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Solleone

Da Desian
La scuola è finita da un pezzo ma noi siamo ancora qui, nell'asfalto urbano, sotto un sole ruggente. In attesa delle agognate vacanze (chi prima, chi dopo), i pargoli stanno frequentando i centri estivi.
Passano le loro giornate tra il giardino e i giochi, tra canzoni (che sanno a memoria già il secondo giorno e cantano a squarciagola in ogni momento anche a casa) e gite nel circondario. Fanno nuove amicizie (che magari durano appena lo spazio di due settimane ma che senti vive nei loro racconti), vestono in maglietta e pantaloncini. I sandali sdruciti.
Sembrano bambini di un'epoca remota e contadina, quando la sera la stanchezza li abbrancava e, in un vortice da mago di Oz, li stendeva implacabile nel sonno. Adesso, la sera, crollano addormentati sul divano. Consumati da una stanchezza felice, liquefatti dal loro essere bambini.
E ti viene da pensare che quando erano a scuola arrivavano a sera in modo diverso, anche la stanchezza era un'altra cosa: una tensione, un nervosismo capriccioso. Uno stress.
Così ti dici che la nostra vita, di tutti, organizzata come la conosciamo (scuola-lavoro-casa-mezz'ora di giardinetto di quartiere-compiti-far da mangiare) sembra una follia. Ci consuma ma non ci soddisfa.
Così ti chiedi che bambini sono quelli che alleviamo in certi miti odierni, che adulti saranno (e siamo) da sempre avviati ad un'esistenza fatta di impegni, responsabilità, competizione, ansia da prestazione.
A sei anni, a sette o dieci, l'unica ansia da prestazione che li rende felici e pieni è questa: la stanchezza di una giornata all'aperto, la libertà del gioco. La responsabilità di essere bambini.
Se sapessimo portare con noi, nel nostro viaggio esistenziale, un po' di queste emozioni estive, forse saremmo adulti migliori. Bambini migliori, sicuramente. Chissà.

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