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Singapore è ancora un buon modello di sviluppo?

Creato il 28 giugno 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Maria Dolores Cabras

Singapore è ancora un buon modello di sviluppo?
Alle soglie del terzo millennio Singapore si profila come il modello della più perfetta antipolis moderna, caratterizzata com’è da altissima efficienza tecnologica, largo uso di strumenti informativi, benessere diffuso, eccellenti servizi pubblici (in particolare le scuole e gli ospedali), assenza di disoccupazione, burocrazia efficiente e illuminata, rapporti sociali asetticamente mediati da esclusive esigenze funzionali, totale mancanza di ideologie politiche e di discussione pubblica” [1].

Così, il politologo Zolo aveva descritto il modello di democrazia Asian-style di Singapore: autoritarismo politico e “guardianship” oligarchica, efficienza burocratica, sviluppo economico. Un paradigma di città-stato e successo economico che negli ultimi decenni ha dato lezione di good governance ai suoi vicini Paesi del Sud-Est Asiatico, conquistando la fiducia dei mercati globali, modernizzandosi, tecnologizzando l’apparato produttivo e calamitando un flusso pingue e continuo di investimenti esteri.

Ora che lo scacchiere asiatico, puntellato di nuove economie emergenti in ascesa (dalla Cina all’India, dall’Indonesia al Myanmar), sta progressivamente attraendo gli interessi finanziari di tutto il mondo, prospettandosi come nuova frontiera economica dello sviluppo nel XXI secolo e ora che la globalizzazione e le conseguenze non attese dell’interdipendenza economica hanno esteso la crisi finanziaria mondiale fino alle sponde singaporeane, la piccola e potente economia asiatica inizia a sentire i primi contraccolpi e a decelerare la crescita, facendo emergere alcune fragilità nodali intrinseche nel proprio sistema politico autoritario. L’interrogativo nasce spontaneo: Singapore è ancora un valido modello di sviluppo cui le economie emergenti asiatiche devono conformarsi?

Lo studioso Rodney King riesce a vedere chiaramente le crepe del sistema singaporeano ed è convinto della sua fallibilità, come spiega nel suo libro di analisi “Singapore: mito e realtà”. “Singapore non è un buon modello di sviluppo e nessun Paese in Via di Sviluppo dovrebbe seguirlo come guida. Singapore ha praticamente truffato il mondo con la costruzione del suo successo nazionale. È spaventoso che si debba considerare Singapore come un buon modello da seguire“. E prosegue con tono perentorio: “il suo settore imprenditoriale e la sua capacità innovativa non bastano e sono poca cosa. Ha un piccolissimo settore privato locale, a differenza di quanto può invece dirsi su Corea del Sud e Taiwan, dove ci sono vigorosi culture imprenditoriali. A Singapore, in realtà manca proprio quella” [2].

Krugman già vent’anni prima aveva sostenuto che il tallone d’Achille singaporeano fosse proprio la carenza di efficienza nella gestione dello sviluppo – supportato solo da lavoro e capitale –, mettendo così in discussione l’elemento cardine del mantra del governo di Lee Kuan Yew, quello sul quale aveva costruito non solo la nazione ma anche il suo nazionalismo, non solo il mito della sua competitività insuperabile ma soprattutto l’identità e la tradizione del giovane Stato fin dalla sua indipendenza e fondazione.

Come al successo economico di Singapore hanno concorso una serie fortunata di variabili e circostanze favorevoli, anzitutto la conformazione territoriale e la sua dimensione strategica – un’isola con accesso al mare piccola il giusto tanto da consentire il rigido controllo politico autoritario –, allo stesso modo nel lungo periodo quelle medesime caratteristiche ideali che hanno favorito la buona riuscita delle strategie per lo sviluppo nazionale si sono rivelate inadeguate e inefficaci, facendo affiorare i limiti del sistema singaporeano.

Ad emergere e a minacciare il monolitico Stato-Partito sono alcune tensioni e conflitti di natura sociale e politica, dovuti al rallentamento della crescita del Paese dal 2011 (in conseguenza dell’aumento dei prezzi e dell’inflazione), all’ampliamento della forbice del gap reddittuale intra-nazionale, all’afflusso di capitale umano e forza lavoro straniera (e quindi all’immigrazione), all’oscuramento del primato economico regionale con l’ascesa di nuovi competitor players nell’area e all’incalzante sviluppo economico dei giganti asiatici Cina e India, quindi alla perdita di investimenti diretti ora convogliati verso le nuove economie emergenti.

Il quadro macroeconomico e i limiti allo sviluppo

Se nel 2010 il PIL di Singapore svettava al +15%, appena un anno dopo, nel 2011, scendeva al +5%, sostenuto dalla crescita del settore dei servizi finanziari, di quello manifatturiero e turistico, ma frenato dal rallentamento del comparto dell’elettronica, un tempo fiore all’occhiello del successo economico singaporeano. L’inflazione, generata da un’impennata dell’aumento dei prezzi, è cresciuta del 5,5% gravando sui cittadini e sulle imprese e decelerando i ritmi produttivi, quindi intaccando la competitività della Città-Stato. Ancora tardano a realizzarsi gli obiettivi stabiliti dalla legge finanziaria promulgata per il 2011-2012, criticata per la sua scarsa attenzione alle politiche sociali e ai lavoratori e per il suo populismo, che come sottolinea l’asiatista Nicola Mocci “ha previsto una spesa di S$12,08 miliardi (6% del PIL) per le spese militari, di S$10,9 miliardi per il ministero dell’Istruzione, S$4 miliardi per il ministero della Salute, e soltanto S$1,83 per il ministero delle Politiche Sociali e per i Giovani. I proclami reiterati del partito-governo sull’impegno concreto per la coesione sociale e per i lavoratori meno abbienti rimangono perciò inattuati” [3].

Il gap reddittuale e la disuguaglianza

Il successo singaporeano è stato un miracolo economico di cui però hanno potuto godere per decenni solo in pochi. Il tenore di vita nella Città è molto alto e molto costoso, ricchezza e benessere non sono ampiamente diffusi, così alle prime brusche frenate dello sviluppo la metà della popolazione ha subito una pesante caduta del reddito mentre un quinto vive oggi in povertà.
Il professor Lim Chong Yah aveva lanciato per primo l’allarme avvisando che il coefficiente di Gini, che misura la disuguaglianza della popolazione, aveva sfiorato lo 0,47, molto vicino alla soglia di pericolo e minaccia del patto sociale (quello tacito stipulato tra i vertici e la base) dello 0,5. Si allarga dunque la forbice del reddito tra i ricchi, sempre più ricchi, e i poveri, sempre più poveri [4].

Immigrazione e lavoratori stranieri

I lavoratori stranieri sono oggi un terzo della popolazione singaporeana, per lo più scienziati e tecnici altamente specializzati, chiamati dal governo per supportare la crescita produttiva della Città-Stato, comportando così l’importazione di know-how, alto profilo formativo, conoscenza tecnologica e notevole esperienza pregressa. Aprire le porte al capitale umano straniero ha favorito lo sviluppo e accelerato la crescita, eppure non è stato sufficiente a massimizzare i profitti. La produttività da sola non basta e la rigidità del sistema autoritario non ha stimolato la creatività e l’innovazione, il vero valore aggiunto che consentirebbe a Singapore di tenere stretta a sé gli investitori nella nuova partita asiatica che si gioca con i forti competitori cinesi, indiani, malaysiani e taiwanesi.

I competitors regionali e la perdita di un posto al sole nell’arena internazionale

I nuovi attrattori degli investimenti globali di inizio millennio, Cina e India, hanno di fatto scalzato il primato a Singapore, che ridisegna ora alcune matrici geopolitiche per non venire totalmente soppraffatta dalla potenza della charme offensive dei due giganti asiatici.

L’obiettivo strategico singaporeano è contrastare i tentativi cinesi di imporsi come nuovo “dominus asiatico” assoluto, arbitro degli equilibri e della stabilità finanziaria. Per realizzarlo il governo-partito di Singapore si è attivato sia sul fronte multilaterale sia su quello bilaterale: da una parte incrementa la partecipazione ai Fora multilaterali asiatici, come l’ASEAN [5], promuovendo l’integrazione regionale come attore attivo e la sua istituzionalizzazione per rendere regole di condotta e limiti meno liquidi, quindi meno aggirabili; dall’altra approfondisce le relazioni bilaterali con i Paesi vicini del sud-est asiatico per irrobustire il dialogo strategico e le misure di confidence-building; al tempo stesso rinvigorisce anche i rapporti con la Cina, un mercato immenso per le sue importazioni e un partner strategico, e anche con gli Stati Uniti per decrementare il potenziale egemonico della Cina, coinvolgendoli direttamente nella politica regionale così da incentivarne la progressiva internazionalizzazione e ottenere in cambio il favore dei mercati occidentali e degli investitori.

Avviare terapie d’urto con aumenti salariali e tassazione dei redditi più alti, stimolare la creatività e l’innovazione, contenere l’inflazione e raffreddare la vertiginosa crescita dei prezzi, promuovere politiche sociali e del lavoro che rispondano alle istanze avanzate dalla popolazione e riducano disparità e disuguaglianza, partecipare flessibilmente nella politica regionale e globale: queste le politiche pubbliche che Singapore potrebbe intraprendere per superare i limiti alla crescita del PIL e riproporsi come modello di sviluppo efficiente.

* M. Dolores Cabras è Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università di Firenze)

[1]Palano D., La democrazia senza qualità, Uni Service Trento 2010.

[2]Barnes W., Singapore a poor model for Myanmar, http://www.atimes.com/atimes/Southeast_Asia/NF05Ae01.html, 5.06.2012

[3]Mocci N., Singapore: successi economici e autoritarismo

[4]Mocci N., Clan familiari e poteri finanziari. Singapore nel segno della continuità dopo le elezioni del 2011

[5]Vatikiotis A., Undestanding Asian-style democracy, 11.10.2006


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