Una parte delle recensioni negative di “Shutter Island“, l’ultima fatica di Martin Scorsese, argomenta che il film ha un finale prevedibile e scontato al punto tale da trascinarlo nell’oscuro territorio degli episodi mal riusciti di Scorsese.
Ora, è molto difficile argomentare sul finale di “Shutter Island“ senza rivelarlo, ci provo ma quello che segue è ad alto rischio di spoiler.
Dico subito che “Shutter Island” mi è piaciuto. Mi è piaciuto l’allestimento classicheggiante in cui si aprono squarci tra l’onirico e, molto più spesso, lo piscotico.
In “Shutter Island” il racconto si articola su due piani, l’indagine di Teddy Daniels che cerca la donna scomparsa e quella del pubblico che cerca una verità che si colloca su un piano narrativo più alto.
E’ evidente, già dalle primissime sequenze di “Shutter Island”, che la seconda indagine è quella vera, e non la prima.
Lo “strano” e falso fondale del cielo che si staglia dietro i due protagonisti sulla nave che li conduce all’isola rivela, infatti, più di qualsiasi spiegazione finale. Tra l’altro induceva al sospetto il fatto che tutto il film apparisse pervaso da una istanza “adesso spiego tutto a parole” che suonava male in un thriller vero, indipendentemente da chi l’avesse diretto.
Le trappole e i suggerimenti nel corso del “Shutter Island” sono talmente tanti da farne un elenco: la strana attenzione data alla sostituzione delle sigarette, la sequenza sulla scogliera, la riapparizione della donna scomparsa, la sequenza nella cripta… Insomma è un po’ come se Scorsese fosse a fianco di chi guarda il film dicendo che “Il cinema è sempre stata arte della finzione… bisogna essere pazzi per fare i film. Figurati un film sui pazzi”.
Archiviata la falsa, e oziosa, questione del finale e del thriller mancato, “Shutter Island” rimane un film bellissimo, elegante, labirintico ed ipnotico, dominato da un Di Caprio in uno stato oltre la grazia che delinea un personaggio magnificamente ambiguo ed oscuro di cui non si sa se fidarsi o meno, soprattutto alla fine.
Scorsese, al quale si muovono da tempo accuse di “normalizzazione,” crea un film che sconta una dozzina di tributi al cinema classico e, al pari dei grandi maestri, usa lo strumentario come un grimaldello eversivo per aprirci la strada tra “scale a chiocciola” e “corridoi della paura”, verso una indagine sulla follia collettiva, sulla finzione, sulla violenza che lega le vicende umane più di quanto saremo disposti a concerdere. Scorsese racconta in “Shutter Island” la debolezza umana e la necessità della fuga dal dolore.
Stupefacente, infine, la ricostruzione degli ambienti e dei costumi, maniacale almeno quanto quella de “L’età dell’innocenza”, altro grandissimo e sottovalutato film di Scorsese.