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SCRITTURE DAL FAR WEST DI PONENTE: MAGLIANI, SEBORGA, LANTERI, MURATORE (4/4). “Fanciulli di sabbia” di Lorenzo Muratore

Creato il 27 luglio 2011 da Fabry2010

SCRITTURE DAL FAR WEST DI PONENTE: MAGLIANI, SEBORGA, LANTERI, MURATORE (4/4). “Fanciulli di sabbia” di Lorenzo Muratore

[Fanciulli di sabbia è un romanzo inedito di cui proponiamo qui il primo capitolo.]

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Fanciulli di sabbia di Lorenzo Muratore

Avvenne per una congiuntura un giorno che, ostentatamente coperta di gioielli come un idolo delle indie, Esterina si avvicinò alla vasca da bagno.

La ricca e nera capellatura sciogliendosi le cadde sulle spalle.

«Gabriele… potresti aiutarmi un poco?» gridò all’ombra.

«Certo» egli rispose.

«Non riesco a slacciare…»

Erano i bottoni di una tunica semitrasparente di mussola arcigna, che avvolgeva la traboccante schiena, e le rotonde cosce e più che neve bianche, e ogni più nascosta parte; e attorno ai quali, bioccole luccicanti, si poteva ascoltare la voce delle Erinni; ma un ragazzo potrebbe dire d’esser vivo per un attimo, e non di rado in una umile tela qualsiasi si nasconde una arcigna divinità che dà forma ai nostri spropositi.

Non era, una volta sbottonata, quel nudo olimpico e quasi crudele, con ciò sia cosa che sotto la mussola bianca si librava solitaria una vestaglietta nera, che giaceva contro i fiancuzzi sino alle chiappe illuni.

Crepuscolo che fu però facile a lei di togliersi da sé, alzando la vestaglietta, con un guizzo repentino dello stridìo di pipistrello.

La giovinetta madre balzò dunque con un sussulto e gli chiese di aiutarla a sganciare anche quell’ordigno di quella fibbia segnata di lucida fiamma che tiene alla tagliola il seno arrampicato su una scala di corda, tra un celeste vetro di tremori.

Ed ora raccolti sotto il lampo i seni erano nudi; uno che ride colmo e labastrino, uno che canta alla chitarra infuocata la traboccante bellezza ispanica ed il capezzolo latteo e la montagna rosea delle mammelle.

Le unghie, come i primi petali del fiore, apersero ai malori terrestri quegli stecchelli d’argento alla madre che, senza maglia, con miti membra, ora gli volta le sue dolci reni; nelle quali l’ardente sua immaginazione fece un’estrema escursione quasi volesse venir a esplorare dei tesori da schiudere a viste meravigliate.

Le natiche, per l’appunto, non si mostravano, perché sua madre aveva una sottovestitella nera, corta, strasparente, con delle mutande velettate come delle mascherine; e le gambe erano come sipari intermittenti d’un teatro, al tempo stesso solenne e tenero.

Lo sguardo del ragazzo si fermò sopra un balzo bianco dove fiorivano le nere mutanduzze; ma ne coglieva i baldanzosi fianchi, cosi incoronati di vezzi di spine spicciolate.

Quelle erano la linea d’ombra che ci avverte che qualche regione o qualche confine della coscienza, a un livello più profondo, è passato, e siamo nell’ignoto mare. Se si sveste la larva delle brachine ignudate, quali ombre pericolose o quali parole inquietanti si potrebbero scatenare.

Pazzo il chiamare al tiro con l’arco; alla tremarella; ondeggiare.

Lasciarsele parve fosse ancor più impudente; come ammettere di possedere qualcosa di talmente apocalittico o abbagliante. Forse pensò a come cavarsele fuori, nel modo più svolto e innocente; e aver così le chiappe denudate e manifeste.

Ma qualcosa di soprannaturale fermò la sua mano. Si stava togliendo appunto le mutanduzze con una lentezza strana; si chinò anzi sul bagno per raccogliersi i capelli in una cuffia. E il ragazzo, che il cuore gli batteva forte; seguiva la scena stordito.

Ma ora tuffandosi coi fianchi fu sommersa da quell’acqua; e, sparsi di perle i tumidetti avori, afferrati fra le mani gli spumanti umori d’una grigiorosea nube, si distende leggiadra; siccome nell’acqua si rinnova; come nascente dea che esca dall’oceano.

«Adesso dovresti insaponarmi la schiena, dove non arrivo colle mie mani. Ma tutto così vestito potresti bagnarti gli abiti. Togliti qualcosa.»

Il ragazzo si tolse la maglia.

«Anche le scarpe. Via, via tutti i vestiti.»

E lo fece spogliare ignudo nato. Questo lo rassicurò. Allora c’era proprio una intimità assoluta. Ma insieme egli cominciò a tremare. La madre si rese conto che il ragazzo era prigioniero dei propri nervi. Pensò di doverlo incoraggiare. Gli disse d’insaponarla più giù; e si protese più innanzi poggiandosi con le mani e co’ piedi in terra a guisa che stanno le cavalle, o come un trofeo irridente, o come una di quelle divinità egizie che mai seppe aedo così tanto idoleggiare; con quelle diafane e giovani chiappe come nocca ossuta si accorse però di aver aggiunto nuovi tormenti in luogo di sereni e alti godimenti, e che anzi ora discosta, paralizza dirocca fortilizi; e affinché non si spendesse, per eccitarsi poi in solitudine, con qualche pietà oggettiva, o forse per non sciupare la composizione con un brutto commiato, come un’equorea creatura si voltò, e con le mani cominciandogli a toccare il viso e la testa, lo baciò riluttante sui capelli; gli carezza le spalle ritrose.

Tutta chiusa nel serico corallo di quelle mutanduzze non più; ma fragrante di mughetto, avvolse l’ignudo, eretta in mezzo ad onde di maiolica lampone; e ne esprimeva una incoronazione.

«Non ti tribolare di me» gli disse, «ché il bagno dei cristalli ha i suoi rifugi! C’è un tutto che si sgretola e qualcosa della magia tenebrosa; ma che tu conosci anche soltanto con le dita, quando sfiori una pelle che ti dica che sei tu il principino; e fra le cose afferrate, poi ti si scioglie come un sospiro.»

La via per la quale ci si conduce va tortuosa pei poggi che il ragazzo soleva passeggiare la domenica per un sentiero circoscritto di brocche di biancospino da tanta parte; ma non riusciva egli a scorgere certe cose dell’ultimo orizzonte, quelle che vedono gli uccelli che navigano nel cielo.

«Del cielo», diceva, «da qui vedi solo la sua ombra; da lassù lo vedi per intero nella sua pienezza, come un’apertura musicale, nell’alba del mondo…»

Quel muro murato dal tempo, e quella siepe di scrollate corolle di tulipani rigirano l’albero.

Egli era bravo ad arrampicarsi; e nel pensiero già si fingeva di salirvi su la cima.

Era uno di quei fanciulli stravaganti, che preoccupano le madri, le quali nella loro ardente immaginazione sono portate a risolvere i problemi con balestrucci innocenti.

Un giorno un medico le disse: «Ci sono bambini, i quali se non si inventano qualche piacere pensano di morire.»

Ma lei, nel suo istinto, aveva già pensato qualcosa del genere, e cercava di essere all’altezza di quella sorta di malattia.

Adesso sapeva con certezza che quell’albero su cui il ragazzo voleva arrampicarsi da tanti anni, era lei.

Confuso fra salti di seriche dita, là galoppa e risplende; s’appressa più ratto del vento agli affanni di due ancora tondeggianti poma, con grazia unite, che pare chiamino al mite conforto della fanciullezza malata.

Ma, in quella vasca appunto, c’è tutto lo sgomento della bufera; e tutto l’oro dei palazzi imperiali nell’acqua estasiata.

Allungò dunque le mani per vedere se gli si rizza glorioso l’usignuolo; sì, e quell’erezione cristallina affascinò la dea.

Fu come per lambiccarglielo un poco; ma si accorse che anche questo era troppo poco.

Fu qui che lei pensò a com’era stata sciocca a credere che bastasse uno sguardo di più per rifare la calma di cui aveva parlato il dottore; col metro sepolto entro di sé misurò e vide sopra gli scogli delle sue ciglia che quel muover di inibite dita e mammella malata erano un indemoniato nulla, al confronto con un sogno isterico dalle ali di farfalla, che non schiude più l’onda girando con mano apata e confusa come un proposito dimenticato, ma passa della salamandra nel fuoco; e a poco a poco, desolatamente: quella trombettina di carne prende fra le sue labbra più aderenti, e nella lingua di luna, più all’altezza dei gridi in cui non vola altra gioia celeste.

Fu qui che Gabriele imparò a farsi dottore ne la nuova grammatica delle potentissime parole, che durò poi gran fatica a disvezzarsi da dir: e che risente delle perplessità metafisiche, le quali gridano nelle grondaie del corpo verbi che brillano come amuleti; giacché, se non si facesse talora di simili esortazioni per giungere a questi nostri estuari, e ai fiumi che risalgono in profondo, il martello non lavorerebbe poi bene.

Lei non sapeva su quali atlanti un orologio avesse descritto gli itinerari del tempo; ma le parve che al ragazzo si ponessero delle nuove questioni che la sua astuzia aveva tese nella siepe: in quel laghicciuolo nascosto, i suoi grilli parevano essere invitati a cantare canti luccicanti.

Gli spiriti, i moti, i pensieri d’argento vivo gli disse di tentar di fermargli con respirare più lentamente; e perché il babbino tornando non li sorprendesse mise la chiave nell’uscio; e poi che la sorte vuole così e quello che è stato è stato, dedusse una fondata opinione che tanta energia compressa dovesse pure espandersi e le pulsioni più coatte egli scaricare, ma con un altro ritmo, che per la voglia che egli ha di divorarsela, le parve che avesse fatto troppo velocemente; e dunque prese a carezzargli le pancia affinché la lancia che ne ha il suo trastullo, gli si accendesse al guizzo più calma; e, come dissi, ne udì le vibrazioni dell’aria respirata, e le parve che si aprissero voragini sotto i loro piedi; e tanto brigò che egli rimase come in una specie di atarassia col bastoncello ritto satirescamente; nella quale medica mano, presolo per quella cosa che più ci si vergogna di nominare, nuda dianzi la carne rosa e gli avori della sua carne dolcemente luminosa, su quella conchiglia marina, figlia della pietra che meraviglia la mente dei fanciulli, rifece cantare l’usignuolo; e già al giorno nascente vicino s’addormentarono.

E in cotal guisa dormendo avrebbe dovuto; anzi, prima di tutto, punirsi, e provare disprezzo per sé in silenzio. Ed invece era divenuta un’ombra e poi si era mutata in sabbia.

Lei sentì questa sabbia riprendere forma umana. Era in preda ad una eccitata meraviglia. Ma pur sapeva di sognare, e cercava di destarsi.

Non le era stato riservato in cielo un luogo certo e ineffabile; ma in una terra immune da ogni travaglio fisico e beata. Sapeva inoltre che era passato un lungo ordine di secoli e che non era più nello stesso tempo, e nella medesima dimensione. Quello era infatti un boschetto felice, nel quale, senza perdere la capacità di vivere, ogni cosa diveniva invulnerabile: non che l’avesse scoperto con la ragione, ma l’aveva veduto; e ne aveva colmato l’anima, tutta ardita e fresca di forze.

Di immaginare il paradiso nessuno è capace; né di descriverlo. Ed ogni oggetto risorge sublimato. Così vide la vasca da bagno mutarsi in un lago rispecchiato di palme, nel quale lei e suo figlio nuotavano.

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Bio Lorenzo Muratore

Lorenzo Muratore è nato a Ventimiglia nel 1941, poeta e prosatore, ha pubblicato il racconto Madagascar nell’antologia Over-Age – Apocalittici e Disappropriati (Transeuropa, 2009) e Pitture nere e altre immagini – Studio sui romanzi di Marino Magliani, con immagini pittoriche di Rita Elvira Muratore (Eumeswil Arti Grafiche, 2010).

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SCRITTURE DAL FAR WEST DI PONENTE: MAGLIANI, SEBORGA, LANTERI, MURATORE (4/4). “Fanciulli di sabbia” di Lorenzo Muratore
A cura di Marino Magliani, Scritture dal far west di ponente: Magliani, Seborga, Lanteri, Muratore. (pdf) [Racconti inediti]

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Testo pubblicato sul terzo numero di Atti impuri



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