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“So tutto di te” di Fabio Tiracchia

Creato il 06 giugno 2012 da Fabry2010

Pubblicato da monicamazzitelli su giugno 6, 2012

“So tutto di te” di Fabio Tiracchia

So tutto di te

Io ti conosco.
Ti vedo ogni giorno, dalle mie finestre.
Vedo casa tua. Il soggiorno, lo studio, la cucina.
So chi sono i tuoi amici. Spio le vostre cene. Vi vedo bere, ridere, scherzare. Vi guardo dalle mie stanze buie e penso che vorrei essere con voi, uno di voi.
So tutto di te.
So dove lavori. Lo so perché ti ho seguito, un giorno. Sono rimasto in macchina, fuori dal tuo ufficio, ti ho visto andare a pranzo con i tuoi colleghi. Poi ti ho seguito di nuovo fino a casa. Ho parcheggiato poco lontano da te. Tu sei entrato nel tuo palazzo, io nel mio, proprio di fronte. Ci abbiamo messo lo stesso tempo ad arrivare, ognuno nel proprio appartamento. Poi tu hai acceso la luce. Io no. Io sono rimasto a guardarti al buio, come sempre.
O quasi.
A volte la accendo anche io, la luce. Sono le serate in cui penso che potrei piacerti, se ti accorgessi di me. Ma tu non guardi mai fuori dalla tua finestra, ti basta quello che succede in casa tua, e quindi non ti accorgi di me, quasi mai. Solo qualche mattina, quando capita che apriamo le finestre alla stessa ora, nello stesso esatto momento, uno di fronte all’altro, i nostri occhi si incrociano e tu mi fai un cenno leggero col capo, un mezzo sorriso di circostanza. Poi ti dimentichi di nuovo di me.
Io no.
Non mi dimentico mai di te.
Nessuna notte, prima di addormentarmi, ho pensieri per qualcun altro, per qualcos’altro. A volte mi dico che anche tu stai pensando a me, mentre non riesci a prendere sonno nel tuo letto, dall’altra parte della strada. Ma è un pensiero che non faccio durare a lungo. C’è un limite anche al mio desiderio di farmi del male.

So tutto di te.
So che musica ascolti, la sento arrivare fino a casa mia, quando tieni le finestre del soggiorno aperte e bevi una birra sdraiato sul divano.
So che film ti piacciono, perché li vedo con te, dietro le tue spalle, dalla mia finestra. Vedo quali libri leggi e vado a comprarli anch’io, per leggerli insieme a te.
So che quando sei allegro metti sullo stereo un cd di Morrissey e balli, e canti a squarciagola. Non ci pensi che qualcuno dalle finestre di fronte possa sentirti, possa vederti.
Io ti vedo.
Io ti guardo.
Vedo quando ti porti a casa gli uomini. Vi sedete sul divano, vicini, gli offri qualcosa da bere. Qualcuno – di solito tu – fa un gesto, mette una mano sulla gamba dell’altro, gli accarezza i capelli. Vi guardo mentre vi baciate. Guardo tutto quello che succede finché non andate di là, nella camera da letto che si affaccia sull’altro lato del palazzo, fuori dalla mia portata.

Hai traslocato qui solo qualche settimana dopo di me. Ti ho visto per la prima volta una mattina d’inverno, aggirarti per quelle stanze nuove, vuote, i pavimenti ingombri di scatoloni.
Ma la tua casa ha fatto presto a prendere una forma. Era come se fosse tutto già chiaro nella tua testa, quali mobili scegliere, come dividere gli spazi, come disporre i quadri alle pareti. In pochi mesi ogni ambiente aveva già assunto la sua forma definitiva.
A casa mia invece ci sono ancora delle stanze vuote, di cui non so cosa fare. Le pareti sono spoglie, come pagine bianche da riempire. Dai soffitti vengono giù lampadine nude. Mi vergogno di questa imperfezione, di essere quello che lascia le cose a metà.
Mi piacerebbe avere una casa come la tua, una casa che parla di me. Vorrei una libreria come quella che vedo nel tuo soggiorno, un divano accogliente e pieno di cuscini come quello su cui si siedono i tuoi amici, delle foto incorniciate che raccontino qualcosa della mia vita.
Mi piacerebbe vestirmi come te.
Avere una barba folta come quella che hai tu.
Ho imparato a studiare i tuoi movimenti, a imitarli, come se i vetri delle finestre che ci separano non fossero altro che le due facce di uno specchio.
Ricalcare i tuoi gesti mi fa sentire bene, mi dà un senso, un’identità.
Una compiutezza.

Un giorno un amico mi telefona. “Ho conosciuto uno che sembra perfetto per te,” mi dice. Organizza un aperitivo insieme ad altre persone. Insiste perché io vada. “Esci, una volta tanto,” mi dice. Quella sera a casa tua le luci sono spente. Sto per un po’ a chiedermi dove sarai, con chi starai passando il tuo tempo. Alla fine decido che tanto vale uscire.

Quando arrivo all’appuntamento scopro che quello che mi vogliono presentare sei tu.
La pancia mi si contrae come un pugno. Mi sento goffo, sciatto, sporco. Inadeguato. Tu mi guardi incuriosito, come se ti stessi chiedendo dove mi hai già visto. Me lo domandi. Qualcuno suggerisce che probabilmente ci siamo incrociati per strada, dato che abitiamo nella stessa via. Allora capisci che sono quello che vedi ogni tanto la mattina, nella finestra di fronte alla tua, quando tiri su le persiane.
Io vorrei scomparire.
Mentre sto cercando di inventare una scusa per andarmene, arriva un amico e mi mette in mano un gin tonic. Mi ci tuffo dentro, mi ci aggrappo come se fosse un salvagente e piano piano comincio a sentirmi meglio. Qualcuno menziona il mio lavoro. Tu dici che lo trovi interessante, mi fai delle domande.
Al secondo giro l’alcool ha sciolto tutto, le inibizioni, la lingua. Mi sento disinvolto, ora, con la testa completamente vuota e una sensazione di calore che mi scioglie il pugno nella pancia.
Gli altri ci lasciano parlare da soli. Tu mi ascolti con attenzione, ridi alle mie battute, scherzi con me, e di colpo mi rendo conto che so come finirà questa serata. So che alla fine andremo via insieme, io e te.
Ed è esattamente quello che succede.
In macchina scherzi sul fatto che non possiamo abitare così vicini senza che uno conosca la casa dell’altro. Sto per dirti che io casa tua la conosco benissimo ma riesco a fermarmi in tempo.
Alla fine mi chiedi di salire da me. Io acconsento, anche se non capisco cosa stia succedendo. Ho la netta sensazione che ci sia qualcosa di sbagliato, qualcosa che non va come dovrebbe. Non mi importa che tu veda la mia casa incompiuta, non mi imbarazza il pensiero dei muri spogli, delle lampadine nude.
Nel piccolo ascensore di casa mia siamo costretti a stare vicinissimi, e tu lentamente mi prendi la mano, me la stringi. Mi dici “Ehi, ciao”, mi sorridi. Io non posso fare a meno di notare che i tuoi occhi non sono del colore che avevo immaginato, che nella tua voce c’è una nota stridula che prima non avevo sentito, che sei leggermente più basso di quello che mi sembrava guardandoti dalla finestra, o stando seduto vicino a te, al bar. Appena chiudo la porta di casa sento già la tua mano sulla mia spalla. Ti metti davanti a me, al buio, cominci a baciarmi piano il collo, mentre mi accarezzi i capelli. Mi abbracci, mi stringi. Io ti contraccambio.
Credo di doverlo fare.
Anche se la tua pelle ha un odore diverso da quello che pensavo.
Anche se la tua barba mi pizzica la guancia.
Contraccambio perché è questo che ci si aspetta da me, date le circostanze.
Mi chiedi di andare in bagno, io ti indico dov’è.
Sento l’acqua che scorre, ti sento canticchiare, sei allegro, forse un po’ brillo.
Vado in soggiorno. Tra poco uscirai dal bagno, tornerai da me, passeremo la notte insieme. Domattina mi chiederai se ho voglia di rivederti.
Mi avvicino alla finestra e guardo casa tua, irrimediabilmente vuota.

Testo e foto di Fabio Tiracchia


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