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Senegalesi,torniamo a casa

Da Francesca1993

CHI SI E' PERMESSO DI DIRE UNA COSA COSI' RAZZISTA????
VOGLIO SAPERE CHI E' QUESTO XENOFOBO RAZZZZZIIIIIISTAAAA!!!!
CHI E'? UN LEGHISTA? UN FASCIO? UN NAZISTA?
DITEMI CHI E' STATO!!!!!!
Bira Wade NdiayeBIRA  WADE NDIAYE,ideatore di un  film-documentario sui senegalesi in Italia.
Genova - «Senegalesi, tornate a casaE se siete a casa, non venite in Italia». L’invito è lo stesso che urlano con motivazioni (politiche) i militanti della lega e con odio (razzista) le frange estreme del popolo degli stadi. E però che differenza se a lanciarlo è un uomo di Dakar che vive a Genova dal 2008 e ha deciso di trasformare l’esperienza di una generazione di emigranti in un film-documento che sarà girato nel ghetto, il cuore degradato del centro storico. Bira Wade Ndiaye, 35 anni, senegalese di Dakar, ha visto i suoi sogni sfumare davanti alla realtà fatta di umiliazioni e espedienti, torti subìti e miraggi di una ricchezza fatta di attività sporche, «droga e prostituzione». E si è convinto che esistono molte più possibilità in Africa che nella vecchia Europa travolta dalla crisi: per questo ripartirà al più presto utilizzando le opportunità del progetto per il «ritorno volontario assistito» (1.276 i rientri dall’Italia in quattro anni) finanziato dall’Unione europea e dal ministero dell’Interno. L’esperienza è il nome che ciascuno dà ai propri errori, scriveva Oscar Wilde. E dopo aver girato mezza Europa (e dopo 4 anni e 8 mesi trascorsi a Genova lontano dalla moglie e da due figli che non ha visto crescere) Bira ha deciso di tornare. E far conoscere (attraverso una lunga serie di interviste) la sua esperienza e quella di altri che, come lui, vorrebbero non essere mai partiti. «A Dakar studiavo lingue all’Università e lavoravo come impiegato presso una ong che opera nel mondo della cooperazione internazionale - racconta - ho lavorato in Francia e in Colombia, nel 2007 in Belgio e l’anno dopo in Spagna. Finché un amico mi ha invitato in Italia, a Genova». La realtà è diversa dal sogno, vendere merce contraffatta per strada e nelle spiagge è l’attività che consente agli immigrati di Dakar di vivere. Fuori dalle regole ma senza lo stigma dei mercanti di morte e dei trafficanti umani. Senegalesi brava gente, come gli italiani all’estero, nell’immaginario collettivo. Quando arriva una sanatoria per i clandestini , Bira Wade Ndiaye finisce nelle mani sbagliate: segue le voci dei vicoli e viene convinto da un truffatore a pagare duemila euro in contanti per una pratica dall’esito «garantito sicuro». Chi lo ha raggirato sarà arrestato ma lui non ha ancora riavuto indietro i suoi soldi messi assieme nel corso di tanti mesi. «Noi senegalesi siamo sempre stati ben visti, fare il vu cumprà non è un lavoro dignitoso ma fino a poco tempo fa consentiva di vivere». Oggi non più, non ci sono soldi e i controlli della Guardia di finanza si sono fatti più intensi, i sequestri di merce contraffatta agli ambulanti sono continui. «Il bisogno spinge a fare ciò che non si vorrebbe ed è sbagliato. Così tanti miei connazionali che prima stavano lontani dai traffici dell’eroina e della prostituzione si sono trovati coinvolti in quei giri. E oggi sempre più senegalesi sono i cella, a Marassi o a Pontedecimo». L’idea di tornare a Dakar si fa strada giorno dopo giorno, Bira Wade Ndiaye ha abbastanza confidenza con il mondo della burocrazia per pianificare il rientro in modo razionale: viene a conoscenza del piano di “accompagnamento” (un modo per incoraggiare l’allontanamento volontario) che consente anche a chi non ha i documenti in regola di rientrare al Paese d’origine, cofinanziato dall’Europa e dal ministero dell’Interno. «La crisi ha travolto per primi gli immigrati, qui non possiamo più vivere - riprende - quasi tutti i miei connazionali ne sono convinti e tanto amici ora vogliono tornare. Ma non sanno come fare e hanno paura di ciò che ritroveranno in patria dopo magari dieci anni di assenza». Per questo è nato il progetto del film-documento: raccontare, attraverso le immagini e tante interviste, la vita reale degli immigrati. Per farla conoscere a chi è in Senegal e ancora sogna di venire. «E dirgli che no, si sta sicuramente meglio in Africa. Nella seconda parte, che realizzeremo a Dakar, presenteremo invece la realtà del mio paese ai miei connazionali che vivono qui e non hanno il coraggio di tornare». Con l’obiettivo di scacciare le paure: «Là oggi si vive meglio che in Italia». Il progetto ha trovato il sostegno di Afet, una delle realtà che operano nel ghetto genovese. Ed è diventato concreto nelle mani del regista Gianfranco Pangrazio (autore della serie di video “Genova, autobiografia del ’68”).

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