanzitutto che la possibilità di trovarsi coinvolti in disordini e di fare ricorso all’uso della violenza è un’eventualità che ai loro occhi non appare affatto estranea o remota:

“Ormai lo si sa prima se può succedere qualcosa, perché chiaramente le sai prima le partite in cui puoi trovare casino oppure no. Ormai conosco tutti gli ultras d’Italia come le mie tasche quindi so già che a Roma con la Lazio o a Milano con l’Inter fai casino” (Roversi, 1992, p.123).

Queste dichiarazioni non fanno altro che confermare, per Roversi, che gli atti di teppismo calcistico, da un lato, hanno poco a che vedere con i successi o con gli insuccessi della propria squadra o con quanto succede in campo durante le partite e poco a che vedere anche con le reazioni emotive e passeggere rafforzate dal consumo di alcool e droghe, sebbene ciò possa sporadicamente avvenire. Hanno invece molto a che fare con scelte di comportamento ben radicate nella cultura ultras e che riguardano la vita dei tifosi in tutte le sue dimensioni, compresa quella che contempla l’eventualità di essere al centro di scontri ultrase disordini. Roversi riconosce in pratica nel fenomeno ultras un forma di aggregazione capace di esprimere un coerente sistema di regole e valori, che copre l’intero ambito delle sue attività: l’appartenenza di gruppo, le manifestazioni rituali e coreografiche del tifo e le azioni violente contro i tifosi avversari.

La violenza ultras ha comunque quasi sempre evitato di sfogarsi sui tifosi ed il suo esercizio si è mantenuto all’interno di canoni ben definiti. In questo senso, Roversi afferma che, se da un lato i gruppi ultras sono stati i principali promotori della violenza calcistica nell’ultimo ventennio, essi hanno avuto contemporaneamente anche una funzione di controllo sulla violenza stessa, facendo attenzione a conservare il carattere di “affare di famiglia” tra ultras e mantenendo gli episodi di violenza entro precise “regole del gioco”. Le regole di comportamento ultras, nel momento di passare all’atto violento, sembrano acquistare i tratti di un codice d’onore in base al quale ci si batte ad armi pari tra eguali, tra chi ha scelto di vestire consapevolmente la divisa ultras; allo stesso tempo si evita di coinvolgere chi a questo mondo non appartiene.

Non è vero che gli stadi sono insanguinati visto che la violenza che spesso si genera è prerogativa esclusiva dei tifosi organizzati e costante nel tempo. “Date le caratteristiche essenzialmente conflittuali del gioco del calcio e dei suoi spettatori, c’è da meravigliarsi non tanto della violenza sugli spalti quanto del carattere sporadico e del numero limitato di quelle sequenze” (Dal Lago, 1990, p.167).

Il rilievo pubblico assunto dalla violenza dipende dal fatto che è associata ad uno spettacolo visibile e vistoso come il calcio. “Circa 1000 omicidi all’anno in Italia non spingono la stampa né i sociologi della devianza a scrivere che la nostra vita è normalmente in pericolo, perchè si tratta di violenza confinata alla vita privata” (Dal Lago, 1990, p.171).

“La violenza è più di parola che di fatto, e, quando effettivamente scoppia, coinvolge solo i fans rivali…Per colpa di pochi individui instabili e realmente brutali, che finiscono sui giornali per il loro comportamento antisociale, il giovane tifoso normalmente turbolento viene etichettato come criminale. Grazie all’intervento dei media, diventa “il diavolo popolare” della società moderna” (Morris, 1981, p.263).

Nel tempo sono state elaborate misure di intervento, al fine di combattere con efficacia gli aspetti più distruttivi di questo fenomeno. La nostra nazione ha sempre considerato il teppismo calcistico unicamente come un problema di ordine pubblico, per fronteggiare il quale si è deciso di ricorrere a una duplice strategia: da un lato, si è reso operante un collaudato servizio d’ordine da parte delle forze di polizia con il compito di prevenire e sedare gli eventuali disordini tra gruppi ultras sia dentro che fuori dagli stadi; dall’altro, sono state adottate una serie di misure di carattere legislativo[11]. Senza tali misure è facile prevedere che il teppismo calcistico avrebbe raggiunto una soglia di pericolosità molto maggiore.

Roversi è convinto che, da sole, esse non possano bastare e che ogni serio tentativo di risolvere il problema non possa prescindere dall’adozione in parallelo di programmi d’intervento basati su una diversa ottica: resta infatti in lui la convinzione che siamo di fronte ad un problema che non riguarda semplicemente la questione dell’ordine pubblico, ma ad un problema giovanile con più vaste implicazioni sociali, psicologiche e culturali, e rispetto al quale sarebbe illusorio pensare che il ricorso alle sole misure di polizia possa fornire una risposta risolutiva.

Per valutare l’evoluzione del fenomeno della violenza, Augusto Balloni ha effettuato un’inchiesta (1993, Sportivi, tifosi, violenti) mediante interviste e questionari a sostenitori-tifosi inseriti in un Bologna club[12]. I violenti degli stadi quale ordine violano, si chiede Balloni? Essi violano frequentemente le regole dell’ordine, adottano cioè un comportamento contrario a quell’ordine che regola la condotta delle persone quando sono in presenza, fisica e diretta, le une delle altre. In particolare, negli stadi si verificano, nel corso di diverse forme di violenza collettiva, aggressioni fisiche contro persone e cose e manifestazioni verbali (urla, grida, fischi) caratterizzate da espressioni offensive,  manifestazioni espressive che violano le regole del comportamento in pubblico. Le aggressioni verbali o fisiche dimostrano, in primo luogo, scarsa considerazione o rispetto per le persone riunite per l’occasione sociale. Allo stadio si hanno manifestazioni che di per sé non possono considerarsi comunicazioni, perché violano le regole che rendono possibile un’ordinata comunicazione faccia a faccia. Queste considerazioni però non spiegano perché un adulto considerato normale possa distruggere oggetti, danneggiare altre persone, insultare e interferire nell’altrui libertà di movimento. L’adulto normale allo stadio può far ciò perché non è solo ma si trova in un contesto “al plurale”, in una situazione ambientale in cui l’azione si frammenta e si ricompone in una molteplicità di frangenti: chi svolge l’azione è un soggetto singolo, ma la parte che egli rappresenta può essere un gruppo di mutevole composizione i cui membri sono impegnati collettivamente.

Quindi l’azione si dilata in un comportamento che è funzione della persona e dell’ambiente ad un momento dato. Persona e ambiente interagiscono in quella interdipendenza che genera il comportamento che a sua volta influenza persona e ambiente: secondo Balloni è questa interdipendenza che occorre studiare, perché è da essa che emergono quelle condotte in cui l’attore singolo e al plurale (le folle) riassumono in sé il ruolo di attore e di spettatore e si organizzano per la disorganizzazione.

La spiegazione sociologica (Dal Lago, 1990, p.10) della violenza chiama in causa due aspetti connaturati al calcio come sport di massa: il primo consiste nelle sue caratteristiche distintive, due squadre che si affrontano in un grande spazio recintato che attira migliaia di spettatori; il secondo è che da sempre il pubblico pretende di dire la sua durante il gioco. “Non vado allo stadio solo per soddisfare un bisogno estetico ma per veder vincere a ogni costo la mia squadra, e cioè me stesso come frazione di quel mana collettivo, in cui Durkheim identificava la relazione del singolo con la società. Infatti, i tifosi sono la propria squadra” (Dal Lago, 1990, p.11).

Estratto del testo Tra sport e sociologia: i rituali del tifo organizzato nel calcio in Italia e Spagna”, tesi scaricabile qua


[1] Bill Buford, giornalista americano che, per studiare il fenomeno ultra, ha vissuto con loro per alcuni anni, scrivendo I furiosi della domenica, cronaca spietata di tale percorso accanto ai tifosi inglesi. [2] Il riferimento è all’opera Il rito aggressivo, dall’aggressività simbolica al comportamento violento: il caso dei tifosi ultras (1988). [3] Tesi supportata, ad esempio, da Desmond Morris. [4] Così anche il gioco inglese dello “holding the end” (occupa la curva): se la tifoseria ospite è numerosa e compatta, può tentare d’impossessarsi del territorio altrui invadendo il settore di stadio riservato agli ultrà locali e rubando bandiere e striscioni, che si trasformano in trofei di guerra. [5] La loro opera del 1996, Fanatics, raccoglie una serie di testimonianze orali che consente di accedere all’universo ultrà; un libro su come il movimento ultrà si considera e si autodefinisce. [6] Tale giornalino illustrato descrive un determinato stile di vita, una sfera comportamentale che trova in Andy Capp il più straordinario interprete: aggressivo, ubriacone, maschilista, sfaticato, Andy riesce a rappresentare il modello del giovane marginale. [7] Dal nome dell’opera del 1985 di Bey: T.A.Z., The temporary autonomous zone. [8] Una delle più gravi, quando una sezione delle tribune crollò, trascinando alla morte 25 spettatori e ferendone un altro centinaio. [9] Tutto partì da un gol annullato al Perù, la folla esplose di rabbia, la polizia reagì con i lacrimogeni in un crescendo di caos e panico. [10] Tali studiosi ritengono che gli scontri tra opposte tifoserie in occasione delle partite di calcio non siano altro che un “rituale aggressivo” in cui raramente si corre il rischio di fare vittime, stabilendo una netta distinzione tra aggro, cioè un’espressione ritualizzata dell’aggressività che non risulta nel complesso seriamente dannosa, e violenza vera e propria. Il carattere rituale dell’ aggro deriva dal tacito consenso, da parte di entrambe i contendenti, circa le regole di condotta che definiscono quando è appropriato attaccare, come dirigere il corso degli incidenti, e quando è giunto il momento di porre termine ai disordini e secondo quali modalità. [11] Ad esempio la legge 401, emanata il 13 dicembre 1989, che prevede la possibilità, con un semplice provvedimento amministrativo degli organi di polizia, di vietare a coloro che si rendono colpevoli di atti di teppismo calcistico di accedere a tutti i luoghi in cui si svolgono competizioni sportive; o la legge 45 del 24 febbraio 1995 (conosciuta anche come decreto Maroni) che prevede il divieto di accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni sportive specificatamente indicate e ai luoghi interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che assistono alle competizioni medesime per chi ha già preso parte attiva ad episodi di violenza, in occasione di manifestazioni sportive. Tutto ciò, fino alle recenti normative che prevedono pene pesanti non solo per i diretti interessati, ma anche per le società di calcio e alle recentissime (ultimo il biglietto con nome e cognome).

[12] Nell’ambito di questa ricerca, Balloni e i suoi collaboratori hanno cercato di individuare le possibili motivazioni che stanno alla base del comportamento violento collettivo negli stadi. Nel far questo hanno distribuito un questionario con l’intenzione di mettere in evidenza i tratti più significativi del tifoso e la percezione di alcuni aspetti della violenza collegata allo spettacolo calcistico. I destinatari di tali quesiti sono stati: nel 1990, 76 club organizzati del Bologna calcio; nel 1991, i Carabinieri della IV Brigata, appartenenti alle forze di Polizia di Bologna ed un gruppo di studenti della Facoltà di Scienze Politiche. Per meglio conoscere tale fenomeno, è stata effettuata anche una ricerca sui mezzi di informazione mediante l’analisi di articoli comparsi su “il Resto del Carlino” e “Corriere dello Sport- Stadio” dal Maggio 1985 al Luglio 1990.

Per saperne di più, consulta l'articolo originale su:

http://www.postpopuli.it/31667-tifo-ultras-violenza-negli-stadi-e-scontri/


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