Recensione – Sono una vecchia comunista, di Dan Lungu
(ed. Aìsara, 2012, pp. 204, ISBN 9788861040922)
Un romanzo che non sa di politica né di anti-politica, a dispetto del suo titolo “evocativo”. Questo libro dello scrittore romeno Dan Lungu è un romanzo di vita, di una generazione che ha vissuto, subìto e sconfitto la dittatura ma che ha anche vissuto e subìto la rivoluzione, un passaggio non indolore nelle esistenze di un popolo liberato dal regime, ma che non si sente libero, privo dei mezzi per esserlo.
La struttura linguistica utilizzata dall’autore è apparentemente semplice: l’io narrante è quello di Emilia Apostoae che, trovandosi a riflettere su ciò che dovrà votare alle imminenti elezioni (ed interrogata a tal proposito dalla figlia Alice, alter ego dello scrittore), ripercorre attraverso flashback quella che era la sua vita ai tempi della dittatura di Ceausescu. Le sue riflessioni ironiche, attente, spiazzanti, malinconiche, solo all’apparenza velate di ingenuità, devono assolvere ad un compito ingrato: stabilire se Emilia viveva meglio, in realtà, quando c’era la dittatura, e se essere comunista in un paese come la Romania, per quanto “anacronistico”, sia la vera essenza ed identità di chi, come Emilia, a rivoluzione avvenuta, si ritrova privato del proprio passato, che era vita. Il presente per Emilia è sopravvivenza.
Emilia si trova infatti a considerare, seppur a malincuore, che insieme al regime sono decaduti le fabbriche, i posti di lavoro, la sicurezza economica, le abitudini di una vita benestante -l’appuntamento frequente dal parrucchiere, gli abiti decorosi a disposizione nell’armadio per le immancabili feste cui partecipare, il possesso di un’auto-. Emilia ripercorre la sua storia, soprattutto attraverso il suo lavoro, ciò che concede dignità ad un essere umano, e che ora non ha più.
Il lettore ritrova così Emilia in fabbrica, laddove si snodano le storie della sua famiglia e di quelle degli altri lavoratori, tra cui lo zio Mitu: un personaggio enigmatico, che appare e scompare tra le pagine con un guizzo, colui che spezza la narrazione ufficiale per raccontare Ceausescu attraverso storielle dal sapore di favola. Innesti decisamente originali e dissacranti che il lettore non può prevedere né immaginare e per questo apprezza senza riserve.
I dialoghi sono diretti e fulminei, non implodono mai, noiosi, su stessi.
Nel complesso un romanzo coinvolgente, per la trama -non scontata- e ancor più per lo stile narrativo. Unica “ferita” che mi ha lasciato sulla pelle, che non mi aspettavo e che ho scoperto solo per la casualità di aver recensito il libro dopo un paio di mesi da quando ho terminato di leggerlo, è l’impronta della protagonista: un segno che non ti rimane sulla pelle, né come graffio né come carezza. Dopo qualche tempo ritrovi Emilia, perno di queste pagine a tratti grottesche, e scopri che è stata solo il mezzo per raccontare la storia, ma di sé non ti ha lasciato nulla di indelebile, di insostituibile, di riconoscibile.
“-D’accordo, ho capito. Ma cosa avrà mai fatto il comunismo di così speciale, mamma, da non volertene staccare? Cosa, a parte le bugie, il terrore, le file, la paura… cos’altro ha fatto?-
“-Io parlo della mia vita, Alice, non di quella degli altri. Prima di tutto, il comunismo ha fatto di me una di città.” (p. 54)“Sono in pochi ad avere un Paese bello come il nostro. Ho una borsa piena di fotografie scattate in ferie. Lì dentro c’è tutto il Paese. Ora non ho i soldi nemmeno per farmi la foto per la carta d’identità.
Il fine settimana, cascasse il mondo, facevamo sempre una gita fuori porta, giocavamo a pallavolo o andavamo a visitare i monasteri della Bucovina. Non sempre era facile, per via della benzina razionata, ma ce la cavavamo lo stesso. Chi non se la cavava era perchè non voleva.” (p. 79)
Il mio giudizio: 3/5